giovedì 23 febbraio 2012

Stipendi manager PA, piu' pagato Manganelli.

Stipendi manager PA, piu' pagato Manganelli


Alla Camera un primo elenco dei supermanager che guadagnano piu' di 294 mila euro l'anno.


Il ministro della Pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi ha consegnato alla Camera un primo elenco dei manager della P.a. che guadagnano piu' di 294 mila euro. In base a questa prima ricognizione, lo stipendio piu' alto e' quello del capo della polizia Antonio Manganelli, di 621.253,75 euro. La lista consegnata oggi alle commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera dal ministro Filippo Patroni Griffi non è completa, dal momento che mancano gli eventuali stipendi cumulati dai manager pubblici che ricoprono diversi incarichi.
Inoltre, se è vero che ciascun ministero (incluso Palazzo Chigi) ha consegnato i dati di sua competenza, mancano ancora quelli di alcuni enti pubblici. Il capo della Polizia Antonio Manganelli, dunque, è primo in 'classifica' per lo stipendio più alto, ma non è detto sia il più 'ricco' tra i dirigenti dello Stato, dal momento che alcuni colleghi potrebbero superarlo sommando le retribuzioni ricevute per i diversi incarichi. Ad ogni modo, tutti i nomi nella lista consegnata dal governo al Parlamento, andranno incontro alle riduzioni di stipendio previste dal decreto attualmente all'esame delle Camere, che fissa un tetto retributivo a 294 mila euro. Restano esclusi i dirigenti degli organi costituzionali (Quirinale, Parlamento, Corte costituzionale) e quelli degli enti locali.
STIPENDIO GABRIELLI 364 MILA EURO  - E' di 364.196 euro lo stipendio del capo Dipartimento della Protezione civile Franco Gabrielli. Lo comunica la presidenza del Consiglio, che segnala inoltre che "tra il personale dei ruoli con incarico di struttura" di palazzo Chigi "nessun dipendente supera il tetto del primo presidente della Corte di Cassazione". Dunque, il taglio previsto dal decreto all'esame del Parlamento, per portare gli stipendi al di sotto di 294 mila euro, si applicherà eventualmente soltanto al capo della Protezione civile.
AUTHORITY, PER PRESIDENTI REDDITO 'TOP' 474 MILA EURO  - La retribuzione dei presidenti delle Authority e', al massimo, di 475.643 euro. E' quanto emerge dall'elenco delle retribuzioni nella pubblica amministrazione superiori a 294.000 euro. Gli oltre 475 mila euro sono appannaggio del presidente dell'Antitrust, Giovanni Pitruzella, di Energia e Gas, Pier Paolo Borboni, e di Agcom, Corrado Calabro'. Nel caso di Pitruzzella, pero', e' da segnalare che il presidente e' entrato in carica solo a fine novembre e che lo stipendio 2012 e' stato ridotto a 304 mila euro. Pitruzzella quindi andrebbe inserito tra i presidenti di authority con reddito più basso, come il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, che ha una retribuzione di 387.000 euro. Ancora inferiori gli stipendi di Avcp, Privacy e Covip, che sono sotto quota 294 mila euro. All'Antitrust, inoltre, nel 2012 scatterà una riduzione delle retribuzioni per tutti i componenti. Stesso discorso andrà applicato al segretario generale dell'Agcom e a una quota dei componenti di quella autorità per il 2012, dato che hanno già deciso l'applicazione di una riduzione. E' da notare, peraltro, che il direttore generale della Consob, Antonio Rosati, distanzia con 395 mila euro (più gratifica annuale) anche il presidente Vegas. Per quanto riguarda i componenti e i dipendenti delle diverse autorità, i loro stipendi 2011 sono in una fascia compresa tra i 300 e i 400mila euro circa. Per il 2011 (ma nel 2012 scatteranno le riduzioni) al livello più alto (396.379 euro) si trovano i componenti dell'Antitrust (Antonio Pilati, Piero Barucci, Carla Rabitti Bedogni e Salvatore Rebecchini), di Energia e Gas (Valeria Termini, Luigi Carbone, Rocco Colicchio, Alberto Biancardi) e dell'Agcom (Nicola D'Angelo, Sebastiano Sortino, Enzo Savarese, Stefano Mannoni, Antonio Martusciello, Michele Lauria, Roberto Napoli e l'ex Gianluigi Magri). Un poco più in basso nella classifica dei componenti delle Authority ci sono quelli della Consob (Vittorio Conti, Michele Pezzinga, Paolo Troiano e Luca Enriques) con retribuzioni 2011 a quota 322 mila euro. Da citare, infine, il segretario generale della Consob Gaetano Caputi con una retribuzione di 280.000 euro (ma va aggiunta una gratifica annuale), e i dipendenti dell'Agcom Roberto Viola (325.203,28 euro più contributo di solidarietà) e Antonio Perrucci (292.858,18 euro più incarico da altra pubblica amministrazione, più contributo di solidarietà). Secondo quanto pubblicato anche sui rispettivi siti Internet, Antitrust e Agcom hanno già provveduto ad uniformare per il 2012 gli stipendi dei loro dirigenti al tetto introdotto dal governo Monti. E hanno abbassato le retribuzioni alla cifra percepita dal primo presidente della Corte di Cassazione. L'adeguamento è dunque a 304 mila euro, la cifra inizialmente indicata dal governo (solo successivamente è stato indicato il nuovo trattamento economico del primo presidente della Suprema Corte, che è di 294 mila euro). Per quanto riguarda l'Antitrust, dunque, sia il presidente Giovanni Petruzzella, sia i componenti del collegio Piero Barucci, Carla Rabitti Bedogni e Salvatore Rebecchini percepiscono a partire dal primo gennaio 2012 uno stipendio di 304.951,95 euro. Identica cifra per i vertici dell'Agcom: il presidente Corrado Calabrò e Nicola D'Angelo, Michele Lauria, Stefano Mannoni, Antonio Martusciello, Roberto Napoli, Sebastiano Sortino
DA ISTAT A INPS DIFFERENZE SOSTENUTE REDDITI MANAGER  - Il direttore generale dell'Inps ha uno stipendio più alto di quello del presidente dello stesso ente. E' quanto emerge dai dati comunicati oggi alla Camera, secondo i quali Antonio Mastrapasqua per il suo incarico di presidente dell'Ente previdenziale ha una retribuzione di 216.711,67 euro. E' di 300mila euro, invece, la retribuzione del presidente dell'Istat Enrico Giovannini. Mauro Nori e Massimo Pianese, che presso l'Inps hanno la qualifica di direttore generale, hanno uno stipendio rispettivamente di 377.214,86 euro e 322.841,14 euro. Inoltre, presso l'ente previdenziale hanno uno stipendio al di sopra di quello del primo presidente della Corte di Cassazione i dirigenti: Giuliano Quattrone (333.416,97 euro), Maria Grazia Sampietro (314.371,92 euro), Giuseppe Baldino (306.548,79 euro), Daniela Becchini (296.208,91 euro). Quanto agli altri enti pubblici, l'Aran, l'Agea, l'Inail, l'Agenas, l'Isfol, l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, l'Istituto nazionale di Ricerca metrologica, la Stazione zoologica Anton Dohrn, il Consorzio per l'area di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste, il Parco Appennino, comunicano tutti che i loro dipendenti hanno stipendi inferiori al tetto di 294 mila euro.
PATRONI GRIFFI: MANCA DATO CUMULI STIPENDI, MA LO AVREMO  - "Abbiamo chiesto alle amministrazioni di appartenenza" di fornirci l'elenco degli emolumenti degli alti dirigenti "che sforano" il tetto massimo, individuato dal Governo nello stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione, di circa 294 mila euro. Ma le informazioni ricevute sono al momento incomplete, perché non tutti gli enti hanno inviato i dati richiesti. Lo spiega il ministro della funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, lasciando le commissione Affari Costituzionali e Lavoro della Camera, dopo aver consegnato la lista dei redditi dei 'super-manager' di Stato. Nell'elenco, spiega Patroni Griffi, "mancano i cumuli", e cioé gli eventuali stipendi aggiuntivi che i 'super-manager' percepiscono dallo Stato per altri incarichi. "E non ci sono neanche i benefit - aggiunge - perché noi abbiamo chiesto la retribuzione da contratto". Soprattutto quelli relativi ai cumuli "sono dati - sottolinea Patroni Griffi - che come ministero continueremo a raccogliere, per poter applicare il tetto retributivo" quando il decreto entrerà in vigore. Ad ogni modo, spiega, l'articolo 3 del decreto della presidenza del Consiglio che introduce il tetto agli stipendi dei manager, "prevede che ciascuno dei dirigenti pubblici presenti una dichiarazione annuale all'amministrazione di appartenenza indicando l'esistenza di altri incarichi assunti. Informazioni, queste, che saranno pubbliche". Patroni Griffi racconta di aver voluto consegnare al Parlamento i primi dati disponibili, seppur incompleti: "Era meglio cominciare, in tre giorni non avrei potuto avere di più". E aggiunge di essere pronto a integrare quei dati, se le commissioni lo chiederanno. Intanto, il ministero andrà avanti nel suo 'censimento'. Quanto alla Camera, le commissioni Affari costituzionali e Lavoro formuleranno il parere sullo schema di decreto del governo il prossimo 29 febbraio. L'intenzione dell'esecutivo è che, non appena acquisiti i pareri parlamentari, il tetto agli stipendi sia immediatamente operativo.
FINI PUBBLICA I SUOI, 201MILA EURO IN 2010  - Sono on-line le dichiarazioni dei redditi dal 2008 al 2011 del presidente della Camera Gianfranco Fini. Fini ha aderito alla possibilità, data a tutti i deputati, di pubblicare il proprio stato patrimoniale accanto alla biografia, sul sito della Camera. E da stamattina sono dunque visibili anche sul Web le dichiarazioni depositate ogni anno dal presidente agli uffici di Montecitorio. Per il 2010 Fini ha dichiarato un imponibile di 201.115 euro, su cui gravano 79.649 euro di imposta lorda.

Trattativa, avviso di garanza a Mannino I pm: "Ha fatto pressioni sul 41 bis". - di Salvo Palazzolo



Trattativa, avviso di garanza a Mannino I pm: "Ha fatto pressioni sul 41 bis"

L'ex ministro democristiano, oggi deputato, risulta indagato dai magistrati di Palermo per "violenza e minaccia a un corpo politico": ha ricevuto dalla Dia una convocazione in Procura, sarà interrogato la settimana prossima. Lui replica: "Respingo nel modo più totale ogni sospetto ed anche impressione d'accusa".


Si allunga la lista degli indagati che secondo i pm di Palermo avrebbero avuto un ruolo nella trattativa tra Stato e mafia, avvenuta fra il 1992 e il 1993. La Procura di Palermo ha notificato un avviso di garanzia a Calogero Mannino, ex ministro democristiano, oggi deputato: gli viene contestata l'accusa prevista dall'articolo 338 del codice penale, "violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario". Nella stessa indagine risultano già indagati i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano, il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, il generale dei carabinieri Mario Mori e il suo braccio destro al Ros, il capitano Giuseppe De Donno.  
Il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, i sostituti Nino Di Matteo, Paolo Guido e Lia Sava interrogheranno il senatore Mannino lunedì prossimo, al palazzo di giustizia di Palermo. Top secret l'oggetto dell'audizione. Nell'avviso di garanzia ricevuto dal politico siciliano si parla genericamente di "pressioni" che Mannino avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia cercavano di far revocare.

Il nome di Mannino era già emerso nelle scorse settimane nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Da un documento ritrovato dai pm e dalla Dia di Palermo al ministero dell'Interno era emerso un allarme dei servizi segreti, risalente alla primavera del 1992 (dopo l'omicidio dell'europarlamentare Dc Salvo Lima), per possibili attentati nei confronti di alcuni politici 
siciliani, fra cui proprio Mannino. Secondo i magistrati siciliani, quell'allerta potrebbe essere alla base della trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici di Cosa nostra. Alcuni esponenti delle forze dell'ordine si sarebbero mossi, su input politico, per evitare altri omicidi eccellenti. Ma i boss avrebbero chiesto qualcosa in cambio: dalla revisione dei processi alla revoca del carcere duro.

Non è ancora chiaro, con precisione, chi trattò, da una parte e dall'altra. A giudizio c'è già il generale Mario Mori, protagonista di un dialogo riservato con l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Domani mattina, Mori chiama in tribunale, a sua difesa, l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino.

La replica.

Dopo la notizia del provvedimento, Mannino ha diffuso una nota in cui dice: "Se non fosse il testo dell'invito a comparire lo considererei o uno scherzo o un delirio. Ma vengo sottoposto ancora una volta al martirio della pazienza. E ancora una volta la mia difesa sarà secca ed intransigente. Respingo nel modo più totale ogni sospetto ed anche impressione d'accusa".

Il deputato, che è assistito dagli avvocati Grazia Volo e Nino Caleca, prosegue: "Fantasticare su qualche partecipazione al contesto della cosiddetta trattativa significa alterare i fatti, la loro rappresentazione anche dopo venti anni e tentare di fare di me il capro espiatorio di rappresentazioni da disinformazione, probabilmente quelle che hanno reso impossibile accertare la verità di quegli anni tragici". 

http://palermo.repubblica.it/cronaca/2012/02/23/news/trattativa_avviso_di_garanza_a_mannino_i_pm_ha_fatto_pressioni_contro_il_41_bis-30368845/

Indagato per evasione milionaria il boss della “piccola equitalia”.



Al centro dell'inchiesta c'è Manlio Maggioli, presidente della Camera di commercio di Rimini dal lontano 1994. E' anche a capo di un'azienda per la riscossione dei tributi e di un piccolo impero editoriale. I soldi sarebbero passati - secondo i magistrati di Forlì - da una banca di San Marino e stati fatti rientrare in Italia grazie allo scudo fiscale.

È incaricato dagli enti locali di riscuotere le tasse. È a capo di una specie di “piccola equitalia”. Proprio lui sarebbe coinvolto in una maxi-evasione fiscale da due milioni di euro. Manlio Maggioli, presidente dal 1994 della Camera di commercio di Rimini, editore e proprietario di un’importante concessionaria per lariscossione tributi, nei giorni scorsi si è visto recapitare dai magistrati romagnoli un avviso di fine indagine. L’inchiesta è una di quelle riguardanti il Credito di Romagna, la banca commissariata nel 2009 dall’allora ministro Giulio Tremonti per violazione sulle norme contro ilriciclaggio.

L’uomo, secondo l’accusa, teneva un bel gruzzolo nascosto in una banca di San Marino. Mai dichiarato al fisco. Soldi che poi sono stati “legalizzati” grazie allo scudo fiscale, ricorrendo allafiduciaria bolognese Sofir, e subito rigirati sul Titano. Nonostante tutto fosse stato studiato per mantenere l’operazione riservata, un atto del secondo filone di inchiesta della Procura di Forlì sul Credito di Romagna (commissariato dal ministro dell’Economia e delle Finanze su proposta di Bankitalia nell’estate del 2010 per i legami con l’Ibs di San Marino) ha fatto emergere tutto.

Adesso a cercare di spiegare perché nascondeva all’erario almeno due milioni di euro non è uno dei tanti imprenditori riminesi che tuttora trasferiscono denaro nelle banche di sammarinesi, ma è proprio Maggioli, che tra gli incarichi è stato anche ex presidente del Credito di Romagna. Maggioli che attraverso ha ricevuto dalla Procura forlivese l’avviso di fine indagini insieme con altre 17 persone già nei vari Cda di Credito di Romagna e Ibs (il documento è firmato dal procuratore Sergio Sottani, che a Perugia si occupò del caso G8 Grandi eventi, e dai sostitutiFabio Di Vizio e Marco Forte, autori delle inchieste Varano Re Nero sulle relazioni finanziarie tra Italia e San Marino).

C’è da dire, intanto, che Maggioli sul tema e affini non è nuovo a uscite poco felici. Un paio d’anni fa fece discutere quando dichiarò che, in sostanza, di fronte alla crisi le piccole imprese sono di fatto costrette a evadere. Per non dire dei commenti a metà gennaio sull’inchiesta Criminal Minds (oltre 150 uomini e 45 perquisizioni in mezza Italia per scovare le nuove infiltrazioni malavitose tra le imprese della riviera): “I fatti sono fatti ma io credo- aveva detto a caldo poco più di un mese fa il presidente camerale riminese- che certe notizie a volte vengano in qualche modo esasperate. Penso che possa capitare a qualunque imprenditore, anche il più serio, di trovarsi in contatto con degli ambienti che non sono il massimo della trasparenza. Ma io credo che la stragrande maggioranza del tessuto imprenditoriale riminese non abbia connessioni con la malavita o il denaro sporco. Mi sembra una città troppo trasparente perché questo possa accadere a Rimini. Si sa tutto di tutti, nel bene e nel male”.

Dunque, ora si sa davvero tutto di tutti, nel bene e nel male e anche su Maggioli. Il numero uno della Camera di Commercio, fra l’altro, è proprietario di un gruppo editoriale da oltre 100 milioni di euro di fatturato nel cui core business figura proprio la ‘caccia’ a chi non paga le tasse, per conto degli enti locali, attraverso bollettini e ingiunzioni di pagamento. Nel gruppo Maggioli, fra l’altro, è appena stata chiesta la cassa integrazione per 19 dipendenti (13 settimane, di cui nove a zero ore).

In ogni caso, sarebbero tre i mandati fiduciari accesi da Maggioli per scudare liquidità personale (i due milioni) e titoli azionari depositati all’Ibs: il patrimonio sarebbe transitato sul conto della fiduciaria bolognese Sofir presso Ibs per poi ritornare in un conto della stessa banca del Titano.

Il diretto interessato, intanto, si difende facendo spallucce e dice di non capire il clamore: “La questione dei capitali scudati? È roba vecchia. Si tratta di un condono fatto nel 2009, lo hanno fatto in diversi e l’ho fatto anch’io per mettermi in regola”, osserva Maggioli.

Art. 18.



L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori si intitola "reintegrazione sul posto di lavoro" e disciplina le conseguenze in caso di licenziamento illegittimo (perché effettuato senza comunicazione dei motivi, perché ingiustificato o perché discriminatorio) nelle unità produttive con più di 15 dipendenti (5 se agricole). Inoltre esso si applica anche alle unità produttive che occupano meno di 15 dipendenti (5 nel caso di imprenditore agricolo) se l'azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 se agricola) e in ogni caso se l'azienda occupa complessivamente più di 60 dipendenti. Contrariamente a quanto si afferma comunemente, esso non dispone che il licenziamento sia valido solo se avviene per giusta causa o giustificato motivo. Tale principio, che era (almeno in parte) già stato riconosciuto dal codice civile italiano (art. 2119) per i contratti a tempo determinato e per i licenziamenti senza preavviso, è sancito dall'art. 1 della legge 604/1966 per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato. L'articolo 18 dispone invece che, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, il lavoratore sia reintegrato nel posto di lavoro. Oltre allo stesso lavoratore è concessa la facoltà di optare per il risarcimento del danno. (wikipedia)


Mi domando che cosa ci sia di sbagliato in questo articolo ottenuto dopo anni di lotte sindacali. 


La Marcegaglia, qualche giorno fa sosteneva che i sindacati con l'art. 18 proteggono i ladri e i fannulloni; ma quando ha accettato di assumere personale "suggerito" dalla politica, in cambio di gare di appalto, o dai sindacati, in cambio del silenzio tombale sulle morti bianche avvenute per non aver rispettato i regolamenti della legge 626 sulla sicurezza sul lavoro, non sapeva a che cosa andava incontro?


Certo, adesso che il governo è in mano al tecnico Monti, cadono tutti gli accordi fatti in precedenza: la politica e i sindacati potranno sempre giustificarsi con gli scambisti di voti,usufruitori delle assunzioni, asserendo di non essere stati loro gli artefici dell'abrogazione dell'articolo, mentre sappiamo tutti che è esattamente il contrario, è sempre la politica a decidere con il voto di fiducia e l'appoggio al governo tecnico a decidere che cosa fare o non fare.


Siamo alle solite farse all'italiana, la solita presa per i fondelli. Abbiamo un governo tecnico che non decide nulla e che esegue esattamente ciò che ordina la politica.
In altre parole, hanno nominato un governo tecnico per porre in essere quelle misure che non avremmo accettato e perdonato alla politica, a mo' di simbolico ed affettuoso buffetto-caschetto protettivo che il padre impone al figlio dopo l'ultima sua "bravata".



Malasanità, 11 miliardi spesi invano. - di Chiara Paolin



Convenzioni, rimborsi e false esenzioni: in corsia mancano i soldi, ma più che dei tagli è colpa delle truffe. Di più: oltre il sessantotto per cento dell'intero debito nazionale arriva dal lazio e dalla Campania.

Inutile cliccare, non vi risponderà nessuno. Ieri il sito del ministero per la Salute offriva un edificante rebus a chi voleva farsi un’idea di come sia messa davvero la sanità italiana mentre i disastri dell’Umberto I seppelliscono la residuale fiducia nel sistema pubblico. Nella sezione dedicata al mega ‘Piano di rientro del deficit sanitario’ per le Regioni non virtuose (Piemonte, Liguria, Lazio, Abruzzo, Campania, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna), la documentazione è un cumulo di notizie imperscrutabili. Riunioni, verifiche, richiami, sospensioni delle erogazioni per mancato rispetto dei comportamenti prescritti. Cioè, siccome i commissari non fanno quanto promesso, lo Stato non sgancia un euro dei dieci miliardi stanziati, e tutto rimane in balia del vuoto anestetico. Ma come se ne esce? E qual è il quadro complessivo? Non si sa, ed è un peccato, perché a questo punto la faccenda s’è fatta davvero interessante. Possibile che il semplice avvio delle politiche di risparmio sul sistema sanitario abbia generato un crollo così vertiginoso delle prestazioni o è forse la corposa voce del bilancio statale – 111 miliardi di euro nel 2010 – a rischiare di travolgere la contabilità generale una volta manifestati in rosso (deficit ufficiali) e in nero (ammanchi mostruosi stile Massa Carrara) i suoi veri conti? Risposta ardua. Bisogna recuperare in fretta i 38 miliardi di buco accumulati negli ultimi dieci anni (dati Sole 24 Ore), eppure l’andazzo generale resta tradizionale: spendi, ruba e spandi.

La Corte dei Conti, impegnata stavolta a guardare nel fondo oscuro della Regione Lazio, ha presentato ieri la sua relazione. Renata Polverini sta giostrando un deficit da un miliardo di euro, un miracolo considerato che nel 2006 era di 11 miliardi. Allora, eliminati sprechi e porcherie, ora funziona tutto bene? “Gravissimi fatti illeciti sono stati riscontrati durante il 2011 nel settore della spesa sanitaria – ha detto Angelo Raffaele De Dominicis, procuratore regionale della Corte -. Casi come quello delle convenzioni con il Gruppo San Raffaele, vicenda che con i suoi 137 milioni di euro di sprechi e di truffe, ancorché limitata ad una tipologia di prestazioni sanitarie (la riabilitazione), desta particolare sconcerto e preoccupazione soprattutto ove si consideri che oltre il 68 per cento dell’intero debito sanitario nazionale è costituito dal disavanzo accumulato da due regioni: Lazio e Campania”. Traducendo, il guaio non sono le – indispensabili – manovre di risparmio quanto il continuo folleggiare nella gestione del sistema sanitario. Che, guarda caso, continua a privilegiare le convenzioni con i privati anche a fronte del progressivo calo delle risorse. È stato il ministro dell’economia Mario Monti a metter giù un po’ di numeri lo scorso dicembre nella sua “Relazione generale sulla situazione economica del Paese”: se per la voce ‘ beni e servizi ’ si è sottolineata una cauta contrazione degli aumenti, continua a briglia sciolta la corsa alla medicina convenzionata e accreditata. Un’operazione della Guardia di Finanza, da poco conclusasi dopo tre anni di lavoro in tutta Italia, disegna un vero e proprio scenario malavitoso tra corsie e lettighe (mancanti): danni erariali per 2 miliardi di euro e altri 500 milioni di frode fiscale.

Come? Il campionario è vastissimo: case di cura private che possono ricoverare in convenzione solo per emergenza e invece ospitano chiunque per qualsiasi ragione (Abruzzo), medici di base rimborsati per assistiti inesistenti e iperprescrizione di farmaci (Taranto), false autocertificazioni per ottenere prestazioni in regime di esenzione e interventi estetici spacciati per medicali (Avellino). Notevole l’episodio laziale denominato ‘ Lazzaro’, ovvero un’organizzazione capace di far riconoscere la mutua a 1. 500 cittadini defunti e a 5. 500 persone delle quali non era nota l’identità (ma ai defunti di Frosinone venivano anche pagate le ricette per farmaci acquistati dopo il decesso).

Dunque, per capire perché manchino le risorse, tocca guardare dentro il sistema più che ai tagli del ministero. Lo ha spiegato bene il procuratore della Corte dei conti della Calabria, Cristina Astraldi De Zorzi, per motivare i 300 milioni di danni causati dalla malagestione della sanità regionale: “Novantuno atti di citazione sono stati emessi verso altrettanti dirigenti medici di Azienda sanitaria che hanno percepito indennità non spettanti per avere esercitato attività libero professionale intramuraria – ha detto inaugurando l’anno giudiziario qualche giorno fa -. Tre atti di citazione sono relativi al risarcimento danni nei confronti di sanitari ospedalieri che hanno causato il decesso di pazienti, uno è invece dovuto alla illegittima trasformazione di 76 rapporti di collaborazione coordinata e continuati-va da parte di azienda sanitaria provinciale con conseguente causazione di danno erariale dell’importo di oltre 23 milioni di euro”.

Il ministro Tommaso Padoa Schioppa, nel lontano 2007, aveva tentato la compilazione di un Libro Verde sulla spesa pubblica invocando una diversa qualità della spesa, piuttosto che una strage dei finanziamenti. In quel rapporto si dava per certa la possibilità di spendere con maggior profitto i 680 euro di spesa sanitaria pro capite, ma nella generale sollevazione contro le previsioni di un rigido burocrate nessuno ebbe l’ardire di immaginare che solo cinque anni dopo la cifra sarebbe salita agli attuali 1. 800 euro. La solita Corte dei Conti, analizzando le carte fornite dalle Regioni commissariate (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania e Calabria), ha denunciato la difficoltà di comprendere il reale stato dell’arte a partire dalla compilazione dei bilanci ufficiali: “In alcuni casi il debito è attualizzato, in altri tiene conto solo di valori finanziari – dicevano i magistrati nel 2009 -. I coefficienti di incognita legati alla parifica tra pretese creditorie e scritture contabili, alla possibilità di sovrapposizioni di debiti appartenenti a tranches di deficit diverse, a duplicazioni di pretese, rendono i saldi perennemente provvisori e controvertibili. Ciò senza dire delle stime di copertura, talvolta labili, talvolta caratterizzate da coefficienti variabili”. Credeteci o no, la prossima volta che entrerete in un pronto soccorso, sarà questo il vostro vero problema.

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mercoledì 22 febbraio 2012

Inferno a Baires nel treno dei pendolari. - di Patrizia Antonini



I soccorsi alla stazione di Once
BUENOS AIRES - Le lamiere contorte dei primi due vagoni del treno numero 3772 che sulla linea Sarmiento collega il sud-ovest umile della provincia alla stazione di Once, nel cuore di Buenos Aires, sono il simbolo della tragedia che ha investito l'Argentina, lasciando una scia di decine di morti (le cifre parlano di almeno 50 vittime) e centinaia di feriti (oltre 600, di questi almeno 200 in condizioni molto gravi), nel secondo incidente ferroviario piu' grave nel Paese dagli anni Settanta. Una barriera di transenne ora isola il binario due, il binario della tragedia, avvenuta in una stazione affollata alle 8.33 del mattino, ora di punta e di fuggi fuggi verso i posti di lavoro. Sul treno della morte viaggiavano almeno mille persone. Erano pendolari, stipati, accalcati, come ogni mattina. ''Mi sono reso conto che non stavamo frenando e che la velocita' era un po' piu' forte del solito - racconta Rodrigo -. Io ero nel vagone-furgone, quello dove si possono portare le biciclette. Ero al terzo posto della formazione. Ho visto un bagliore. Ho sentito come un'esplosione Poi ho visto nasi e labbra rotte, gente a terra che urlava. Feriti dappertutto. Le nostre porte erano aperte, io sono uscito subito''. A provocare l'incidente di fatto sarebbe stato un guasto ai freni, con il treno che ha concluso la sua corsa contro il parapetto.

''Non e' cambiato niente. Questi locomotori non hanno sufficiente manutenzione'', accusa Sergio Chacon, reduce da un altro dramma simile. Lui, che nell'incidente ferroviario di Flores, avvenuto il 13 settembre scorso (erano morte 11 persone e 200 erano rimaste ferite) aveva riportato varie lesioni gravi, e' arrivato a Once una ventina di minuti dopo lo scatenarsi della tragedia. ''Dobbiamo continuare a prendere questi treni perche' non abbiamo un'alternativa, ma nessuno li controlla'', grida pieno di rabbia. Un cordone di poliziotti e militari tiene a distanza telecamere, giornalisti e curiosi. Intanto i Vigili del fuoco estraggono gli ultimi cadaveri, nascosti da una barriera di tendoni azzurri con la scritta Tba (Treni di Buenos Aires), mentre si ingrossa la fila dei disperati in processione, in cerca dei propri cari. Piange Francisca. Da stamani cerca sua figlia Lina, partita a bordo del convoglio. Alla centrale operativa mobile del 103 parcheggiata davanti alla stazione, dove gli operatori hanno le liste dei feriti aggiornate ogni mezz'ora, nessuno ha saputo dirle niente. ''E' partita con questo treno per andare al lavoro come tutti i giorni - dice la donna - ma nessuno sa dirmi dove sia''. Anche Ronald Jimenez e' arrivato in cerca del fratello di 22 anni. ''Continuo a chiamarlo al telefono, ma non risponde nessuno'', dice guardandosi attorno spaesato, mentre i giornalisti lo cercano per raccogliere la sua testimonianza. Romina cerca Jonathan, di 27 anni: ''Mio fratello aveva una maglietta nera, con i jeans. Di solito saliva sui primi vagoni per scendere velocemente e arrivare in tempo in ufficio, per favore - dice mentre si tormenta le mani - ditegli di telefonarmi''.
Lucas e' sulle scale per uscire dalla stazione con i suoi compagni: e' uno dei vigili del fuoco che ha tagliato il tetto del primo vagone, per estrarre i passeggeri in trappola. Nell'impatto il secondo vagone e' entrato nel primo, per una profondita' di sette metri. ''Non posso parlare'', dicecol sudore che gli cola dall'elmetto arancione, ''la' c'e' il direttore del Servizio di emergenza, chiedete a lui''. Poi si allontana dal gruppo e confida: ''E' stata una macelleria''. Con i suoi colleghi ha lavorato con un verricello e le barelle per estrarre uno dopo l'altro i feriti. A tre ore dall'impatto, decine erano ancora dentro, col loro bagaglio di sofferenza, annaspando in mezzo ai morti. Un militare che fa parte del servizio d'ordine si avvicina al chiosco, che si trova proprio davanti al binario due. Compra una bottiglia d'acqua. ''E' una tragedia'', sospira, per poi raggiungere velocemente i suoi compagni. ''Stavamo facendo colazione, abbiamo sentito come un'esplosione. Abbiamo pensato ad una bomba, poi abbiamo sentito le urla e la polvere alzata dall'impatto del treno contro il marciapiede'', racconta Carolina Noguera la proprietaria del banco, che ancora non riesce a credere a quello che e' accaduto davanti ai suoi occhi.

"Neutrini più veloci della luce". C'era anomalia negli strumenti.



"Neutrini più veloci della luce" C'era anomalia negli strumenti


Sarebbero dovuti a una cattiva connessione tra un ricevitore gps e un computer i dati registrati a settembre nei laboratori del Gran Sasso che sembravano mettere in discussione la relatività di Einstein. Il fisico Ereditato: "Non è ancora finita".


ROMA - I neutrini non sono più veloci della luce. Le misure rilevate nel settembre scorso 1 sarebbero dovute ad un'anomalia nel funzionamento degli apparati utilizzati per misurare la velocità dei neutrini. Un brusco risveglio per i ricercatori del Cern e dell'Infn, che a settembre avevano registato il clamoroso dato che sembrava rimettere in discussione alcune certezze della fisica.

Secondo fonti citate dall'American Association for the Advancement of Science, l'errore sarebbe da attribuire a una connessione difettosa tra un'unità gps e un computer: "La discrepanza di 60 nanosecondi (tra la velocità dei neutrini e quella della luce, ndr) sembra sia il risultato di un problema con il cavo in fibra ottica che connette il ricevitore gps usato per registrare i tempi di spostamento dei neutrini con una scheda nel computer", si legge su ScienceInsider. "Misurando il tempo che i dati impiegavano a passare nel cavo, dopo aver stretto meglio i connettori, gli scienziati hanno visto che arrivavano 60 nanosecondi prima del previsto. Dal momento che questo tempo è sottratto dal totale", spiega ancora il sito, "ecco spiegata la velocità anomala attribuita ai neutrini". Una scoperta che sembra dunque distruggere le speranze dei ricercatori anche se, precisano le stesse fonti, "ora serviranno nuove verifiche per confermare anche questa ipotesi".

A scoprire l'anomalia negli strumenti di misura è stato lo stesso gruppo di ricercatori del Cern e dell'Infn, guidato dall'italiano Antonio Ereditato, che cinque mesi fa aveva fatto il primo annuncio sulla velocità dei neutrini. Gli scienziati avevano misurato il tempo che un fascio di neutrini originato a Ginevra impiegava a coprire i 730 chilometri che lo separano dai laboratori del Gran Sasso, rilevando una velocità più alta di quella della luce. Un risultato che aveva fatto in poco tempo il giro del mondo, aprendo a scenari fino ad allora ritenuti impossibili dalla fisica.

Per Ereditato "la fine non è ancora arrivata. Importante usare la stessa prudenza che abbiamo avuto in settembre". Quindi si tratterà di verificare tutte le connessioni e le anomalie, e pensare a un nuovo esperimento.

http://www.repubblica.it/scienze/2012/02/22/news/neutrini_pi_veloci_della_luce_c_era_anomalia_in_strumenti-30349960/