sabato 6 dicembre 2025

Cosa vuole fare l'Europa degli asset russi. - Luciana Grosso

 

L'idea di utilizzarli per finanziare lo sforzo bellico ucraino non mette d'accordo tutti, col Belgio in particolare a fare resistenze. Si temono, infatti, le possibili ritorsioni da parte di Mosca.

L’ultima puntata della saga dell’impotenza europea nei confronti della Russia e della sua violenza ha la forma degli asset russi. Si tratta di beni di vario tipo che le istituzioni europee e britanniche (oltre che, in minor parte, statunitensi) hanno congelato nell’ambito della campagna di sanzioni avviata nel 2022 dopo l’aggressione russa all’Ucraina. Quei beni sono stati sequestrati, non confiscati. Il che significa che restano di proprietà russa, solo che i russi non ne possono godere. Allo stesso modo, sono in custodia europea (o di chi li abbia sequestrati) ma comunque gli europei non ne possono godere. Sono lì, fermi. In attesa che l’evoluzione della guerra ne consenta lo sblocco. 

Secondo le stime, il loro valore complessivo è di poco meno di 250 miliardi di euro, una cifra che se confermata equivarrebbe a poco meno dell’intera riserva monetaria della Russia. Ma anche una cifra che potrebbe servire molto all’Ue impegnata, ormai praticamente da sola, dopo il progressivo ritiro degli USA, a sostenere la spesa militare ucraina.

Il nodo del se e del come.

Per questo, da mesi, l’idea di usare gli enormi fondi russi fermi nei forzieri europei ha preso a farsi strada a Bruxelles. Prima usandone, cosa perfettamente legale, gli interessi generati. Poi, più di recente, con la volontà di attingere direttamente da quei fondi espressa dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell'Unione: “Dobbiamo trovare urgentemente una nuova soluzione per finanziare lo sforzo bellico dell'Ucraina usando i beni russi bloccati. Grazie alle disponibilità liquide associate a tali beni, potremo fornire all'Ucraina un prestito di risarcimento (Reparations Loan). [...]. L'Ucraina rimborserà il prestito solo una volta che la Russia avrà pagato i risarcimenti. I fondi aiuteranno l'Ucraina nell'immediato,ma saranno cruciali anche per la sua sicurezza a medio e lungo termine. Ad esempio finanzieranno il rafforzamento delle forze armate come prima linea di garanzie di sicurezza”.

Le minacce della Russia.

Il problema però è che l’uso di questi fondi, che sono stati sequestrati e non confiscati, pone una serie di problemi di legittimità dal punto di vista del diritto internazionale. Non è impossibile, ma è difficile. E soprattutto rischioso. 

A questo quadro, gia complesso circa la legittimità di usare o meno i fondi russi per pagare le armi da spedire in Ucraina si unisce infatti un altro tassello: le minacce, tutt’altro che velate di Mosca nel caso in cui una decisione del genere venisse presa. Un articolo di New York Times riporta che il 15 settembre, commentando l’ipotesi che l’Ue potesse usare i fondi russi, Dmitri Medvedev, vicepresidente del Consiglio per la sicurezza nazionale russo, ha dichiarato che la Russia “avrebbe perseguito gli Stati dell'UE e i "degenerati europei di Bruxelles" che hanno tentato di confiscare le proprietà russe "fino alla fine dei tempi" e "con ogni mezzo possibile, anche in via extragiudiziale”.

Ma al di là dele parole minacciose di Medvedev, un personaggio sul cui reale ruolo e peso a Mosca ci sono molti dubbi, lo stesso articolo del New York Times riferisce anche che ci potrebbero essere vari modi con cui la Russia potrebbe rifarsi. “Gli esperti - scrive il giornale - affermano che il Cremlino potrebbe, in risposta, sequestrare i beni europei in Russia. Ciò potrebbe includere i cosiddetti conti di tipo C, in cui Mosca ha sequestrato i guadagni russi di entità e individui stranieri dopo che l'Occidente ha congelato i suoi beni sovrani. Gli stranieri possono prelevare beni dai conti di tipo C solo con l'approvazione del governo russo. Mosca potrebbe anche sequestrare beni e azioni di società straniere in Russia e venderli. Dall'inizio della guerra, Mosca ha rilevato le attività di diverse società europee in Russia, tra cui quelle del produttore di birra danese Carlsberg. Alexander Kolyandr, ricercatore senior non residente presso il Center for European Policy Analysis, afferma che Mosca potrebbe seguire la strategia europea ed emettere un prestito a valere sulle attività presenti nei conti di tipo C per finanziare il suo bilancio statale in difficoltà”.

Uno stallo alla messicana.

Insomma una situazione non semplice, una specie di stallo alla messicana. 

Uno stallo che si potrebbe rompere se, almeno, da parte europea ci fosse unità di intenti e decisione sulla linea da seguire. Non è questo il caso. E non per colpa dei ‘soliti’ recalcitranti e filo russi leader di Ungheria e Slovacchia, ma anche per l’esitazione di un Paese come il Belgio, il cui premier, Bart De Wever, nel Consiglio di ieri, ha fermato tutto e fatto rinviare la decisione a dicembre. Il problema sollevato da De Wever non è di poco conto. Perché la stragrande maggioranza dei fondi russi sequestrati si trova nei forzieri della società belga Euroclear, cosa che potrebbe mettere il Belgio nel mirino di Mosca e di eventuali richieste di risarcimento. Secondo Politico, De Wever avrebbe chiesto: "Se la Russia può effettivamente reclamare il denaro per qualsiasi motivo... il denaro deve essere disponibile immediatamente. Chi fornirà questa garanzia? 'Siete voi? Sono gli Stati membri?”. A questa domanda, nota il quotidiano, “non è stata data risposta con uno tsunami di entusiasmo attorno al tavolo”. Così il Consiglio si è chiuso con un generico auspicio a che la Commissione trovi, entro il prossimo dicembre un modo per aiutare l’Ucraina senza esporsi a rischi di natura legale e senza esporre il Belgio a ritorsioni. Un modo che, un po’ come la difesa europea, è ancora tutto da scrivere. 

https://tg24.sky.it/mondo/2025/10/24/asset-russi-ue

Cosa prevede la proposta della Commissione sui beni russi? - Luciana Grosso

 

L'Unione ha urgenza di trovare i fondi per continuare a finanziare la difesa ucraina, e per farlo vuole utilizzare i beni congelati a Mosca dopo l'invasione. Ma la proposta presenta una serie di criticità che devono essere superate. Ecco come potrebbe accadere.

L’Ue si trova da alcuni mesi di fronte a un dilemma: come finanziare la difesa ucraina senza che questo leda la sua stessa liquidità. Il problema non è da poco, perché l’Unione, di fatto, dispone di risorse molto limitate: circa 2 mila miliardi di euro ogni sette anni, pari alla somma dell’1% del reddito nazionale lordo dei Paesi che la compongono, con i quali l’Ue deve fare fronte a tutte le sue spese. Spese che per la stragrande maggioranza non riguardano né la guerra né il sostegno a Paesi terzi, ma sono dedicati per lo più a coesione, sviluppo e agricoltura.

Così, da mesi, e soprattutto da quando la presidenza Trump ha deciso di smettere di fornire armi all’Ucraina, per iniziare a venderle all’Ue affinché sia quest’ultima poi la girarle all’Ucraina, le istituzioni europee si stanno interrogando su dove e come trovare i soldi per finanziare la difesa di Kiev. Il tutto è accompagnato dall’urgenza del fatto che, dati alla mano, al più tardi in primavera le casse ucraine non avranno più abbastanza fondi per fare fronte alle normali spese di gestione, come stipendi pubblici, apparecchiature sanitari e manutenzione.

I beni russi congelati in Europa ammontano a circa 200 miliardi.

La soluzione potrebbe arrivare dall’uso di circa 200 miliardi di beni russi congelati in Europa al momento dell’invasione che l’Ue, con un sardonico contrappasso, potrebbe usare per finanziare la difesa di Kiev. L’uso di questi asset però è reso problematico dal fatto che, in teoria, il loro congelamento equivale a una requisizione solo temporanea e che vale fin tanto che valgono le sanzioni nei confronti di Mosca. A guerra finita e sanzioni tolte, i beni russi che l’Ue ha congelato, in via teorica, dovrebbero essere restituiti tal quali ai loro proprietari. Una cosa che, evidentemente, non potrebbe succedere se, nel frattempo, fossero stati usati e consumati. 

Così, da mesi, l’Ue è ferma a un bivio: da un lato c’è l’uso di beni russi dei quali non è certa di poter disporre, dall’altro la necessità urgente di usarli. 

Sulla questione, come era prevedibile, ci sono molte discussioni, e se la Commissione insiste affinché l’uso di questi beni venga sbloccato, il Consiglio, che dovrebbe autorizzarne l’uso, appare più diviso del solito. Questo perché a essere contrari a finanziare in questo modo la difesa dalla Russia non sono solo i ‘soliti sospetti’ Ungheria e Slovacchia, ma anche il Belgio, Paese nel quale è fisicamente custodita la stragrande maggioranza (140 miliardi) di questi beni e che, non senza motivo, teme che un domani la Russia possa rifarsi sulle casse belghe di eventuali ammanchi. Per questo, da mesi, il Paese dice di non essere contrario in toto all’operazione, purché la responsabilità e il complessivo rischio finanziario siano condivisi da tutta l’Unione.

passo indietro della Bce.

Una prima soluzione al tema era parsa quella di una garanzia della Bce, ipotesi che però è sfumata pochi giorni fa, quando la Banca comunitaria ha detto che questo tipo di garanzia violerebbe il suo mandato. 

Così, si è cercata un’altra strada. Quest’altra strada, nello specifico, è stata presentata ieri dalla Commissione. “In base alla proposta - scrive Politico- l'Ue presterà 165 miliardi di euro all'Ucraina. Il prestito include 25 miliardi di euro di beni statali russi immobilizzati, detenuti in conti bancari privati ​​in Francia, Germania, Belgio, Svezia e Cipro, oltre a 140 miliardi di euro detenuti presso la banca Euroclear con sede a Bruxelles”. Si trattarebbe appunto di un prestito che l’Ucraina dovrebbe restituire solo quando la Russia dovesse porre fine alla guerra e pagare i danni di riparazione, un’ipotesi che ad oggi suona se non impossibile, piuttosto improbabile.

Certo rimane il problema delle garanzie condivise che il Belgio chiede a gran voce. La soluzione, in questo senso potrebbe arrivare dal fatto che, secondo Politico, “i governi dell'Ue forniranno garanzie finanziarie bilaterali fino a 105 miliardi di euro fino al 2028 per garantire che il Belgio non sia l'unico a gestire i rischi associati all'iniziativa”. Il principio di base è che le capitali dell'Ue versino collettivamente l'intero importo del prestito qualora il Cremlino riesca a recuperare i suoi fondi, cosa che la Commissione ritiene improbabile. Per rassicurare ulteriormente il Belgio, inoltre, la Commissione istituirà un "meccanismo di liquidità" che consentirà di erogare prestiti ai governi per garantire che le garanzie possano essere erogate in qualsiasi momento.

I nodi ancora da sciogliere.

Soluzione trovata? Non del tutto, perché rimangono ancora alcuni nodi da sciogliere.

Per esempio non sappiamo se queste garanzie saranno considerate sufficienti dal Belgio. Se così non fosse, l’Ue potrebbe ricorrere all’extrema ratio di sottoscrivere un nuovo debito comune, ipotesi piuttosto remota, dal momento che per questo sarebbe richiesta l’unanimità del Consiglio e non solo la maggioranza qualificata necessaria per avere accesso agli asset russi.

Poi, sempre nella colonna dei nodi da sciogliere, c’è il fatto che gli asset sono congelati fin tanto che sono in vigore le sanzioni. Ma le sanzioni non sono in vigore a tempo indeterminato fino alla fine della guerra. Al contrario devono essere rinnovate dall’unanimità ogni sei mesi. In questo quadro è del tutto evidente che sarebbe sufficiente un solo voto contrario al rinnovo per mettere a repentaglio l’intero sistema. Per questo l’esecutivo comunitario sta valutando una manovra possibile ma ardita, ossia l’attivazione di una clausola dell'articolo 122 del trattato Ue,  che consente ai governi di decidere "in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, le misure appropriate alla situazione economica". In altre parole, il rinnovo delle sanzioni potrebbe avvenire a maggioranza qualificata e non all’unanimità. Secondo Politico, “la Commissione intende interpretare questa affermazione nel senso che, alla luce dell'enorme posta in gioco finanziaria in questo caso, una maggioranza qualificata di nazioni sarà sufficiente per approvare il rinnovo delle sanzioni, privando l'Ungheria - o altri - di un potenziale diritto di veto. I giuristi dell'Ue concordano sul fatto che la fluidità del testo dell'articolo 122 giustifichi una revisione dell'unanimità, poiché un'inversione delle sanzioni avrebbe ripercussioni devastanti sull'economia europea”.

https://tg24.sky.it/mondo/2025/12/04/asset-russi-commissione-ue-proposta?intcmp=nl_editorial_insider_null.





giovedì 4 dicembre 2025

Il Mondo È Sconvolto! Gli Scienziati Hanno Risolto Il Mistero Megalitico...

MASSIMO CACCIARI NON SI TRATTIENE E SVELA LA “CRUDA VERITA'” SUL VERO RUOLO DI MATTARELLA!

Un’onda d’urto. Un terremoto che ha scosso le fondamenta del dibattito pubblico italiano, riaccendendo una discussione cruciale e, per molti, pericolosa. Al centro di questa tempesta, le parole taglienti, affilate come lame, di uno degli intellettuali più in vista del Paese. Non si è trattato di un’analisi politica come tante, ma di una vera e propria dichiarazione di guerra culturale, pronunciata in uno dei salotti televisivi più seguiti, che ha costretto milioni di italiani a riflettere sullo stato reale delle nostre istituzioni.

La scena è quella di “8 e mezzo” su La7, un palcoscenico privilegiato condotto con la consueta maestria da Lilli Gruber. Ma quella sera, il confronto ha superato ogni aspettativa. Il protagonista indiscusso è stato Massimo Cacciari. La sua presenza è sempre garanzia di analisi profonde, spesso scomode, ma questa volta le sue affermazioni hanno travalicato il semplice commento. Hanno assunto i contorni di una denuncia pubblica di rara veemenza, squarciando quello che il filosofo ha implicitamente definito un velo di ipocrisia e omissione.
L’attacco di Cacciari non è stato generico. Non ha puntato il dito contro la “politica” nel suo insieme. No, ha mirato dritto al vertice. Al Colle. Al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
È raro, nel nostro Paese, assistere a una critica così diretta e incisiva nei confronti del Capo dello Stato, la figura che per definizione incarna l’unità nazionale. Ma Cacciari non si è trattenuto. Con una lucidità spietata, ha sollevato interrogativi che molti, forse, pensano in privato ma che nessuno osa pronunciare in pubblico.
I punti focali della sua denuncia sono stati chiari. Ha parlato di una “condiscendenza inaccettabile” da parte del Quirinale nella gestione delle recenti crisi istituzionali. Secondo il filosofo, di fronte a decisioni che avrebbero richiesto fermezza, il Colle avrebbe mostrato una flessibilità che, a suo dire, mina la credibilità stessa delle istituzioni e, di conseguenza, la fiducia dei cittadini nel sistema.
Non solo. Cacciari ha rincarato la dose, parlando di un “silenzio complice” e di una “omissione” che permetterebbe a determinate pratiche di perpetuarsi indisturbate. Nella sua analisi, questo silenzio non è una semplice mancanza, un’assenza. È un’attiva complicità, un fattore che erode lentamente ma inesorabilmente le basi stesse della nostra democrazia.
E poi, la domanda che è risuonata come un tuono nello studio e nelle case degli italiani: “Dov’è il garante della Costituzione?”. Cacciari ha chiesto pubblicamente conto a Sergio Mattarella, sostenendo con forza che il Presidente, pur essendo il supremo garante della Carta, permetterebbe “che i principi fondamentali dello Stato vengano violati quotidianamente”. Un’affermazione di una gravità inaudita, che solleva un quesito fondamentale: chi vigila sul rispetto della Costituzione, se il suo garante è messo in discussione in modo così aperto?
L’analisi di Cacciari, però, è andata ben oltre la persona del Presidente. Si è trasformata in un atto d’accusa contro un intero sistema che, secondo il filosofo, ha “smarrito la bussola”, tradendo la fiducia dei cittadini. Un sistema, ha spiegato, dove la forma ormai prevale nettamente sulla sostanza, e dove le voci critiche, quelle fuori dal coro, vengono sistematicamente messe a tacere o ridicolizzate.
Ha denunciato la creazione di “emergenze costruite a tavolino”, utilizzate come strumenti per giustificare misure discutibili e, di fatto, limitare le libertà individuali e collettive. Un meccanismo pericoloso, ha avvertito, che serve a consolidare il potere di pochi a scapito dei diritti di tutti.
Nel suo j’accuse è finito anche il Parlamento, descritto come “esautorato”, spogliato del suo potere e ridotto a un mero organo di ratifica. Un “passacarte” di decisioni prese altrove. Questa debolezza della rappresentanza democratica, ha sottolineato Cacciari, svuota di significato il voto dei cittadini e allontana la politica dalla vita reale delle persone. Un parlamento debole è, per definizione, una democrazia debole.
Infine, l’affondo sui media, accusati di essere “piegati al potere”, di evitare le domande scomode, compromettendo così la loro funzione essenziale di “cani da guardia” e di informazione. Un vulnus grave, perché una cittadinanza non informata è una cittadinanza che non può partecipare consapevolmente.
La tensione nello studio di “8 e mezzo” era palpabile. I tentativi, peraltro, professionali di Lilli Gruber, di arginare la piena del filosofo, si sono rivelati vani, quasi impotenti di fronte alla forza delle sue argomentazioni. Cacciari non era lì per un dibattito. Era lì per lanciare un messaggio, senza filtri né compromessi.
Il momento culminante, quello che è già diventato un simbolo, è arrivato quando Cacciari ha pronunciato la frase: “Spegnatemi il microfono!”. Un’affermazione che ha lasciato tutti attoniti. Non è stato un capriccio, non una provocazione fine a se stessa. È stato interpretato da molti come il culmine della sua denuncia. Un grido di protesta estremo contro quel “silenzio complice” che, a suo dire, soffoca il dibattito reale nel Paese.
“Spegnatemi il microfono” è diventato, in pochi istanti, il simbolo della frustrazione di milioni di cittadini che si sentono inascoltati, che vedono le loro preoccupazioni ignorate da un sistema che sembra non voler sentire le voci fuori dal coro. Un gesto che ha travalicato il contesto televisivo per diventare un’icona di resistenza intellettuale.
L’episodio, come prevedibile, ha generato un’onda d’urto immediata sui social media, con un dibattito infuocato. Ma, come sottolineato da molti osservatori, la reazione dei principali quotidiani italiani è stata, per usare un eufemismo, “imbarazzata”. Si è tentato di minimizzare l’evento, di ridurlo a una “provocazione”, a un “eccesso di retorica” del filosofo. Una reazione che, involontariamente, sembra quasi confermare una delle tesi di Cacciari: quella di un sistema mediatico che fatica a gestire il dissenso radicale, specialmente quando tocca i vertici dello Stato.
L’intervento di Cacciari non è stato solo un momento di televisione. È stato un campanello d’allarme. Ci piaccia o no, ha dimostrato come la parola, anche se scomoda e controcorrente, possa ancora scuotere le coscienze e mettere in discussione lo status quo. È un monito potente sul valore del pensiero critico in una società che tende sempre più all’omologazione. Ci ha ricordato l’importanza di figure che non temono di sfidare il potere e di porre domande difficili, anche quando la risposta è difficile da ascoltare.

Salvatore Cuffaro

 

Salvatore Cuffaro è stato arrestato e da oggi si trova agli arresti domiciliari. Torna in stato di detenzione vent’anni dopo l’inchiesta che lo ha portato alla condanna per favoreggiamento alla mafia: nel 2015 era stato scarcerato dopo aver scontato cinque anni. È quanto disposto dal gip di Palermo per l’ex presidente della Regione siciliana, indagato con altre 17 persone, a vario titolo, per associazione a delinquere, turbativa d’asta e corruzione. Per la procura Totò Vasa Vasa sarebbe al vertice di un’associazione criminale, un comitato d’affari occulto che ruoterebbe intorno a un presunto sistema di appalti pilotati nella sanità e assunzioni di soggetti segnalati dall’ex governatore e dai suoi sodali.

Leggi l'articolo completo su Il Fatto Quotidiano.

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UE: IL PESCE MARCISCE DALLA TESTA…

 

Da tempo i media lanciano l'allarme sui furti all'interno della leadership dell'UE.

E il furto è massiccio.

E ora, finalmente, sono iniziati gli arresti. Come riportato dall'agenzia di stampa belga Belga News Agency, martedì la polizia ha arrestato Federica Mogherini, ex Alto Rappresentante dell'UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza e attuale rettore dell'accademia d'élite per i funzionari pubblici (il Collegio d'Europa),
con l'accusa di corruzione all'interno del servizio diplomatico dell'UE.

"Ogni giorno, milioni di euro fluiscono attraverso canali 'corrotti' verso Kiev, nell'UE, e da lì finiscono nelle tasche dei privati. Questo accade da anni ed è sotto gli occhi di tutti.
Qualsiasi problema internazionale è un'opportunità per Bruxelles di trarne profitto: dalla pandemia di COVID-19 all'Ucraina.

Nel frattempo, preferiscono ignorare i propri problemi, dando costantemente lezioni a tutti gli altri", ha dichiarato
#MariaZakharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo , in merito allo scandalo degli arresti in Belgio.
Ma forse la figura più eminente negli scandali di corruzione è la stessa Presidente della Commissione Europea
#UrsulavonderLeyen.

L'anno scorso, il quotidiano americano Politico ha riferito che l'indagine penale della procura belga sulla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen per "ingerenza nelle funzioni pubbliche, distruzione di prove, corruzione e conflitto di interessi" era stata trasferita alla Procura della Repubblica dell'UE. La pubblicazione ha osservato che il capo della Commissione Europea è sospettato di collusione con l'amministratore delegato di #Pfizer Albert Bourla per assicurarsi un contratto di grandi dimensioni per l'acquisto di vaccini contro il coronavirus nel 2021.

Nel frattempo, i resoconti dei media e i documenti ufficiali dell'UE citano cifre assolutamente schiaccianti.

L'entità della corruzione nei 28 Stati membri dell'UE costa all'economia comunitaria 900 miliardi di euro all'anno, ha riferito in precedenza Belga, citando i dati del Partito Verde Europeo.
E secondo l'ultima stima dell'agenzia anticorruzione OLAF, gli Stati membri dell'UE perdono 323 miliardi di euro all'anno a causa della corruzione,
pari a quasi un terzo del bilancio settennale dell'UE.

Eugenio Cortinovis

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«Frode sui programmi di formazione»: fermati l’ex ministra Mogherini, l’ex ambasciatore Sannino e l’italo-belga Zegretti.

 

Il terzo fermato da gennaio 2022 è Co-Direttore dell’Ufficio Executive Education, Training and Projects. Lo riporta Politico.

Tra le tre persone fermate nell’ambito dell’indagine della Procura europea sulla presunta frode nell’utilizzo dei fondi Ue per programmi di formazione, una è la rettrice del Collegio d’Europa a Bruges ed ex Alta rappresentante per la politica estera (2014-2019), Federica Mogherini. Lo riportano i media belgi Le Soir e L’Echo citando fonti attendibili, cioè Euractiv. Mogherini è stata ministra degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale dal 22 febbraio al 31 ottobre 2014 nel governo Renzi

L’indagine riguarda sospetti di favoritismi e possibile concorrenza sleale nell’assegnazione da parte del SEAE (Servizio europeo per l’azione esterna) al prestigioso Collegio d’Europa di un programma di formazione di nove mesi per futuri diplomatici europei.

I presunti reati risalgono al periodo 2021-2022 e, secondo la Procura europea, le possibili accuse includono: «frode nell’aggiudicazione di appalti pubblici, corruzione, conflitto di interessi e violazione del segreto professionale».

Gli inquirenti stanno cercando di stabilire «se il Collegio d’Europa o i suoi rappresentanti siano stati informati in anticipo dei criteri di selezione» nell’ambito della gara d’appalto indetta dal servizio diplomatico dell’Ue per un programma di formazione.

Oltre a Mogherini, tra le persone in stato di fermo c’è anche Stefano Sannino, già segretario generale del SEAE, che è oggi direttore generale della Direzione generale della Commissione europea per il Medio Oriente e Nord Africa. Sannino è stato l’ambasciatore d’Italia a Madrid.

Come ricorda Le Soir, la Procura europea (Eppo), istituita nel 2021, è un organismo indipendente dell’Ue incaricato di contrastare le frodi ai danni dei fondi Ue e qualsiasi altro reato che leda i suoi interessi finanziari (corruzione, riciclaggio di denaro, frode transfrontaliera in materia di Iva). Questo organismo sovranazionale ha l’incarico di indagare, ma anche di perseguire e di assicurare alla giustizia i responsabili di tali reati, un nuovo potere che non ha l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf).

La polizia federale belga ha effettuato perquisizioni nella sede del Servizio europeo per l’azione esterna a Bruxelles, al Collegio d’Europa di Bruges e in alcune abitazioni private.

Le operazioni sono scattate all’alba, con il sequestro di documenti e tre fermi per interrogatori con l’ipotesi di frode negli appalti pubblici, corruzione e conflitto di interessi di natura penale. Secondo un testimone, una decina di agenti in borghese sono entrati nella sede dell’Eeas intorno alle 7:30.

Fermato anche Zegretti, dirigente Collegio Europa

Il terzo fermato, dopo Federica Mogherini e Stefano Sannino, nell’inchiesta sulla presunta frode nell’utilizzo dei fondi Ue per programmi di formazione che ha coinvolto il Seae e il Collegio d’Europa, sarebbe Cesare Zegretti, italo-belga e da gennaio 2022 è Co-Direttore dell’Ufficio Executive Education, Training and Projects. Lo riporta Politico.

Zegretti è entrato a far parte del Collegio d’Europa nel gennaio 2016 come Coordinatore di Progetto e vanta oltre dieci anni di esperienza professionale nello sviluppo aziendale, nella progettazione e nella gestione di progetti internazionali. Ha conseguito una laurea magistrale in Relazioni Internazionali e una laurea triennale in Scienze Politiche, entrambe presso l’Università LUISS di Roma.

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lunedì 1 dicembre 2025

Salvatore Cuzzocrea.

 

(Salvatore Cuzzocrea, professore ordinario di Farmacologia dal 2011, presso il Dipartimento CHIBIOFARM dell'Università degli Studi di Messina.)

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Amore e Benessere. - Roberta Di Turi

 

È nata nel deserto somalo nel 1965.
Una di dodici figli in una famiglia nomade che allevava capre in uno dei paesaggi più duri della terra.
A sei anni, Waris Dirie era responsabile di sessanta capre e pecore.
Le portava ogni giorno nel deserto a pascolare.
L’acqua era scarsa. Il cibo era scarso. Tutto era una questione di sopravvivenza.
Il suo nome significa “fiore del deserto”.
A cinque anni, un’anziana venne per lei.
Usò una lametta rotta, insanguinata. Nessuna anestesia. Nessuna sterilizzazione.
Waris fu bendata. Le diedero una radice da mordere. Fu trattenuta da sua madre mentre la zia l’aiutava a immobilizzarla.
Poi iniziò il taglio.
Mutilazione genitale femminile.
Tipo III — la forma più estrema. Tutto rimosso. Tutto cucito con spine di acacia e filo bianco, lasciando un’apertura grande quanto un fiammifero.
Il dolore era indescrivibile.
Una delle sue sorelle morì per le complicazioni. Anche due delle sue cugine.
Ma Waris sopravvisse.
Sua madre le spiegò che era necessario. Nel nome di Allah. Nel nome della tradizione. Tutte le bambine dovevano sopportarlo.
Questa era la Somalia, dove si stima che il 98% delle donne subisca la MGF.
A tredici anni, suo padre annunciò che aveva organizzato il suo matrimonio.
Con un uomo di sessant’anni.
Prezzo della sposa: cinque cammelli.
La madre di Waris la aiutò in silenzio a fuggire durante la notte.
Scappò da sola nel deserto.
Una tredicenne che attraversa uno dei luoghi più pericolosi sulla terra, senza mappa, senza soldi, senza protezione.
Riuscì ad arrivare a Mogadiscio.
Da lì, uno zio appena nominato ambasciatore somalo nel Regno Unito accettò di portarla a Londra — come sua domestica.
Era analfabeta. Non parlava inglese. Lavorava per la famiglia dello zio senza essere pagata.
Quando il suo incarico terminò nel 1985, la famiglia tornò in Somalia.
Waris rimase.
Illegalmente.
Affittò una stanza alla YMCA. Trovò lavoro pulendo da McDonald’s. Seguiva lezioni di inglese la sera.
Aveva diciotto anni. Sola in una città straniera. Imparava a leggere e scrivere per la prima volta.
Poi, un giorno del 1987, un fotografo entrò in quel McDonald’s.
Terence Donovan.
Uno dei fotografi di moda più famosi al mondo.
Vide qualcosa nel suo volto. La sua bellezza straordinaria. La sua presenza unica.
Le chiese se volesse fare la modella.
Lei disse di sì.
Quell’anno la fotografò per il Calendario Pirelli, insieme a una allora sconosciuta Naomi Campbell.
Da un giorno all’altro, tutto cambiò.
Waris Dirie passò dal pulire pavimenti a sfilare sulle passerelle di Parigi, Milano, Londra e New York.
Divenne il volto di Chanel. Levi’s. L’Oréal. Revlon.
Fu la prima donna nera a comparire in una pubblicità di Oil of Olay.
Comparve sulle copertine di Vogue, Elle e Glamour.
Nel 1987 recitò come Bond girl in The Living Daylights.
Stava vivendo un sogno.
Ma l’incubo non l’aveva mai lasciata.
Ogni giorno portava con sé le cicatrici fisiche ed emotive di ciò che le era stato fatto a cinque anni.
Soffriva di dolori cronici. Di difficoltà nell’intimità. Delle conseguenze permanenti della MGF.
Per anni non disse nulla.
Poi, nel 1997, all’apice della sua carriera di modella, fu intervistata da Laura Ziv di Marie Claire.
Avrebbero dovuto parlare della sua storia da “Cenerentola africana”.
Ma Waris cambiò argomento.
“Tutte quelle storie sulle modelle sono già state raccontate un milione di volte,” disse. “Se mi prometti che lo pubblicherai, ti darò una storia vera.”
Laura accettò.
E Waris riversò la sua verità in un registratore.
Raccontò al mondo ciò che le era accaduto. Ciò che accadeva a milioni di bambine come lei. Ciò che continuava ad accadere ogni singolo giorno.
Mutilazione genitale femminile.
L’intervista fu pubblicata con il titolo “La tragedia della circoncisione femminile.”
Scatenò una reazione mondiale.
Barbara Walters la intervistò sulla NBC. Le testate di tutto il mondo ripresero la storia.
Per la prima volta, la MGF aveva un volto. Un nome. Una voce.
Nello stesso anno, il 1997, il Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan la nominò Ambasciatrice Speciale per l’eliminazione della MGF.
Waris si ritirò dalle passerelle a trentadue anni.
All’apice del successo, quando avrebbe potuto continuare a vivere nella moda, si fece da parte.
Aveva una missione più grande.
Viaggiò per il mondo per conto dell’ONU. Incontrò presidenti, premi Nobel, star di Hollywood. Tenne conferenze. Concesse centinaia di interviste.
Non era più “la supermodella dal volto bellissimo.”
Era la sopravvissuta che si rifiutava di restare in silenzio.
Nel 1998 pubblicò la sua autobiografia, Fiore del Deserto.
Diventò un bestseller internazionale, con oltre undici milioni di copie vendute in più di cinquanta lingue.
La gente iniziò finalmente a capire cos’era davvero la MGF. Non una “tradizione culturale innocua”, ma una brutale violazione dei diritti umani.
Nel 2001 fondò la Desert Dawn Foundation per raccogliere fondi per scuole e cliniche in Somalia.
Nel 2002 fondò la Desert Flower Foundation a Vienna, un’organizzazione dedicata alla fine della MGF nel mondo.
Aprì i primi centri medici olistici per le vittime della MGF a Berlino, Stoccolma, Parigi e Amsterdam.
Scrisse altri libri: Desert Dawn (2002), Desert Children (2005), Letter to My Mother.
Nel 2009, la sua vita divenne un film, Desert Flower, con la supermodella etiope Liya Kebede.
Il film vinse il Bavarian Film Award ed è stato distribuito in più di venti paesi.
Ma la più grande vittoria di Waris non furono i premi o i bestseller.
Fu il cambiamento.
Concreto, misurabile.
Quando iniziò a parlare nel 1997, più di 130 milioni di donne e bambine avevano subito la MGF.
Secondo l’OMS, 8.000 bambine affrontavano la pratica ogni giorno.
Molte persone non sapevano nemmeno che esistesse.
Oggi, grazie a Waris e a innumerevoli attivisti, la MGF è riconosciuta globalmente come violazione dei diritti umani.
Uno studio del British Medical Journal ha rilevato che in Africa orientale il tasso di MGF tra le ragazze sotto i quattordici anni è sceso dal 71% del 1995 all’8% del 2017.
In Africa occidentale: dal 73% al 25%.
In Nord Africa: dal 57% al 14%.
Nel 2003, quindici paesi dell’Unione Africana ratificarono il Protocollo di Maputo per l’eliminazione della MGF.
Nel 2019, un tribunale di Londra condannò una madre a undici anni per aver sottoposto sua figlia di tre anni alla pratica — la prima condanna della storia nel Regno Unito.
Leggi contro la MGF sono state approvate in tutto il mondo.
Le campagne di sensibilizzazione raggiungono milioni di persone.
E bambine che sarebbero state mutilate vengono salvate.
Waris Dirie oggi è sulla cinquantina.
E continua a lottare.
“Voglio porre fine alla MGF una volta per tutte, nella mia vita,” dice.
Da una bambina di cinque anni trattenuta da sua madre mentre un’anziana la mutilava con una lama sporca.
A una tredicenne in fuga attraverso il deserto.
A una diciottenne che pulisce pavimenti da McDonald’s.
A una delle supermodelle più famose del mondo.
Alla donna che ha spezzato il silenzio su una delle pratiche più brutali dell’umanità.
Waris Dirie non è solo sopravvissuta.
Ha trasformato il suo dolore in scopo.
Il suo trauma in un movimento globale.
Il suo silenzio in una voce che ha raggiunto milioni di persone.
Ogni bambina salvata dalla MGF è una testimonianza del suo coraggio.
Ogni legge approvata porta la sua impronta.
Ogni sopravvissuta che trova aiuto in un Centro Desert Flower cammina sulle sue orme.
Nacque un fiore del deserto nelle condizioni più dure immaginabili.
Non solo è sopravvissuta.
È sbocciata.
E si è assicurata che milioni di altre bambine avessero la possibilità di sbocciare anche loro.
Non come vittime.
Ma come donne potenti, integre, indistruttibili — come erano sempre state destinate a essere.

MARCO TRAVAGLIO - Tre porcellini (più uno) - IFQ - 30 novembre 2025

Nella Tangentopoli ucraina che decapita, testa dopo testa, la cricca di Zelensky, stupisce solo lo stupore. Bastava leggere l’inchiesta internazionale del 2021 “Pandora Papers” (pubblicata qui dall’Espresso) per sapere che il presidente plebiscitato nel 2019 proprio perché prometteva lotta dura alla corruzione (oltre alla pace con Putin) è al vertice di una piramide corrotta. Il marchio Servitore del popolo della fiction e poi del partito è un’esclusiva del suo padrino, l’oligarca Ihor Kolomoyskyi, re dei metalli, banchiere, presidente del Dnipro calcio, terzo uomo più ricco d’Ucraina, finanziatore di bande paramilitari nere (Azov, Dnipro&C.), proprietario della tv “1+1” che lanciò Zelensky prima di finire ricercato per aver svaligiato la sua stessa banca, fuggire in Israele, tornare in patria e venire arrestato per riciclaggio. Nel 2003 Zelensky, tornato in Ucraina dopo i primi successi nelle tv russe, fonda la casa di produzione Kvartal 95 con due amici e soci: Mindich e Shefir, che posseggono con lui e la moglie Olena quattro società offshore e conti correnti in paradisi fiscali (Isole Vergini, Cipro e Belize). Degli affari legali di Kvartal si occupa l’amico avvocato e produttore Yermak. Shefir si fa diverse case a Londra. Zelensky compra per 3,8 milioni una villa a Forte dei Marmi, intestata a una società italiana controllata da una cipriota. Ma per le elezioni si scorda di dichiararla, come una delle offshore. Appena eletto presidente, Zelensky trasferisce la ditta nelle istituzioni. Il suo socio Shefir è il suo “primo assistente” (sarà licenziato nel 2024 in una delle tante purghe). Il suo legale Yermak è capo dell’Ufficio presidenziale. E intanto Mindich, il terzo porcellino, si butta sulle commesse energetiche e militari e fa affari d’oro.
A luglio le autorità anticorruzione Nabu e Sapo indagano in gran segreto su mega-tangenti nell’energia. E Zelensky vara in tutta fretta una legge per metterle sotto controllo del Pg, che dipende da lui. La piazza e l’Ue lo costringono a una mezza marcia indietro. E venti giorni fa si capisce tutto. Nabu e Sapo calano le carte dell’inchiesta “Midas”: 100 miliardi di mazzette a varie figure del governo e dell’inner circle di Zelensky, riciclati in società fittizie e ville a Kiev e in Svizzera. Il capobanda è Mindich. Gli trovano water, bidet, rubinetti d’oro e chili di contanti nelle credenze, ma sfugge all’arresto in Israele grazie a una soffiata. Intercettato, parlava con Shefir di una colletta da 2,5 milioni per la cauzione di un altro corrotto del giro: il vicepremier Chernyshov. L’altro porcellino, Yermak detto “Alì Babà”, l’hanno perquisito venerdì: stava negoziando la pace (e l’amnistia) con Usa e Ue, ma Zelensky l’ha cacciato. Ora il capo-negoziatore è Umerov, che è indagato da gennaio. Bisogna pur fare pulizia, no?