venerdì 10 febbraio 2017

Jobs Act, stop a disoccupazione per collaboratori nel 2017. Inps: “Non c’è stata proroga”.

Jobs Act, stop a disoccupazione per collaboratori nel 2017. Inps: “Non c’è stata proroga”

Il Dis-Coll era stato introdotto nel 2015 per Co.co.co e contratti a progetto, e riproposto nel 2016. In assenza di nuova proroga, l’Istituto annuncia la fine delle erogazioni per i “licenziati” quest’anno.

Era stata istituita dal Governo Renzi con il Jobs act in via sperimentale in caso di disoccupazione. Avviata nel 2015, era stata prorogata per il 2016. Ma non per il 2017: per i collaboratori non sarà più possibile ricevere l’indennità di disoccupazione Dis-Coll istituita nel 2015 a fronte delle cessazioni involontarie di contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Pertanto, in assenza di previsione normativa, spiega l’Inps, “non sarà possibile procedere alla presentazione delle domande di indennità Dis-Coll per le cessazioni involontarie dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, verificatesi dal 1°gennaio 2017”.
La misura prevedeva che fosse corrisposta mensilmente per la metà dei mesi di contribuzione presenti nel periodo compreso tra il 1° gennaio dell’anno solare precedente l’evento di cessazione del rapporto di collaborazione e l’evento stesso (con almeno tre mesi di contribuzione accreditata) fino a un massimo di sei mesi. La fruizione dell’indennità Dis-coll non dava diritto alla contribuzione figurativa. La misura della prestazione era pari al 75% del reddito medio mensile se inferiore all’importo di 1.195 euro. In ogni caso l’importo dell’indennità non poteva superare la misura massima mensile di 1.300 euro per l’anno 2015, rivalutato annualmente.
“La prestazione di disoccupazione Dis-coll – istituita in via sperimentale dall’art. 15 del Decreto legislativo n. 22 del 2015 a favore dei collaboratori coordinati e continuativi, anche a progetto, per gli eventi di disoccupazione verificatisi nell’anno 2015 e successivamente prorogata dall’art. 1 comma 310 della Legge n. 208 del 2015 per gli eventi di disoccupazione verificatisi nell’anno 2016, non è stata oggetto di proroga in relazione agli eventi di disoccupazione intervenuti a fare data dal 1° gennaio 2017″, scrive l’Inps. L’istituto di previdenza aggiunge inoltre che “in assenza di previsione normativa, non sarà possibile procedere alla presentazione delle domande di indennità Dis-Coll per le cessazioni involontarie dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, verificatesi dal 1°gennaio 2017″.
I beneficiari – Obiettivo della Dis-coll – che sostituiva l’indennità una tantum prevista dalla legge Fornero – era assicurare un sostegno a co.co.co. e co.co.pro., esclusi amministratori e sindaci, rimasti disoccupati. Per comprovare il proprio status di disoccupato, il richiedente doveva prima presentarsi al centro per l’impiego, dichiarare l’attività lavorativa appena cessata e l’immediata disponibilità a trovare lavoro. I beneficiari dovevano essere iscritti solo alla gestione separata dell’Inps, non potevano essere pensionati né avere partita Iva. Inoltre, dovevano avere versato almeno tre mesi di contributi a partire dal 1 gennaio 2014, di cui una mensilità nel 2015. Quest’ultimo requisito era soddisfatto anche con un mese di lavoro che abbia generato un reddito pari ad almeno 647,83 euro.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/10/jobs-act-stop-a-disoccupazione-per-collaboratori-nel-2017-inps-non-ce-stata-proroga/3381559/

Fanno leggi "pro bono populi" di breve durata per attingere voti durante le elezioni, e le rinnovano solo in caso di "loro" necessità. Naturalmente, se le leggi riguardano una loro agevolazione, le fanno con applicazione retroattiva e con durata "sempiterna". Ma c'è ancora chi crede in loro.....
by Cetta

Infatti:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/10/partiti-defunti-lemendamento-dellex-tesoriere-ds-proroga-la-cassa-integrazione-per-i-dipendenti/3379766/

giovedì 9 febbraio 2017

Sabbia di mare e cemento "truccato" nei palazzi, l'esperto: "Mezza città è a rischio". - Giulio Giallombardo

Sabbia di mare e cemento "truccato" nei palazzi, l'esperto: "Mezza città è a rischio"

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Il presidente dell'Ordine degli architetti di Palermo, Francesco Miceli, torna a chiedere l'istituzione obbligatoria del "libretto del fabbricato" per verificare le condizioni degli edifici e programmare interventi di manutenzione.
Palazzi come castelli di sabbia, che rischiano di sbriciolarsi in pochi anni. Sono alcuni degli edifici della “nuova” Palermo, quelli del “sacco” e del boom edilizio che dagli anni ’60 cambiò il volto della città. Palazzi spesso costruiti con sabbia di mare e cemento “truccato” che, a distanza di una cinquantina d’anni, iniziano a dare i primi segni di cedimento. Per accorgersene basta alzare gli occhi e guardare i tanti prospetti “sfregiati” dagli interventi di messa in sicurezza o i balconi fasciati da teloni verdi, piazzati lì per reggere calcinacci pronti a cadere.
E' impossibile, però, avere dati certi su quali e quanti siano gli edifici più a rischio, dal momento che a Palermo, come nel resto d’Italia, manca una legge che renda obbligatorio il cosiddetto “libretto del fabbricato”, ovvero una sorta di “cartella clinica” sullo stato di salute degli edifici, su cui pesa da anni un dibattito acceso, che contrappone i professionisti del settore edilizio alle associazioni dei costruttori e degli amministratori di condominio. 
“Un dato certo ma non quantificabile, è che sicuramente una parte consistente del nostro patrimonio edilizio, soprattutto quello iniziato a costruire all’inizio degli anni ’60 fino alla metà degli anni ’70, è stato realizzato con procedure costruttive non del tutto accettabili e a norma”. Lo ha confermato a PalermoTodayil presidente dell’Ordine degli architetti di Palermo, Francesco Miceli, che ha sottolineato come le zone più interessate siano quelle dei quartieri nord occidentali della città, ma anche quelle che si trovano a valle della circonvallazione. “Il caso del crollo di via Pagano (11 marzo 1999 ndr) – ha aggiunto Miceli - è il classico esempio di una certa edilizia speculativa fatta con materiali di scarsissima qualità”.
Alla luce di tutto questo, la mancanza del “libretto del fabbricato” è un vuoto normativo non più rinviabile. La sua introduzione consentirebbe di verificare le condizioni statiche degli edifici, individuare le situazioni di rischio e programmare nel tempo interventi di ristrutturazione e manutenzione. “La contraddizione – ha osservato ancora il presidente degli architetti palermitani – è che gli edifici hanno un catasto energetico, con certificazioni obbligatorie per legge in caso di compravendita, senza avere, invece, un’attestazione di sicurezza. Capisco il tema dell’energia e dei consumi, ma secondo me è più importante l’aspetto relativo alla sicurezza delle persone. Per questo, ci siamo sempre battuti affinché il libretto del fabbricato diventi obbligatorio per legge”.
Un appello condiviso anche da altri professionisti del settore, come ingegneri e geologi, ma ancora non raccolto dal Comune di Palermo. A dirla tutta, nel 2005 uno spiraglio sembrò aprirsi quando la giunta Cammarata diede l'ok ad una delibera che approvava il regolamento del Dief, ovvero il Documento identificativo dell’efficienza del fabbricato. Ma dopo l’ok, finì tutto nel dimenticatoio. Recentemente l'idea è stata rispolverata dal vice presidente del Consiglio comunale, Nadia Spallittache lo scorso agosto ha chiesto l’istituzione del “libretto”, sia per gli edifici pubblici che per quelli privati, con la possibilità di agevolazioni fiscali per i proprietari. Una proposta che attende ancora di avere una risposta. 


http://www.palermotoday.it/cronaca/sabbia-di-mare-nei-palazzi-libretto-del-fabbricato.html

Ryder Cup, lunedì a Londra la parola fine? Governo e Federgolf (smascherati) scaricano le colpe e tentano l’ennesima forzatura. - Giordano Cardone e Vendemiale

Ryder Cup, lunedì a Londra la parola fine? Governo e Federgolf (smascherati) scaricano le colpe e tentano l’ennesima forzatura

Senza la garanzia statale da 97 milioni di euro, la società che detiene i diritti della manifestazione potrà revocare all'Italia l'organizzazione della competizione. Per l'esecutivo è lotta contro il tempo. Ma dall'entourage della FederGolf spiegano al Fatto.it: "C’è una percentuale molto alta di possibilità che il torneo non si faccia più da noi".

Hanno provato a infilarla ovunque, nascosta nelle pieghe di provvedimenti che con lo sport non avevano nulla a che fare. Prima nella manovra (alla voce sport e giovani), poi nel decreto fiscale, infine nel Salva-risparmio (con un emendamento a una legge sullo sport dilettantistico). Non hanno mai spiegato: il progetto, le voci di spesa e come i soldi pubblici sarebbero stati impiegati, con la trasparenza come optional neanche preso in considerazione. Sono stati scoperti, sempre. E il tentativo è stato rispedito al mittente, per il merito ma soprattutto per il metodo. Ora, quando il tempo per salvare capra e cavoli è quasi scaduto, la buttano in politica: colpa dei populismo, del partito del “no tutto”, dei disfattisti. E invece se la garanzia statale da 97 milioni di euro per la Ryder Cup di golf è stata bloccata ieri dal presidente del Senato Pietro Grasso e prima ancora dalla Commissione finanze della Camera, la causa è molto chiara: la strada da percorrere era sbagliata. Serviva un’iniziativa alla luce del sole, un disegno di legge ben spiegato. Organizzatori, FederGolf, ministri, premier ed ex premier lo hanno capito solo ora, con colpevole ritardo. Rimedi? Cambiare strategia, all’ultima curva di un percorso compromesso da scelte sbagliate e arroganza di palazzo e di potere.
“Adesso la Ryder Cup è davvero a rischio”. Dall’altra parte del telefono c’è chi sin dall’inizio ha scommesso sull’edizione italiana del torneo di golf più importante al mondo. Risponde alle domande del fattoquotidiano.it, vuole rimanere nell’anonimato ed è molto preoccupato: sa, infatti, che senza la famosa garanzia governativa l’Italia è ad un passo dal perdere la manifestazione che si dovrebbe tenere (condizionale d’obbligo a questo punto) nel 2022 a RomaI 60 milioni già nascosti e approvati nella legge di Bilancio non bastano: secondo quanto apprende ilfattoquotidiano.it, lunedì 13 febbraio scade il tempo a disposizione del Comitato organizzatore per presentare alla società detentrice dei diritti della manifestazione la copertura economica totale dell’evento. Una copertura che al momento non c’è e che rappresenta la conditio sine qua non posta dagli inglesi al momento dell’assegnazione. A questo punto il Milleproroghe, in chiusura in questi giorni al Senato, diventa l’ultimo treno su cui salire in corsa per salvare l’evento. Ma i tempi e i margini di manovra sono strettissimi, e all’interno degli stessi ambienti federali è maturata la consapevolezza che “c’è una percentuale molto alta di possibilità che il torneo non si faccia più da noi”. Appena un anno, due mesi e due giorni dopo lo storico annuncio del dicembre 2015, l’avventura italiana della Ryder Cup potrebbe essere già finita.
Mercoledì mattina, quando in aula Pietro Grasso ha spiegato che l’emendamento firmato dal senatore Turano è inammissibile perché il decreto “serve per tutelare i risparmiatori e non i golfisti o gli organizzatori delle manifestazioni golfistiche”, alla FederGolf è crollato il mondo addosso. Immediatamente sono iniziate le telefonate incrociate tra il Comitato organizzatore, il Coni e il ministero dello Sport: non si aspettavano l’ennesima bocciatura, la terza dopo lo stralcio dalla manovra e dal decreto fiscale per l’opposizione del deputato dem Francesco Boccia alla Camera. Anche perché al Senato tutto sembrava essersi risolto, dopo l’ok della Commissione Finanze. La dichiarazione di inammissibilità è stata un fulmine a ciel sereno, di cui i diretti interessati non hanno nemmeno compreso subito la portata. In Federazione e all’interno del governo pensavano di avere più tempo: infatti avevano già cominciato a ragionare sull’ipotesi di presentare un ddl ad hoc in parlamento, come confermato anche dalle prime dichiarazioni a caldo del presidente Chimenti a Repubblica.it (poi parzialmente ritrattate). Invece adesso siamo alla corsa contro il tempo, come ammette persino il ministro dello Sport, Luca Lotti: “Mi dispiace ma a questo punto vedo la strada un po’ più in salita”.
Lunedì 13 febbraio il Management Board della Ryder Cup Europe si riunirà in Inghilterra: aspetta dal Comitato organizzatore la presentazione dei documenti, comprese tutte le garanzie economiche che sono state sottoscritte nel contratto. A quanto risulta a Il Fatto.it, quel documento prevede, nero su bianco, l’impegno dello Stato italiano per un totale di 157 milioni di euro, la cifra esatta a cui ammonta il business plan dell’evento: 60 milioni di euro (i contributi pubblici che serviranno per triplicare il montepremi dell’Open d’Italia) ci sono, gli altri 97 no. La garanzia è vincolante e la scadenza non più derogabile: per questo adesso è davvero possibile, per non dire probabile, che l’edizione del 2022 salti definitivamente. Contattati da ilfattoquotidiano.it, dall’Inghilterra per il momento preferiscono non sbilanciarsi: “Siamo in costante contatto con la Federazione dal giorno dell’assegnazione e continueremo ad esserlo. Non abbiamo altro da aggiungere” sono le uniche dichiarazioni ufficiali della Ryder Cup Europe, che lascia aperto uno spiraglio. Ma il governo dovrà correre ai ripari entro lunedì. Anzi, prima.
L’ultimo strumento normativo in cui provare a reinserire la garanzia è infatti il Milleproroghe, che però è in dirittura d’arrivo al Senato: il termine per la presentazione degli emendamenti da parte dei senatori è già scaduto, fino a giovedì 9 febbraio possono ancora essere depositate proposte di modifica da parte del governo o del relatore (il senatore Stefano Collina, renziano doc). L’esecutivo sembrava poco orientato a percorrere questa strada, per evitare altre figuracce e non urtare la sensibilità della presidenza che si è già pronunciata negativamente (anche perché anche qui ci sarebbero gli estremi di inammissibilità, e le opposizioni sono ormai sul piede di guerra). Ma a questo punto non sembrano esserci alternative (difficile ipotizzare un decreto d’urgenza ad hoc) e il governo fare un ultimo tentativo: “Ci proveranno ancora”, si dice nei corridoi di Palazzo Madama. In Federazione, invece, hanno deciso di convocare una conferenza stampa d’emergenza per provare a spiegare all’opinione pubblica cosa accadrà. Nell’ordine: che la garanzia non verrà toccata grazie agli accordi con Infront e altri sponsor, che lo Stato guadagnerà dalla manifestazione 83 milioni di euro solo di contributi fiscali e che le varie iniziative previste a favore dei giovani faranno bene a tutto il movimento. Tutto quello che non è stato fatto fino ad oggi, e che qualcuno forse adesso si è pentito di non aver detto prima. La mossa della disperazione per cercare di ottenere il via libera alla garanzia entro il fine settimana, dopo mesi di silenzio e di nessuna trasparenza: sia da parte della politica (che ha infilato le misure pro Ryder Cup in tutte le occasioni possibili e immaginabili) che dagli organizzatori, che non hanno mai risposto alla richiesta di spiegazioni sul progetto. “Non si neghi questa opportunità al nostro Paese solo per una inutile rincorsa al populismo” è l’appello del ministro Lotti. “Qui non è che il golf vuol vincere la candidatura: è già stata acquisita con impegni già presi. A meno che il Paese non voglia fare una figura che si commenta da sola, non dobbiamo aggiungere altro” precisa il numero uno del Coni, Giovanni Malagò.
Se così non sarà, lunedì il comitato organizzatore scriverà una lettera piena di imbarazzo al Board della Ryder Cup, in cui spiegherà che al momento non è stato possibile trovare la copertura governativa per tutte le risorse indicate nel progetto. E proverà a chiedere tempo per rivolgersi ad un altro ente bancario. Ma a quel punto gli inglesi (che pretendono l’impegno diretto dello Stato, e non accettano fidejussioni private) potrebbero davvero decidere che assegnare l’edizione del 2022 all’Italia è stato solo un grosso errore, portando altrove il torneo di golf più prestigioso (e più caro) al mondo. Con grande disagio di chi doveva gestire la questione alla luce del sole e invece ha preferito i giochi di palazzo e di potere.

Gentiloni, Alfano&C: al governo non serve aspettare settembre. - Primo Di Nicola, Antonio Pitoni e Giorgio Velardi

Gentiloni, Alfano&C: al governo non serve aspettare settembre

Tra le ragioni per cui Matteo Renzi ha sostenuto che si debba tornare subito al voto, c’è il fatto che a settembre scatterà il diritto al vitalizio per circa due terzi degli attuali parlamentari. Non è un problema che riguarda i big della politica italiana, né buona parte dei membri del governo in carica: fortunatamente per loro – come racconta Orgoglio e vitalizio
(Paper First, in edicola con il Fatto e in libreria da giovedì), di cui pubblichiamo alcuni stralci – il vitalizio lo hanno già ampiamente maturato.
Hai voglia a dire che “i vitalizi non ci sono più”. Lo ha sostenuto, fra gli altri, anche Rosy Bindi (Pd), politica di lungo corso e presidente della commissione parlamentare Antimafia, a Piazzapulita su La7 del 15 dicembre 2016. 
Ma è davvero così? 
Manco per niente. Il nuovo sistema di calcolo della pensione dei parlamentari (circa 200 euro lordi per ciascuno dei cinque anni della legislatura) è passato dai principi varati agli inizi degli anni Cinquanta al contributivo pro rata dopo l’entrata in vigore della riforma scattata il 1° gennaio 2012. Ma a parte i nuovi eletti alla tornata delle Politiche del 24 e 25 febbraio 2013, a cominciare dall’intera pattuglia di deputati e senatori del Movimento 5 Stelle – che rischiano di restare a bocca asciutta se la legislatura non dovesse arrivare almeno a metà settembre 2017 mentre incasseranno circa mille euro lordi se supereranno questo scoglio – la maggior parte degli onorevoli e dei senatori che attualmente siedono in Parlamento stanno maturando un vitalizio frutto per gran parte del vantaggiosissimo vecchio sistema. E che vitalizio!
La generosa eredità del vecchio sistema
Passando in rassegna i parlamentari in carica, immaginando che la legislatura termini alla scadenza naturale del 2018 e che non vengano rieletti, abbiamo provato a calcolare i vitalizi riscuotibili comunque a 65 o a 60 anni di età a seconda delle legislature collezionate, di molti tra quelli più in vista. Sommando appunto alla quota ante 2012 – frutto del vecchio sistema delle percentuali calcolate sull’importo dell’indennità – quella relativa al nuovo sistema contributivo post gennaio 2012 e che, come detto, per ogni anno di permanenza in Parlamento vale circa 200 euro lordi. Cosa abbiamo scoperto? Che la stessa ex presidente del Pd ed ex ministro della Sanità, sì, proprio lei, Rosy Bindi, incasserà ben 6.469 euro lordi per le cinque legislature ante riforma. Più la quota pro rata del nuovo metodo contributivo e che, per i sei anni che partono dal gennaio 2012, fanno circa altri 1.200 euro. Per un assegno totale di 7.500 euro.
Dalla Bindi all’attuale presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Dopo aver militato negli anni 70 nella sinistra extraparlamentare, l’attuale premier è diventato prima un “rutelliano” di ferro. Terminata l’esperienza al Comune di Roma con l’ex primo cittadino (condita dall’incarico di assessore al Giubileo del 2000), nel 2001 Gentiloni viene eletto alla Camera nelle file della Margherita. Cinque anni dopo, governo Prodi II , diventa ministro delle Comunicazioni. E poi, ancora, ministro degli Esteri dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi, prima dell’incarico più importante: la guida del governo. In capo a questo ragguardevole percorso, Gentiloni ha maturato un vitalizio di circa 5.500 euro, per 4.280 frutto del vecchio sistema e per altri 1.200 del nuovo contributivo. 
I leader della minoranza e le nuove leve dem
Ma andiamo avanti. Nonostante abbia “non vinto” le elezioni del 2013, ritrovandosi in minoranza dentro al suo Partito democratico, anche Pier Luigi Bersani può dormire sonni tranquilli. L’ex segretario del Pd e tre volte ministro (Industria, Trasporti e Sviluppo economico), entrato per la prima volta in Parlamento nel 2001, prenderà infatti tra vecchio e nuovo sistema circa 5.500 euro. Graziosamente accompagnati però anche da un altro robusto vitalizio: quello da ex consigliere dell’Emilia-Romagna, Regione della quale è stato anche presidente dal 1993 al ‘96. La cifra? Calcolata dagli esponenti dei 5 Stelle in Regione ammonterebbe a 4.423 euro lordi al mese.
Da un vecchio a un più giovane parlamentare, sempre razza Pd. Si tratta di Gianni Cuperlo il quale, pure lui, avrà di che consolarsi nel caso non venisse rieletto nella prossima legislatura. L’ultimo segretario della Fgci, la Federazione giovanile comunista italiana, stretto collaboratore di Massimo D’Alema, prenderà infatti un assegno di circa 3.900 euro. Meglio di Cuperlo andrà a Dario Franceschini, il ministro per i Rapporti con il Parlamento del governo Letta e della Cultura prima con Renzi e poi con Gentiloni, che da buon democristiano ha resistito a ogni terremoto interno al Pd. Il primo ingresso di Dario alla Camera risale al 2001. Da quel momento non ha più mollato lo scranno. Circostanza che gli permetterebbe nel 2018 di percepire un vitalizio di circa 5.500 euro lordi. Molto, ma sempre tanto di meno rispetto all’assegno che incasserà Anna Finocchiaro, parlamentare davvero di lungo corso. A lei, tornata a occupare un incarico di governo (ministro per i Rapporti con il Parlamento) con Gentiloni dopo l’esperienza alle Pari opportunità con Romano Prodi, le otto legislature consumate fra Camera e Senato garantiranno un vitalizio da oltre 9 mila euro. Una bella consolazione per una donna-magistrato che ha iniziato la carriera politica nel lontano 1988 come consigliera comunale a Catania tra le file del Partito comunista italiano. (…)
Tra quelli che, se non venissero rieletti, nel 2018 avranno maturato il diritto al vitalizio ci sono anche gli attuali ministri Marianna Madia e Andrea Orlando. La giovane Marianna, 36 anni, pupilla di Enrico Letta e Walter Veltroni, dovrà certo aspettare un bel po’ prima di intascare l’assegno (riscuotibile in base alle regole in corso solo a 60 anni). Comunque sia, la ministra per la Pubblica amministrazione, di cui è rimasta celebre la frase pronunciata il giorno dopo l’annuncio della sua nomina (“Non me l’aspettavo, stavo guardando Peppa Pig”), si è portata avanti col lavoro. E, dovesse andare in pensione alla fine di questa legislatura, porterebbe a casa 3.900 rispettabilissimi euro lordi di vitalizio. Più o meno la stessa cifra che metterà in tasca Andrea Orlando, che di anni d’età ne ha qualcuno in più (47) e che in Parlamento è dal 2006. Le due legislature che il Guardasigilli ha passato alla Camera prima della riforma gli garantiranno una somma pari a 2.713 euro lordi. Che, sommati ai 1.200 del contributivo pro rata porterebbero la sua pensione a toccare i 3.900 euro. (…) 
Angelino sempreverde e il resto del centrodestra
Ma non sono certamente solo “quelli di sinistra” a passarsela bene. Essendo naturalmente il vitalizio un privilegio bipartisan, anche a destra hanno di che gioire. Da chi cominciamo? Dall’ex ministro di Giustizia e Interno, oggi alla guida della Farnesina, Angelino Alfano. L’ormai ex delfino senza “quid” di Silvio Berlusconi è arrivato alla quarta legislatura. La prima volta che mise piede alla Camera, nel lontano 2001, Angelino aveva appena 31 anni ed era considerato uno degli astri nascenti del centrodestra italiano. Sappiamo com’è andata a finire. Nonostante questo, però, Alfano è sempre rimasto in pista. Di legislatura in legislatura. Maturando un vitalizio che, solo per la parte relativa al vecchio sistema ammonterà nel 2018 a circa 4.270 euro lordi al mese. Essendo stato rieletto nel 2013 con il Pdl, salvo poi dare vita in corso d’opera al Nuovo centrodestra, l’ex Guardasigilli incasserebbe poi la quota pro rata portando il suo assegno a circa 5.500 euro.
Meno corposa sarà la cifra che incasserà l’attuale ministra della Salute, Beatrice Lorenzin: circa 3.800 euro lordi. (…)
Che dire poi del vulcanico Renato Brunetta? Anche l’ex ministro per la Pubblica amministrazione, oggi capogruppo di Forza Italia alla Camera, è tra coloro che potrebbero ricevere un vitalizio nel 2018: 3.800 euro circa. Non solo. Nel 2010, quando si candidò per la seconda volta a sindaco di Venezia – fu sconfitto dallo sfidante di centrosinistra Giorgio Orsoni, dimessosi dopo il coinvolgimento nella vicenda Mose – Brunetta rivelò durante una puntata di Otto e mezzo, su La7, di percepire già la pensione da professore universitario. Nello specifico, “3 mila euro netti al mese: la pensione normale di un professore universitario dopo 38 anni di servizio”. (…)
La lunga lista dei privilegiati comprende anche un altro dei pezzi da novanta del centrodestra italiano: Giorgia Meloni. L’ex ministro per la Gioventù del quarto governo Berlusconi, oggi leader di Fratelli d’Italia, è una da sempre in prima linea nella lotta contro pensioni d’oro e privilegi. “Chi difende i vitalizi? Sono i figli della sinistra radical chic, i sessantottini per cui l’uguaglianza è fondamentale, ma solo quando vale per gli altri”, disse a maggio 2015 su Libero. Eppure il vitalizio, un domani, lo prenderà anche lei. La Meloni, infatti, è entrata per la prima volta in Parlamento nel 2006 e da allora non ne è più uscita. Morale: a fine legislatura avrà maturato un assegno da 3.900 euro lordi. (…) 
Gli highlander dell’era Berlusconi
Anche Denis Verdini avrà di che sorridere. Il leader di Ala (Alleanza liberalpopolare-autonomie), imputato in cinque processi, potrà passare alla cassa e riscuotere almeno 5.400 euro lordi, frutto delle quattro legislature trascorse in Parlamento (tre alla Camera e l’ultima al Senato). (…) Grazie alle sette legislature in Parlamento (6 alla Camera e una al Senato), anche lo storico fondatore della Lega Nord Umberto Bossi porterà a casa un assegno notevole: circa 8.200 euro lordi. La stessa cifra che incasserà anche un altro pezzo da novanta del Carroccio, Roberto Calderoli. Sì, proprio l’attuale vicepresidente del Senato padre dell’inviso “Porcellum”, la legge elettorale approvata nel 2005 (poi dichiarata illegittima dalla Consulta) e che lo stesso Calderoli definì “una porcata”. E siccome non c’è due senza tre, o forse sarebbe meglio dire senza quattro, la somma di Bossi e Calderoli la porteranno a casa pure altri due highlander della politica italiana: Fabrizio Cicchitto e Carlo Giovanardi.

Consip, trovato il diario delle tangenti di Alfredo Romeo. L’ex An Italo Bocchino “gli diceva quando e come pagare”. - Vincenzo Iurillo e Marco Lillo

Consip, trovato il diario delle tangenti di Alfredo Romeo. L’ex An Italo Bocchino “gli diceva quando e come pagare”

In una discarica romana i pm della procura di Napoli hanno sequestrato pezzi di carta smaltiti dall'ufficio dell'immobiliarista. È lì dentro che aveva "l’abitudine di abbassare il tono della voce e di scrivere di suo pugno su pezzetti di carta i nomi (iniziali) delle persone e dei destinatari delle tangenti, nonché l’importo e la causale” passando poi il pezzetto di carta al suo interlocutore “conferendo dunque anche forma scritta alle transazioni illecite” I pm Woodcock e Carrano fanno riferimento a “fluviali colloqui” tra l’immobiliarista al centro dell’affaire Consip - dove è indagato anche il ministro Lotti - e l'ex braccio destro di Fini. 

Incontrava gente nel suo ufficio per parlare di affari e appalti. Poi ad un certo punto abbassava il tono della voce e scriveva iniziali e cifre su alcuni pezzetti di carta. Pizzini che venivano subito distrutti e buttati nell’immondizia. Da lì finivano nei cassonetti della spazzatura e quindi in una discarica comunale di Roma. Ed è proprio tra i rifiuti di quella discarica capitolina che gli investigatori hanno trovato quello che potrebbe essere una sorta di diario delle tangenti di Alfredo Romeo.
Solo alcuni degli elementi acquisiti dopo la perquisizione ordinata dalla procura di Napoli negli uffici e nell’abitazione dell’immobiliarista. Romeo è l’imprenditore  al centro dell’affaire Consip, una presunta corruzione su un appalto da 2,7 miliardi di euro, vicenda per la quale sono indagati per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento il ministro Luca Lotti e il comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. L’indagine a carico del braccio destro di Matteo Renzi e di Del Sette è finita per competenza alla procura di Roma.
I pm napoletani Henry John Woodcock e Celestina Carrano invece continuano a indagare su presunti episodi di corruzione collegati ad appalti del gruppo Romeo per le pulizie dell’ospedale Cardarelli di Napoli, e al ruolo di dirigenti e funzionari del capoluogo campano che avrebbero favorito gli interessi dell’immobiliarista, ricevendone in cambio – secondo l’accusa – favori e soggiorni alberghieri. Il decreto di perquisizione eseguito dalla Finanza di Napoli, dal Ros di Napoli e dal Noe di Roma per Romeo e altre due persone ipotizza i reati di concorso esterno in associazione camorristica (per l’assunzione nella ditta di pulizie impiegata nel Cardarelli di soggetti ritenuti vicini ai clan della zona collinare di Napoli), associazione a delinquere e corruzione.
I pm hanno deciso di perquisire, alla ricerca di tracce documentali e finanziarie, dopo aver ascoltato per mesi le conversazioni tra Romeo e uno dei suoi più stretti collaboratori, l’ex parlamentare di An Italo Bocchino. Intercettazioni telefoniche e anche ambientali grazie a un virus spia Trojan installato sui cellulari di Romeo e Bocchino. Conversazioni che, si legge nel decreto, “hanno consentito di acquisire un ponderoso materiale investigativo ed elementi utili per ricostruire quello che si può definire il sistema Romeo ispirato alla corruzione generalizzata e sistematica, alla consumazione sistematica di reati contro la pubblica amministrazione e di reati tributari funzionali alla creazione delle riserve di denaro in nero utilizzate da Romeo per pagare le tangenti”.
Il “ponderoso materiale investigativo” è rappresentato anche dai “pizzini” in cui l’imprenditore indicava la “causale” di tangenti. I foglietti, che erano stati stracciati e buttati nella spazzatura, sono stati recuperati in una discarica comunale a Roma, dove finivano insieme agli altri rifiuti smaltiti dall’ufficio romano dell’immobiliarista  in via Pallacorda. È intercettando quei locali che gli inquirenti si accorgono di un curioso particolare: nel corso dei colloqui nel suo ufficio Romeo aveva “l’abitudine di abbassare il tono della voce e di scrivere di suo pugno su pezzetti di carta i nomi (iniziali) delle persone e dei destinatari delle tangenti, nonché l’importo e la causale” passando poi il pezzetto di carta al suo interlocutore “conferendo dunque anche forma scritta alle transazioni illecite”. È in questo modo che per l’accusa l’imprenditore ha creato una sorta di diario della corruzione. E poco importa se quei foglietti di carta con iniziali e cifre venissero poi strappati e gettati nell’immondizia. “Tali fogli di carta (in alcuni casi anche strappati) – si legge nel decreto di perquisizione – sono stati tutti recuperati, acquisiti e ricostruiti dalla polizia giudiziaria, dunque, ha avuto la possibilità di confrontare e di sovrapporre le risultanze delle intercettazioni ambientali (già di per se chiare e preziose) con quanto contestualmente scritto di pugno dallo stesso Romeo nel contesto delle conversazioni medesime”. Il risultato investigativo raggiunto è stato definito dai magistrati “davvero unico”.
Tra l’altro dall’indagine su Romeo emerge anche il ruolo Bocchino, diventato suo consulente dopo aver seguito Gianfranco Fini nella sfortunata esperienza di Futuro e Libertà. I pm fanno riferimento a “fluviali colloqui” tra l’imprenditore e l’ex colonnello di An durante i quali i due hanno “passato in rassegna e descritto con dovizia di particolari le modalità con le quali hanno approcciato e gestito svariate gare d’appalto in tutta Italia (da Palermo a Napoli, dalla Basilicata a Roma), facendo nomi e cognomi dei soggetti della ‘cosa pubblica’ con la quale hanno intrattenuto rapporti”. Bocchino, si legge nel decreto di perquisizione, avrebbe dato indicazioni a Romeo su “quando e come pagare” e su come “compiacere i rappresentanti della cosa pubblica”.
Notizie che l’ex deputato di Fli definisce “prive di fondamento“. “Escludo nella maniera più categorica – dice Bocchino – di aver discusso con Alfredo Romeo in questi termini. Il mio rapporto con Romeo è stato ed è assolutamente trasparente e non posso nascondere il mio stupore per il fatto che circolino notizie assolutamente false”.

martedì 7 febbraio 2017

Stadio della Roma, Berdini: “Lo voglio fare, ma non diamo le chiavi della città al privato. Il club receda dai suoi appetiti”.

Stadio della Roma, Berdini: “Lo voglio fare, ma non diamo le chiavi della città al privato. Il club receda dai suoi appetiti”

Nel giorno dell'incontro tra il club e i vertici del Campidoglio, l'assessore all'Urbanistica mette in fila i suoi caveat sulla fattibilità dell'operazione prevista a Tor Di Valle: "Il costruttore Parnasi vuole qualcosa come 600 mila metri cubi regalati".

Il nuovo stadio della Roma “lo voglio fare“, ma la società giallorossa deve “recedere dai suoi appetiti“. Tradotto: deve ridurre le cubature del complesso commerciale che dovrebbe sorgere attorno all’impianto sportivo e che rende l’intera operazione sostenibile economicamente. Nel giorno dell’incontro tra il club, il costruttore Luca Parnasi e i vertici del Campidoglio, l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini mette in fila i suoi caveat sulla fattibilità dell’operazione da 1,5 miliardi di euro prevista nell’area dell’ex ippodromo di Tor di Valle.
L’offensiva del club, lanciata in vista dell’incontro previsto nella sede dell’assessorato all’Eur e affidata a Luciano Spalletti e Francesco Totti con lo slogan #FamoStoStadio, risuona ancora su pagine dei quotidiani e social network. La giornata dell’assessore è fitta: prima l’audizione dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie, quindi l’incontro con i vertici dell’As Roma. Ma i giornalisti riescono a intercettarlo prima: “Se stiamo dentro le regole del piano regolatore, come dico da mesi, lo stadio si può e si deve fare – ha spiegato di buon mattino ai microfoni del Gr1 della Rai – sempre che la società receda da appetiti che credo che siano un po’ troppo elevati per quell’area e per questa povera città”. Il tweet con cui Francesco Totti si è schierato a favore della realizzazione dell’opera? “Conta – ha detto l’assessore – però sono le regole che fanno la differenza, altrimenti è una giungla“.
Quali sono gli appetiti di cui parla Berdini? L’accordo tra il Comune e il costruttore risale alla giunta Marino e prevede che Eurnova Srl, società del gruppo Parsitalia che fa capo a Parnasi, costruisca lo stadio e, in cambio delle opere infrastrutturali, ottenga “a titolo di compensazione” la realizzazione di uffici e attività commerciali, affinché il progetto raggiunga l’equilibrio economico-finanziario. “Parnasi vuole insieme allo stadio qualcosa come 600 mila metri cubi regalati – ha spiegato poco più tardi l’assessore a palazzo San Macuto, riferendosi all’imprenditore sui cui terreni dovrebbe sorgere l’impianto – scusate, lui non fa lo stadio… Io sono a favore dello stadio della Roma, l’ho detto dieci volte, sono contro questo gioco della roulette“. Quali sono le condizioni poste dal Campidoglio? Una riduzione del 10/20% delle cubature con conseguente limatura di alcuni piani alle torri destinate a ospitare gli uffici e alcune palazzine dell’area commerciale. Per farlo però serve una delibera che modifichi quella del dicembre 2014 che conferisce pubblica utilità all’opera.
Sollecitato dal deputato del Pd Marco Miccoli, che lo ha accolto in commissione con un cartello con su scritto #famostostadio”, Berdini ha ribadito: “Noi non siamo l’amministrazione del no”. Ma ha posto diversi interrogativi sul futuro della città: “Chi ha scelto quell’area che ha bisogno di un immenso investimento pubblico? Lo ha scelto il privato? E’ questo il futuro delle nostre città? – ha aggiunto Berdini – Diamo le chiavi delle città al privato? Parnasi che blocca la filovia sulla Laurentina ora ci impone di fare un ponte, una metropolitana che non si può fare… è questa la città che pensiamo?”.
Il privato in questione è quel Luca Parnasi, erede di un impero immobiliare che spazia dal colosso di Euroma 2, il megacentro commerciale le cui torri svettano sui tetti del quartiere Eur, fino ai 250mila metri quadri del terzo polo commerciale di Pescaccio, passando per le residenze della Città del Sole costruite con il gruppo Bnl-Paribas e i 10 mila metri quadrati di appartamenti realizzato dove una volta sorgeva l’ex autorimessa Atac nel quartiere Tiburtino.
“Se l’unico strumento è quello della valorizzazione fondiaria – attacca ancora Berdini – cioè se noi non abbiamo altro nel nostro orizzonte culturale che dire che se noi aumentiamo le densità allora forse il privato ci fa la carità di darci quel servizio che manca, e ogni riferimento al dibattito sullo stadio della Roma è assolutamente casuale, noi non andiamo da nessuna parte”.
Dopo aver messo nero su bianco il suo parere negativo sul progetto a Tor di Valle, il 2 febbraio il Comune ha chiesto un mese di tempo in più per dare la risposta definitiva e oggi ha incontrato la società. La riunione, iniziata attorno alle 14.40 nella sede del dipartimento Urbanistica del Comune, all’Eur, è terminata poco dopo le 16. Per il Campidoglio erano presenti, oltre a Berdini, il vicesindaco Luca Bergamo, il presidente dell’aula Giulio Cesare, Marcello De Vito e il capogruppo del M5s Paolo Ferrara. Per la Roma il dg Mauro Baldissoni e il costruttore Parnasi. “È stata una riunione molto costruttiva – ha detto Bergamo uscendo – siamo soddisfatti ci sono dei tavoli tecnici a lavoro da dopodomani, ci vedremo la prossima settimana per fare il punto. Siamo ottimisti”.

La casa di Renzi pagata da Carrai: la procura di Firenze apre un fascicolo.

Matteo Renzi

Dopo un esposto sull'appartamento in cui viveva il premier (affitto era pagato dall'amico Carrai), i magistrati della Procura di Firenze vogliono capire se ci fu scambio di favori tra i due.


Matteo Renzi ha vissuto per quasi tre anni un un appartamento vicino a Palazzo Vecchio, in via degli Alfani 8. Ma a pagare l’affitto è stato l’amico Marco Carrai. 900 euro al mese, che a un certo punto sono diventati 1.200, ha documentato ieri Libero, pubblicando il contratto di affitto, ottenuto dallo stesso Carrai dopo giorni di pressioni. Ora la procura di Firenze, come riportano alcuni quotidiani, ha aperto un fascicolo esplorativo, a seguito di un esposto, per fare luce sui rapporti tra l’ex sindaco e l’imprenditore e verificare se tra i due ci sia stato uno scambio di favori. Al momento non ci sono né ipotesi di reato né indagati e il procuratore aggiunto Giuliano Giambartolomei affiderà le indagini a un pm per verificare che l’interesse pubblico non sia stato danneggiato. Intanto l’opposizione compatta di tutti i partiti ha fatto cadere in conferenza dei capigruppo in Senato la richiesta di chiarimenti del Movimento Cinque Stelle, che da Renzi vorrebbe un chiarimento in aula sul caso affitto e sui rapporti con Carrai.
Il presidente del Consiglio ha vissuto nella casa per 34 mesi, dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio di quest’anno e lì aveva trasferito la sua residenza da Pontassieve (dove vive la moglie coi tre figli) per potere votare nella città che governava. Aveva scelto l’appartamento in via degli Alfani 8 dopo avere lasciato una mansarda dietro Palazzo Vecchio perché l’affitto – da mille euro al mese – era troppo costoso. Il proprietario della casa, scrive il Corriere della Sera, è Alessandro Dini, consigliere di amministrazione della Rototype, azienda il cui sito web è curato da da un’agenzia di comunicazione, Dotmedia. Per Dotmedia lavora come agente il cognato del premier, Andrea Conticini, e suo fratello Alessandro Conticini è tra i soci, con il 20%. Quest’ultimo in passato è stato socio di Eventi6, società della famiglia Renzi. 
Marco Carrai, consigliere del premier vicino a Comunione e Liberazione che in passato ha guidato Firenze Parcheggi, oggi è presidente di Aeroporti Firenze e di Fondazione Open (ex fondazione Big Bang che ha gestito le campagne elettorali di Renzi). La società C&T Crossmedia di cui è socio, inoltre, si è aggiudicata un servizio per visitare Palazzo Vecchio con la guida di un tablet. Ma Carrai in questi giorni è finito nel mirino anche per la vicenda che vede coinvolta Francesca Campana Comparini, sua fidanzata che sposerà a settembre. La ragazza, 26enne laureata in filosofia, è tra i curatori della mostra su Jackson Pollock e Michelangelo, la più importante e prestigiosa a Firenze nel 2014. Si svolgerà a Palazzo Vecchio ed è costata al Comune 375mila euro. I due consiglieri fiorentini di opposizione De Zordo (Per un’altra città) e Grassi (Sel) hanno chiesto al vicesindaco reggente Nardella: “Se una ragazza di 26 anni, laureata in Filosofia e senza alcuna esperienza curatoriale, riceve l’incarico di curare la principale mostra di un grande comune italiano, è perché conosce qualcuno o perché conosce qualcosa?”. Secondo quando pubblicato dal Fatto, Comparini ha soltanto un titolo contro i 62 di un altro curatore della mostra, Sergio Risaliti. E l’unico saggio che ha pubblicato è per il catalogo della mostra di Zhang Huan, commissionato dal Comune di Firenze.