Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 3 gennaio 2020
giovedì 2 gennaio 2020
mercoledì 1 gennaio 2020
martedì 31 dicembre 2019
Autostrade, si stacca parte del soffitto di una galleria vicino a Genova: chiusa la A26. Martedì la concessionaria convocata dal Mit.
Il materiale è crollato all'interno della galleria Bertè nel tratto tra Masone e Ovada, al momento non risultano feriti. La tratta è stata chiusa per permettere le verifiche tecniche di sicurezza. Faccia a faccia al ministero guidato da Paola De Micheli martedì mattina alle 10. Il governatore Giovanni Toti: "Sono allibito". L'ad della concessionaria: "Mi dispiace profondamente. Procederemo con il massimo rigore".
Una parte del soffitto della galleria Bertè tra Masone e Ovada, lungo l’autostrada A26 Genova-Gravellona Toce in direzione del capoluogo ligure, si è staccato nel pomeriggio di lunedì poco prima delle 18.30. Solo per puro caso le lastre di cemento non ha colpito le auto in transito lungo una delle tre corsie. Dopo il crollo, la tratta è stata chiusa tra Masone e il bivio A26/A10 per permettere le verifiche di sicurezza da parte della polizia stradale e dei tecnici di Autostrade. Secondo le prime verifiche, si legge in una nota del concessionario, “si sarebbe verificato il distacco di una ondulina e di parti dell’intonaco a cui era collegata, le cui cause sono in corso di accertamento”. Mentre il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha convocato con urgenza la concessionaria: l’appuntamento è per martedì alle 10 presso la sede del Mit.
Dopo il crollo del ponte Morandi e le verifiche imposte dalla procura di Genova su alcuni viadotti liguri dopo lo scandalo dei presunti falsi report, si tratta di un altro duro colpo alla viabilità in Liguria in giornate di particolare traffico durante le feste. “Ci vorranno almeno 4 ore per poter riaprire in sicurezza”, ha detto l’ad di Autostrade Roberto Tomasi che si trovava proprio a Genova per incontrare il governatore Giovanni Toti e il sindaco Marco Bucci alla ricerca di soluzioni per ovviare ai problemi di traffico in entrata e in uscita dal porto ligure. “Mi dispiace profondamente per quanto successo oggi. Daremo massima attenzione a quello che è successo. I tecnici sono subito intervenuti nella galleria e stanno verificando l’accaduto – ha aggiunto – Procederemo col massimo rigore, su tutti i fronti”.
Immediate le reazioni da parte di esponenti del Movimento Cinque Stelle, Partito Democratico e di Liberi e Uguali. Per tutti “la misura è davvero colma”, e come dice l’ex ministro Andrea Orlando su Twitter, “ora credo sia ancor più difficile contestare le scelte fatte dal governo sul tema concessioni e mi auguro che Aspi ritiri la lettera dei giorni scorsi e chieda scusa”. Un riferimento agli articoli del Milleproroghe, approvato salva intese, che puniscono i concessionari inadempienti. Nessun commento invece dalla quarta anima del governo, i renziani di Italia Viva. Si dice “allibito” il governatore ligure Giovanni Toti: “Questo ulteriore episodio ci lascia allibiti. Da tempo chiediamo di conoscere la situazione di sicurezza di gallerie e viadotti. Ho parlato con il ministro De Micheli che mi pare sia ugualmente allibita”.
Con la convocazione fissata per martedì mattina diventa due i faccia a faccia tra il ministero e la concessionaria. Poche ore prima del crollo i vertici di Autostrade si erano riuniti a Roma con i funzionari del ministero delle Infrastrutture avevano promesso sul piatto la disponibilità a ridurre i pedaggi autostradali in Liguria per circa 10 milioni di euro. Alla riunione voluta dalla ministra Paola De Micheli hanno partecipato il capo di gabinetto del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il direttore generale per la Vigilanza sulle concessionarie autostradali, anche Aiscat, Polizia stradale, Protezione civile e il gestore autostradale. In merito alla situazione delle autostrade della Regione Liguria sono state verificate le soluzioni tecniche per limitare i disagi e accelerare la cantierizzazione inerenti alle verifiche e alla sostituzione delle barriere antirumore e antivento, oltre agli interventi per la sicurezza.
Banca Etruria, Pier Luigi Boschi e altri 13 ex dirigenti a processo per bancarotta colposa.
Secondo la procura di Arezzo i membri del cda e i dirigenti citati a giudizio - compreso il padre dell'ex ministra Maria Elena - non avrebbero vigilato sulla redazione di consulenze che in procura ritengono in gran parte inutili e ripetitive, nonché tali da contribuire all’aggravamento del dissesto dell’istituto di credito.
Pier Luigi Boschi e altri 13 tra ex dirigenti e membri dell’ultimo consiglio d’amministrazione di Banca Etruria affronteranno un processo con l’accusa di bancarotta colposa. La procura di Arezzo ha infatti esercitato la citazione diretta a giudizio nei loro confronti. Questo filone riguarda consulenze per dare un partner alla banca, ma tali da causare il crac, ed è costola autonoma rispetto al maxi-processo per bancarotta già in corso con altri 25 imputati.
Tra le consulenze contestate dalla procura ci sono i 4 milioni di euro pagati per incarichi affidati a grandi società (Mediobanca e Bain) e importanti studi legali, come Grande Stevens a Torino e Zoppini a Roma. Secondo la procura di Arezzo i membri del cda e i dirigenti citati a giudizio – compreso il padre dell’ex ministra Maria Elena – non avrebbero vigilato sulla redazione di consulenze che in procura ritengono in gran parte inutili e ripetitive, nonché tali da contribuire all’aggravamento del dissesto dell’istituto di credito.
Su questo filone risultavano 17 indagati. Ai 14 per cui la procura ha esercitato la citazione diretta a giudizio – e che per le stesse consulenze erano indagati insieme agli altri – si aggiungono l’ex presidente Lorenzo Rosi, l’ex direttore generale Luca Bronchi e l’ex vicepresidente Alfredo Berni: ma questi, già coinvolti nel processo per bancarotta fraudolenta tuttora in corso (Rosi vi è imputato, Bronchi e Berni furono condannati in rito abbreviato in coda all’udienza preliminare), la procura non li ha citati essendo già a processo anche per gli stessi fatti.
La Balla dell’Anno. - Marco Travaglio
Alcuni lettori ci chiedono di premiare la balla più grande dell’anno. Mission impossible: sono troppe, tutte enormi. Però, catalogandole, possiamo premiare la campagna di stampa più demenziale e miserabile del 2019: quella contro il Reddito di cittadinanza. Che sia partito fra mille pasticci, con i centri per l’impiego da sistemare, i tanti navigator ancora da assumere e formare, i molti poveri ancora da raggiungere, i ritardi sugli stranieri, il software in odore di conflitto d’interessi e i pochi posti di lavoro a disposizione, lo sappiamo e l’abbiamo scritto. Ma il risultato è comunque buono, soprattutto per un Paese allergico ai cambiamenti come il nostro: 2,5 milioni di italiani che un anno fa non avevano un euro in tasca (oltre la metà dei “poveri assoluti”), da maggio-giugno ricevono in media 520 euro al mese. Così l’Italia, che fino a due anni fa era l’unico Paese europeo a non fare pressoché nulla per i nullatenenti e solo nel 2018 aveva varato il timidissimo Reddito d’inclusione (Rei: pochi spicci ad appena 900 mila persone), da quest’anno ha invertito la rotta con la più robusta misura anti-povertà mai adottata. Naturalmente la cosa non è passata inosservata: l’idea che i 5Stelle abbiano avuto una buona idea e che si investano 5 miliardi pubblici su chi non ha niente, dopo averne gettati a centinaia per chi ha e ruba di tutto e di più, ha letteralmente sconvolto tutti i partiti. Quelli di destra, dalla Lega a FI, da FdI a Italia Viva. E pure quello che dovrebbe essere di sinistra: il Pd. Ma la vergogna delle vergogne sono i giornali (a parte il nostro e il manifesto), che da un anno fanno il tiro al bersaglio sul Rdc come mai avevano fatto per le decine di leggi vergogna di B.&Renzi e i massacri sociali di Monti&Renzi. All’inizio dicevano che non c’erano i soldi. Poi, siccome i soldi si son trovati, han detto che non si sarebbe mai fatto: i Caf, le cavallette, le piaghe d’Egitto. Poi, siccome si è fatto, han detto che nessuno lo voleva e tutti facevano la fila per rifiutarlo. Poi, siccome di file a Caf e Poste non se ne vedevano, han detto che c’era l’assalto a Caf e Poste per prenderlo. Poi, siccome l’assalto non c’era, han detto che era un flop. Poi, siccome i dati ufficiali parlano di 900 mila domande familiari accolte pari a 2,5 beneficiari, han detto che sono troppi. Poi, siccome s’è scoperto che 2 milioni ancora non lo prendono, han detto che 2,5 milioni sono pochi. Poi, siccome la copertura in pochi mesi è più alta di quella del Rei, han detto che i navigator sono in ritardo. Poi, siccome a boicottarli sono le Regioni governate dagli stessi partiti che li invocano, han detto che il Rdc serve al M5S per comprare voti al Sud.
Poi, siccome il M5S ha dimezzato i voti e le richieste arrivano tanto dal Nord quanto dal Centro e dal Sud, han detto che il Rdc è troppo alto, perché c’è chi lavora e guadagna altrettanto. Poi, siccome i 5Stelle han detto che pagare un lavoratore 800 euro al mese è una vergogna e han proposto il salario minimo, han detto che il Rdc va ai falsi poveri e ai delinquenti e non ci sono controlli per scoprirli. Poi, siccome il governo ha portato le pene fino a 6 anni per quanti truffano col Rdc e Di Maio ha invitato i cittadini a denunciarli, han detto che questi giustizialisti manettari vogliono spiare e arrestare pure i poveri. Poi, siccome i controlli scoprono ogni giorno delinquenti e finti poveri col Reddito, hanno detto che bisogna abolirlo. Come se gli stessi delinquenti e finti poveri non fregassero già lo Stato intascando indebitamente 80 euro, Rei, cassa integrazione, sussidio di disoccupazione, pensione d’invalidità, sgravi e bonus ed esenzioni famigliari, scolastici, sanitari e universitari, e usufruendo di tutti i servizi pubblici senza pagare le tasse per finanziarli, senza che nessuno si sia mai sognato di abolire il Welfare perché molti ne abusano. Nel giro di un mese, il Corriere ha pubblicato ben due “inchieste” a piena pagina degne del Giornale e di Libero, con un florilegio di abusivi: “Chi guida Porsche, chi ha alberghi: ecco i furbetti del reddito. Cantanti neomelodici, fotografi, imprenditori, venditori ambulanti, negozianti, pasticceri, pregiudicati e lavoratori in nero”. Ma tu pensa: non saranno mica gli stessi che evadono le tasse e intascano indebitamente tutti gli altri strumenti di Welfare? E quando mai si son fatte campagne per abolire pure quelli solo perché qualcuno fa il furbo? “Per colpa di qualcuno, non si fa più credito a nessuno” possono dirlo certi negozianti, non lo Stato. E il fatto che fiocchino tante denunce non dimostra che il Reddito non funziona, ma che i controlli funzionano. E aiutano a far emergere non solo i “furbetti del Reddito”, ma anche un’altra fetta dell’economia nera che è la vera tara dell’Italia. Ben protetta da chi s’indigna per il ladruncolo che ruba 500 euro al mese e tace sui ladroni che evadono 120 miliardi all’anno. Infatti strillano contro le manette agli evasori e la blocca-prescrizione.
Tra le mille balle “a grappolo” contro il Reddito, svetta quella sparata da La Stampa il 3 novembre, nell’ansia di dimostrare che Di Maio ha sistemato uno su tre degli elettori del suo collegio: “I delusi del reddito di cittadinanza: ‘Stanchi di non avere nulla da fare’. A Pomigliano d’Arco, il paese natale di Luigi Di Maio, su 39 mila abitanti in 12 mila ricevono un sostegno economico”. Poi s’è scoperto che il dato dei 12 mila percettori del Reddito citato dall’house organ di casa Agnelli-Elkann non si riferisce alla sola Pomigliano, ma a tutti e sei i comuni circostanti che fanno capo al Centro per l’Impiego di Pomigliano: 208 mila abitanti in tutto, non solo i 39 mila di Pomigliano. Dunque il Rdc non va al 33% della popolazione, ma ad appena il 6%. A riprova del fatto che neppure la peggior politica riuscirà mai a eguagliare la migliore informazione.
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Ecco 10 castelli siciliani che dovreste visitare.
Fortezze inespugnabili, maestosi edifici, preziose testimonianze. I castelli siciliani sono questo e molto di più. In tutta l’isola ce ne sono oltre 200 e ognuno di essi porta con sé le tracce di un passato glorioso. Per lo più servivano alla difesa delle località, ma in alcuni casi erano fastose dimore.
Oggi abbiamo pensato di suggerirvene 10 che indubbiamente meritano una visita. Questo non esclude, ovviamente, l’elevato valore di tutti gli altri. Diciamo che potete iniziare da questi e poi lasciarvi ispirare.
10 Castelli Siciliani che meritano una visita
- Castello di Lombardia (Enna). Edificio simbolo della citta, è un imponente fortezza che si erge sul punto più elevato della città. Con i suoi 26.000 m² di superficie è uno dei castelli di epoca medievale più grandi d’Italia, assieme al castello di Brescia e al castello di Lucera[1]. Il castello di Lombardia deve il suo nome a una guarnigione di soldati lombardi posta a difesa dell’antica fortezza durante la dominazione normanna della Sicilia.
- Castello della Zisa (Palermo). È un edificio di grande fascino e bellezza. Dall’arabo al-ʿAzīza, ovvero “la splendida”) sorgeva fuori le mura della città di Palermo, all’interno del parco reale normanno, il Genoardo (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “giardino” o “paradiso della terra”), che si estendeva con splendidi padiglioni, rigogliosi giardini e bacini d’acqua da Altofonte fino alle mura del palazzo reale.
- Castello di Donnafugata (Ragusa). L’attuale costruzione, al contrario di quanto il nome possa far pensare, è una sontuosa dimora nobiliare del tardo ‘800. La dimora sovrastava quelli che erano i possedimenti della ricca famiglia Arezzo De Spuches. Fin dall’arrivo il castello rivela la sua sontuosità: l’edificio copre un’area di circa 2500 metri quadrati ed un’ampia facciata in stile neogotico, coronata da due torri laterali accoglie i visitatori.
- Castello di Venere (Erice). Il castello di Venere è un castello di fattura normanna del XII secolo che sorge su una rupe isolata nell’angolo sud-orientale della vetta del Monte Erice, in provincia di Trapani, costruito sulle rovine di un tempio elimo-fenicio-romano.
- Castello di Sperlinga. È un castello medievale costruito sulla rocca che domina la cittadina di Sperlinga in provincia di Enna, scavato nella roccia arenaria, ricavato da un unico monolite sopra grotte di templi sacre che risalgono a 4.000 anni fa. È dotato di una particolare edificazione nella roccia arenaria.
- Castello di Mussomeli. Noto anche come castello manfredonico, è una fortezza eretta tra il XIV e il XV secolo. Si trova su una rupe, a due chilometri ad est di Mussomeli (provincia di Caltanissetta), ad un’altezza di circa 778 metri.
- Castello di Siculiana. È un castello costruito attorno al 1310 da Federico II di Chiaramonte, figlio di Federico Chiaramonte e Marchisa Prefolio. Posto all’estremità nord-ovest di un costone roccioso, a 85 metri sul livello del mare tra il capoluogo e Sciacca, il castello è stato il fulcro di sviluppo urbano della parte più antica dell’abitato di Siculiana. Era una rocca imprendibile, la sua inespugnabilità era particolarmente dovuta alle sue mura che cadevano a picco sull’orlo della roccia.
- Castello di Castelbuono. In seguito al restauro del 1997 sono emerse le strutture di un edificio precedente al castello dei Ventimiglia, voluto nel 1317 dal conte Francesco I Ventimiglia. L’edificio attuale è il risultato di numerosi rifacimenti, che rendono difficile la ricostruzione del suo originario aspetto. A semplice pianta quadrangolare, mostra all’esterno un misto di stili che in quel periodo influenzavano tutta l’architettura siciliana.
- Castello Rufo Ruffo (Scaletta Zanclea). Arroccato sul punto più alto della rupe, di cui ne asseconda le asperità naturali, il Castello voluto da Federico II di Svevia nel XIII Sec, domina il panorama circostante. Il massiccio impianto trapezoidale e l’elevata verticalità delle pareti sono alleggeriti dalle eleganti bifore che si aprono sui vari prospetti mentre all’interno troviamo ampie sale bene illuminate con alte volte a botte, per cui, più che una cupa e minacciosa fortezza, richiama un “Dongione”, residenza elegante e sfarzosa del Feudatario.
- Castello di Caccamo. È una costruzione difensiva di Caccamo, uno dei più grandi e meglio conservati tra i castelli normanni in Sicilia e in Italia. Il maniero sorge sulla sommità di un imponente roccione, alto 513 metri sul livello del mare, posto alle pendici di Monte Rotondo (m 919) e dominante sulla campagna circostante, la vallata del fiume San Leonardo e la Diga Rosamarina.
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