venerdì 26 giugno 2015

“Conti in rosso per 500 milioni di euro”. La Grande Milano già rischia di fallire. - Thomas Mackinson

“Conti in rosso per 500 milioni di euro”. La Grande Milano già rischia di fallire

Dopo Roma, la nuova grana del governo è Milano. La legge Delrio che ha cancellato la Provincia ha scaricato sulla Città metropolitana i debiti dell'ente soppresso e insieme ai tagli ai trasferimenti sottrae quasi 500 milioni di euro in tre anni al motore economico dell'Italia. Pisapia non ci sta: aveva programmato un'uscita di scena in punta di piedi, deve invece battere i pugni sul tavolo. I candidati a sostituirlo ne approfittano per aprire la campagna elettorale. E Roma, per ora, tace.

Non solo Roma e Mafia Capitale. Si materializza un’altra grana per il governo di Matteo Renzi. La Grande Milano che ha voluto e varato è appena nata e già  rischia di fallire, facendo virare sul rosso anche la “rivoluzione arancione” del suo sindaco, quel Giuliano Pisapia che voleva uscire di scena in punta di piedi e si ritrova invece a battere i pugni sul tavolo del governo. Sembra un fulmine a ciel sereno, in realtà il rischio default era stato rappresentato per tempo a Palazzo Chigi. Tutto nasce dalla riforma Delrio, quella che per i gufi premonitori era un gigantesco “pasticcio” e si scopre ora una ciambella col buco. Il buco è appunto quello della Città metropolitana di Milano, l’ente di area vasta che assorbe l’ex provincia e ne eredita anche il  debito: 94 milioni di euro. La scoperta ha mandato su tutte le furie il sindaco che giovedì scorso ha mollato su due piedi la first lady d’America, Michelle Obama, in visita all’Expo per volare a Roma a recapitare un messaggio a Palazzo Chigi: la città metropolitana rischia di sprofondare sotto il combinato disposto dei tagli ai trasferimenti al nuovo ente e dei debiti che eredita dalla disciolta provincia. Un’emergenza conti che diventa un boccone amarissimo per Pisapia e assai goloso per i candidati alla sua successione.
I conti in rosso: 500 milioni di bucoI numeri parlano chiaro. Il bilancio preventivo 2015 della Città Metropolitana sconta pesantemente la serie di tagli programmati dal governo agli enti di primo livello che sono stati fissati in un miliardo di euro, con una ricaduta sul capoluogo lombardo di 27 milioni nel 2015, il doppio nel 2016 e nel 2017 di 54 milioni. Così, lo squilibrio nei conti si attesterà a 94 milioni quest’anno, 163 milioni nel 2016 e altri 212 nel 2017. In tutto sono 500 milioni di euro. Poco o nulla, nel frattempo, è arrivato dalla rimodulazione del decreto sugli enti locali che doveva attenuare la corsa ai tagli: gli effetti del decreto si riducono essenzialmente al risparmio sullo sforamento del Patto di Stabilità della defunta Provincia, quantificato da 60 a 10 milioni. Il debito contratto defluisce dalle scritture contabili dell’ente morto. L’allarme risuona a sirene spiegate: per non portare i libri in tribunale ed evitare il commissariamento tocca correre ai ripari entro il 31 di luglio, un mese e poco più. Da contabile la vicenda diventa subito politica, perché nel 2016 si vota e i candidati in corsa che scaldano i motori si vedono già apparecchiato, sul piatto d’argento, un bellissimo boccone per cui scannarsi.
Le accuse di Passera e Gelmini, già in campagna elettoraleA cogliere la palla al balzo, ad esempio, è Corrado Passera, candidato a sindaco nel 2016 con la sua Italia Unica: “Ancora un volta emerge un buco di bilancio, e stavolta ci va di mezzo la Grande Milano. Ancora una volta comincia un rimpallo di responsabilità tra il sindaco e Palazzo Chigi su chi e come deve “ripianare”. Uno scaricabarile a cui i cittadini sono stanchi di assistere”. Stessi bersagli individuati dalla coordinatrice regionale di Fi, Mariastella Gelmini: “Non è Milano che affonda con la Città metropolitana: ad affondare è la sinistra milanese e nazionale e la sua costante, immutabile inconcludenza. Nel 2011 hanno promesso la “primavera” arancione per Milano, fallita a poco più di metà mandato con la rinuncia del sindaco a ricandidarsi e nessuna realizzazione del programma. Ora anche la Città metropolitana naufraga dopo alate promesse e decine di convegni a base di favole. Invece che abolire le Provincie e distribuire le competenze tra Comuni e Regioni, il governo ha creato un carrozzone vuoto con la Delrio. Ora naufraga nei debiti, con un surreale scaricabarile tra il Pd milanese e il Pd governativo”.
Via alle svendite di fine stagione: caserme, prefettura e immobili di lusso.Intanto la Grande Milano si prepara alle svendite per tappare una parte del buco. La Città metropolitana è pronta a vendere Palazzo Diotti, la storica sede della Prefettura e un paio di caserme che ora ospitano polizia e forze dell’ordine. Il piano di rientro allo studio del sindaco è subordinato alla possibilità di poter utilizzare almeno il 50 per cento proveniente dalle dismissioni del patrimonio immobiliare per la spesa corrente. Il palazzo e le caserme, spiega il Corriere della Sera, dovrebbero essere già inserite nel primo lotto del fondo Invimit, la società di gestione del risparmio del ministero dell’Economia e delle Finanze, dove confluiscono gli immobili delle Città metropolitane e delle Province che non sono più funzionali agli scopi dei nuovi enti. Chiaramente la funzione pubblica resta preservata e quindi non ci sarà nessuno “sfratto” della Prefettura o delle forze dell’ordine. Il valore degli immobili collocati nel fondo varia tra gli 80 e i 90 milioni di euro, a cui si aggiungerebbero i 38,7 milioni per la vendita del palazzo di corso di Porta Vittoria che è stato “prenotato” con una proposta irrevocabile.
Il “tradimento” di Pisapia, padre nobile della Grande MilanoE tuttavia il pasticcio politico resta. Per Pisapia e la sinistra milanese diventa un peso enorme in vista della competizione del 2016. Ci sono poi da rilevare due aspetti che possono fare la differenza nei rapporti sull’asse Roma-Milano. Il primo è che proprio Pisapia è stato tra i “padri nobili” delle città metropolitane. Lo raccontava lui stesso, in una lettera, durante lo sfibrante confronto parlamentare sulla riforma Delrio. “Oltre dieci anni fa – ricordava Pisapia – quando si è discusso del titolo V della Costituzione ero stato tra i proponenti della Città metropolitana. Nella stessa seduta avevo anche presentato un emendamento per una graduale soppressione delle province che, invece,  non è stato accolto”. Insomma, il padre nobile non riconosce la sua “creatura” per come la disegna il governo Renzi. Pisapia, va detto, aveva pure lanciato l’allarme per tempo, definendo Milano come una “Ferrari senza benzina”, e avvertendo il governo sul rischio di non riuscire a garantire più servizi essenziali come la manutenzione delle strade, i servizi scolastici, gli aiuti ai disabili.
La beffa dei congedi in rosso: la Moratti lasciò un buco da 186 milioni.
Ma c’è di più. Se si torna al 2011 si comprende meglio il furore che ha colto Pisapia il “mite”, quello della “rivoluzione gentile”. Quando si è insediato a Palazzo Marino, il neo sindaco di Milano e il suo assessore al bilancio Bruno Tabacci scoprirono nei conti del Comune un buco da 186 milioni di euro lasciato in eredità dall’amministrazione Moratti. “Siamo davanti a un disavanzo potenziale che rischia di mettere in ginocchio la città”, accusavano. E ora a Pisapia, dopo quattro anni di governo della città, non pare vero di ritrovarsi nella stesa situazione, con i candidati sindaco che banchettano sul “pasticcio”, imputandogli di aver lasciato la città coi conti in rosso. Ecco perché ha messo da parte il suo fair-play, ecco perché picchia i pugni sul tavolo. Il fallimento della città, ragiona il sindaco, non può essere la mia targa di addio alla Grande Milano.

mercoledì 24 giugno 2015

Relitto romano scoperto nei fondali della Gallura: grande valore archeologico.



Roma, 21 giugno 2015 - Importante scoperta archeologica nelle acque della Gallura: la polizia di Sassari, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Sardegna, ha trovato un relitto di età romana in fondo al mare. I poliziotti del Nucleo Sommozzatori, a meno cinquanta metri di profondità, hanno rinvenuto la nave che, per il suo carico e il suo posizionamento sui fondali del mare, rappresenta un unicum dal grande valore scientifico. 
Si tratta di una nave lunga 18 metri e larga 7 carica di laterizi di età romana imperiale, prodotti nelle officine intorno Roma. Visto il luogo del ritrovamento, gli archeologici ritengono che l`imbarcazione fosse destinata alla Spagna o alla costa occidentale della Sardegna. L`eccezionalità del ritrovamento attiene allo stato di conservazione del carico che risulta intatto e ad oggi stivato come al momento della partenza. Pare pertanto che la nave sia affondata con un semplice movimento verticale dalla superficie fino al fondale.

C’è un’Atlantide in Egitto. Splendori della città sommersa. - Aristide Malnati



La Stele di Naucratis, sulla quale viene menzionata la città di Heracleion/Thonis.

Trovati vicino ad Alessandria i resti di Heracleion: forse ispirò Platone. L'archeologo Frank Goddio: "Le ricchezze e l'impianto urbanistico corrispondono al mito"

E SE ATLANTIDE fosse in Egitto? Precisamente alla foce del Nilo sul Mar Mediterraneo, presso il cosiddetto braccio canopico? A suggerire questa nuova, avvincente ipotesi della misteriosa città scomparsa, sede delle civiltà ideale raccontata da Platone nei dialoghi “Crizia” e “Timeo”, sono i risultati dell’esplorazione sistematica ad opera di un’équipe di archeologi francesi dei fondali davanti ad Abuqir, a 20 km a est di Alessandria d’Egitto. A guidarli è Frank Goddio, forte di studi storici, ma soprattutto avventuroso scopritore di tesori in mezzo mondo, ad iniziare da un galeone spagnolo carico di dobloni d’oro nel Mar cinese meridionale.
Questa volta l’esplorazione è fatta secondo i crismi della scienza, con strumenti avveniristici; e i risultati non si sono fatti attendere: gli esperti hanno identificato i resti di un antico e magnifico abitato, parzialmente coperto dalla sabbia e dalle alghe. La lettura delle tracce degli edifici ha permesso una mappatura dell’intero assetto urbano, dell’intrico di vie, piazze, santuari, templi e monumenti sontuosi: il palazzo dei governatori e naturalmente il porto con l’arsenale e i vari mercati per le merci. Non vi sono più dubbi: si tratta di quel che rimane di Heracleion, la Thonis dell’Antico Egitto, fiorente centro commerciale, strategico per la posizione, che collegava il Nilo col Mar Mediterraneo.
Da qui transitavano raffinati prodotti di ogni tipo: «Ad esempio navi con importanti carichi di vino pregiato, come il famoso rosso di Cipro, che faceva bella mostra sulle tavole imbandite dei faraoni e le cui tracce sono state trovate in anfore sepolte nella tomba di Tut Ankh Amon – racconta Goddio – Heracleion rimase snodo commerciale fino al VI secolo d. C. Sappiamo che Cleopatra faceva arrivare qui le navi con i profumi di Cipro».
L’ÉQUIPE francese ha identificato anfore e giare per vino e olio, preziose ampolle per profumi, boccette e scatolette in ceramica e alabastro per il trucco. Le regine e le bellissime fanciulle di Heracleion tornano così a sedurre in tutta la loro bellezza, mentre l’assetto urbano si precisa campagna dopo campagna: ecco il tempio principale, dedicato a Khonsu, divinità lunare, signore dell’aria e delle tempeste, che i greci associarono a Eracle per la sua potenza, ma che rispetto a Eracle pronunciava (tramite il suo sacerdote) oracoli, fonte di preziosi consigli per naviganti in procinto di affrontare il mare ignoto.
Goddio ha poi identificato (e ricostruito fedelmente grazie alla computer grafica) anche il santuario del dio Amon, sede dei misteri di Osiride: i reperti ritrovati sul fondale, tra cui un’ampia lamina in oro con scrittura in geroglifico, rivelano che qui in particolare durante il regno di Nectanebo I (dal 380 al 362 a. C.) la barca di Osiride, dio degli inferi, veniva portata in processione tra ali di fedeli devoti.
ERANO carichi di offerte di fiori e frutta per ingraziarsi la divinità più importante del vasto pantheon egizio. E non ha più misteri nemmeno il palazzo del potere, sede di governatori e nobili senza scrupoli, favoriti dal faraone stesso. Sofisticate apparecchiature hanno permesso di ridisegnare con sorprendente precisione i viali di sfingi, che portavano a questa specie di reggia, e di ridefinire le stanze delle riunioni e le camere da letto, alcove per amori proibiti tra i governatori e le loro amanti, che, raccontati da fonti dell’epoca, ora trovano conferma.
Ebbene, dalla ricostruzione di Heracleion si ricava la presenza di cinte murarie concentriche, di templi, che potrebbero essere stati a un certo punto dedicati dai commercianti greci a Poseidone e a Zeus, di un palazzo con mura turrite (le cui basi si leggono ancora), un porto protetto su tre lati.
TUTTE caratteristiche molto simili all’Atlantide immaginata da Platone, sicuramente influenzato da modelli reali. E il principale potrebbe essere stato proprio Heracleion, la cui ricchezza è testimoniata dalle centinaia di statue in granito o in calcare di sovrani, regine, divinità, sfingi ritrovate; per non parlare di capitelli e colonne di fine fattura artistica, di rivestimenti in marmo dei palazzi, di centinaia di monete, gioielli, manufatti pregiati, monili preziosi in arrivo su carichi opulenti da tutto il Mediterraneo. «Potrebbe essere davvero Heraclion la fonte di Platone per Atlantide. Tanto più che un modello urbano egizio sarebbe più credibile, vista l’ammirazione del filosofo greco per l’antica civiltà dei faraoni», conclude Goddio.

martedì 23 giugno 2015

Sanità Lombardia: appalti milionari, poca sicurezza. Il lato oscuro della privacy digitale. - Thomas Mackinson

Sanità Lombardia: appalti milionari, poca sicurezza. Il lato oscuro della privacy digitale

Esami, patologie, ricette e medicine. Tutte le informazioni sulla nostra salute finiscono nei centri di calcolo delle Regioni che poi affidano la protezione dei dati sensibili (a peso d'oro) a ditte private. Un documento riservato di Lombardia Informatica rivela i rischi e le incognite di questo business. Dalla perizia emergono 56 "non conformità" agli obblighi di legge in materia di tutela dei dati. Il fornitore, che da dieci anni gestisce il servizio in solitaria, incassa però 600mila euro al mese.

Spendono 600mila euro al mese per proteggere la loro privacy. Alla prima verifica però, i lombardi scoprono che “non si ha evidenza dell’adozione di misure di sicurezza minime presso i fornitori”. E’ quanto si legge in un documento esclusivo, una minuziosa perizia delle misure di prevenzione che Lombardia Informatica, società in house di Regione Lombardia, utilizza per custodire i dati sanitari di 10 milioni di cittadini. La relazione è uscita dal perimetro della società a capitale regionale e alza il velo su quel che può riservare agli italiani la frontiera della digitalizzazione della sanità pubblica, quella che trasforma in dato elettronico l’operazione alla cistifellea, l’assunzione del farmaco retrovirale o la prenotazione di una tac.
Mentre facciamo esami, veniamo ricoverati o doniamo il sangue – senza quasi accorgercene – lasciamo dietro di noi una piccola miniera di informazioni digitali, beni “intangibili” per legge che possono trasformarsi in valuta sonante nelle mani di chi può farne commercio, mettendole magari a disposizione di società di assicurazioni, grandi cliniche e case farmaceutiche. Nel cosiddetto “deep web” quelle informazioni vengono già vendute a pacchetto, con tanto di tariffario: cinque euro per un’identità digitale generica, il doppio se completa di informazioni sanitarie come il codice di patologia (diagnosis code) o dati relativi al trattamento farmacologico. Da tempo la magistratura e il Garante della Privacy hanno concentrato la loro attenzione sul rischio di traffici illeciti di dati sanitari.
Anche senza scomodare i pirati informatici però ci sono dei rischi: quando ad esempio il sistema informativo socio-sanitario digitalizzato manifesta al suo interno falle tali da esporre – anche involontariamente – le informazioni sullo stato di salute dei cittadini. Ed è il rischio che si è corso in Lombardia, la regione che voleva essere alla testa della rivoluzione bit-sanitaria e finisce invece per porre con più urgenza che mai il tema della corretta conservazione dei dati sensibili degli italiani. Proprio la Lombardia infatti, insieme a Emilia e Veneto, si è offerta di validare le specifiche di dettaglio per l’interoperabilità dei sistemi regionali del “Fascicolo sanitario elettronico”, la cartella sanitaria virtuale che a regime dovrà custodire le informazioni cliniche e sanitarie di tutti gli assistiti dal SSN, compresi 100 miliardi di documenti clinici che produce ogni anno e 600 milioni di ricette dell’assistenza farmaceutica convenzionata. Il punto è: siamo sicuri?
Torniamo al documento riservato. Riporta, come detto, i risultati dell’audit interna che Lombardia Informatica (LISpa) ha commissionato a una società esterna per verificare se il fornitore cui affida i servizi informatici lo fa nel rispetto degli adempimenti previsti dalla legge (D. Lgs 196/2003) e dal Testo unico sulla Privacy. Si tratta di Santer, società del gruppo Reply Spa, colosso nazionale del settore con 10 sedi in Italia e 16 all’estero e un fatturato consolidato di 632 milioni di euro. Una parte rilevante degli utili arriva proprio da Regione Lombardia che dal 2005, tramite gara, gli affida il servizio di rilevazione e gestione della spesa farmaceutica. Al costo, per il contribuente, di circa 600mila euro al mese.
L’accertamento è scattato solo nel 2014 sull’ultimo contratto di servizio che copre il quadriennio 2012-2015. L’incarico va a Deloitte che, a sua volta, si avvale dell’isra​e​liana Maglan EuropeSrl, società specializzata nella simulazione di attacchi informatici. Con quali esiti? In una nota Lombardia Informatica assicura che “i dati sensibili dei cittadini lombardi sono in sicurezza” e invita ad agire “con la massima responsabilità nel dare informazioni in merito a presunte carenze rispetto agli standard di privacy e sicurezza, onde evitare ingiustificati allarmi”. Le “presunte carenze” però, documenti alla mano, consistono in 56 “non conformità” in ordine alle soluzioni organizzative, amministrative e tecniche adottate a tutela dei dati trattati. Alcune così gravi da dovervi porre rimedio “immediatamente”. Leggiamole. “Non si ha evidenza dell’adozione di misure di sicurezza minime presso i fornitori”, viene indicato a proposito delle garanzie di riservatezza dei dati processati e custoditi all’interno del Centro Elaborazione Dati di Lombardia Informatica.
Leggiamo oltre: “Non si ha evidenza dell’esecuzione di un’analisi di rischi (…) Non è stato rilevato un processo strutturato di sviluppo del software che preveda tutte le fasi volte a garantire la sicurezza (…) Non vengono definite procedure e controlli per verificare la presenza di codice potenzialmente dannoso o vulnerabile nelle applicazioni”. Falle tecnologiche, ma non solo. L’audit ne rileva altre​, ascrivibili al fattore umano e organizzativo: “Le responsabilità gestionali vengono gestite in maniera informale con il coinvolgimento del personale sistemistico che opera nell’ambito tecnologico (…) Viene rilevata assenza di separazione di responsabilità tra chi opera in produzione e in ambienti di sviluppo test”. Tanto più che “I dati utilizzati dal software nell’ambiente di sviluppo e test sono una copia dei dati di produzione e contengono dati personali reali (…)”. Non è un dettaglio, visto che “Le utenze con relative password per l’accesso ai DB sono risultate vulnerabili a semplici attacchi” e dunque decifrate e “rese leggibili in chiaro”.
Insomma, ce n’è da far drizzare i capelli al Garante al quale però Regione Lombardia – titolare del trattamento dei dati – non risulta abbia mai inviato l’esito della verifica. Il documento potrebbe interessare anche le Procure, visto che la legislazione vigente assimila le inadempienze nella tutela dei dati sensibili a veri e propri reati (D.Lgs 196/2003). E invece è rimasto nel cassetto e il contratto da 7 milioni di euro l’anno, nel frattempo, non è stato rescisso dall’ente pubblico. “Per non interrompere il servizio”, spiega una nota della società. Sulla decisione, probabilmente, ha inciso anche la vicinanza ​de​lla naturale scadenza, fissata al 31 dicembre 2015. LISpa concede così al suo fornitore il beneficio di un ravvedimento operoso: un piano di rimedio per “procedere senza indugio alla rimozione delle vulnerabilità di livello alto e critico riscontrate”.
Lo fa consapevole della gravità della situazione, tanto da cautelarsi ​al tempo stesso ​su eventuali e futuri rischi, ricordando al fornitore che nel contratto si è impegnato a “manlevare e tenere indenne LISpa da tutte le conseguenze derivanti a eventuale inosservanza delle norme vigenti, ivi incluse le prescrizioni tecniche, di sicurezza, di igiene e sanitarie…”. Nella nota LISpa precisa anche che i costi dell’audit, circa 30mila euro, “sono stati integralmente riaddebitati al fornitore”. Ma è una magra consolazione. La penalità non cancella il fatto che per lungo tempo i dati sanitari dei cittadini siano stati esposti al rischio di vulnerabilità esterne e interne, come si legge nella documentazione. E’ successo con certezza documentale dal 2012 al 2015,  forse anche nei sei anni precedenti di affidamento del servizio. E non basta certo la penale a sollevare i dubbi sulla via italiana alla digitalizzazione sanitaria. Quella che promette di semplificarci la vita e ridurre i costi del servizio, ma che imbarca anche rischi e ombre per i quali non ci sono ricette né cure, ma solo bende.

Gli anelli di Saturno. - Damian Peach



Gli anelli di Saturno da diverse angolazioni, su Saturno, gli anelli indicano la stagione. 

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Damien's website: www.damianpeach.com


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lunedì 22 giugno 2015

Pensioni, il decreto del governo modifica in negativo la rivalutazione dei contributi. - Franco Mostacci

Pensioni, il decreto del governo modifica in negativo la rivalutazione dei contributi

Secondo l'esecutivo nessuno perderà nulla nel 2015, ma dal 2016 i lavoratori che hanno versato 200.000 euro ne perderanno circa 1.000. Alla Camera è stato depositato un documento firmato da Pd, Fi, M5s, Misto ed ex 5Stelle per tornare indietro.


La riforma Dini delle pensioni, la legge 335 del 1995, segnò uno spartiacque generazionale tra i lavoratori più anziani, che potevano continuare a beneficiare del sistema di calcolo retributivo (più favorevole), e quelli più giovani che, invece, passarono al contributivo (più penalizzante). Per questi ultimi, l’ammontare della pensione è proporzionale ai contributi versati mese dopo mese nell’arco dell’intera vita lavorativa.
La crescente precarizzazione del lavoro e le difficoltà a trovare un’occupazione stabile e duratura, hanno reso ancora più incerte le prospettive future di poter incassare un assegno pensionistico che garantisca l’autosufficienza. Ciascun lavoratore accantona ogni anno a fini pensionistici una parte del suo reddito lordo imponibile, che si va a cumulare con quanto versato negli anni precedenti, costituendo il cosiddetto montante contributivo, una somma che cresce nel tempo. Il legislatore ha pensato anche alla capitalizzazione di tale montante, ovvero all’adeguamento del suo valore nel corso del tempo. Il meccanismo prevede che il “tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (Pil) nominale, appositamente calcolata dall’Istat, con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare”. Il tasso di capitalizzazione, che nel 1997 era del 5,6% si è progressivamente ridotto a causa della bassa crescita dell’economia italiana e della ridotta inflazione.
La diminuzione del 3,5% del Pil nominale avvenuta nel 2009 (governo Berlusconi) ha creato un serio problema, considerato che il tasso di capitalizzazione per il 2014, che ha effetto per le pensioni da liquidare nel 2015, è pari a 0,998073. Per la prima volta, quindi, il montante contributivo accumulato dai lavoratori diminuirebbe. L’interpretazione della norma è, però, tutt’altro che chiara. Poiché la legge parla di “anno da rivalutare” è impensabile che si possa applicare un coefficiente inferiore a uno. A novembre scorso l’Inps (allora guidata dal commissario straordinario Treu) ha chiesto lumi al governo che, pochi giorni fa, con il Decreto legge 65 del 2015, recante “disposizioni urgenti in materia di pensioni, ammortizzatori sociali e garanzie sul Tfr”, emanato per venire (seppur di poco) incontro alla sentenza della Consulta, ha risolto – a modo suo – il problema. Alla legge Dini del 1995 è stato aggiunto un comma in cui si precisa che “il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo… non può essere inferiore a uno, salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive”. La relazione tecnica di accompagnamento afferma che “la disposizione è finalizzata a scongiurare la perdita di valore dei trattamenti pensionistici che deriverebbe dalla svalutazione dei montanti contributivi accumulati dai lavoratori”. Nulla di più falso. I coefficienti ricavabili dalle stime del Pil (0,998073 per il 2014 e 1,005331 per il 2015), sono stati modificati per decreto aumentando a 1 il primo e riducendo a 1,003394 il secondo. Considerando un ipotetico lavoratore che ha accumulato un montante contributivo di 200 mila euro e versa 10 mila euro all’anno di accantonamenti per la pensione, ci troviamo di fronte a tre possibili scenari.
Se il governo, nel rispetto del principio di rivalutazione originariamente contenuto nella Legge Dini, avesse optato per una soluzione di buon senso riportando a 1 il coefficiente 2014 senza ridurre quello dell’anno successivo, il lavoratore avrebbe potuto contare alla fine del periodo su una somma pari a 221.120 euro. Se si applicassero i coefficienti effettivi il montante scenderebbe a 220.732 euro. Con quelli del decreto il valore si riduce addirittura a 220.712 euro. In buona sostanza, a parte coloro che stanno per andare in pensione e ai quali lo Stato non farà in tempo a effettuare il recupero, tutti gli altri lavoratori subiranno un danno economico, in quanto il montante contributivo non si rivaluta adeguatamente. Un camouflage legislativo che fa passare per onerosa (circa 12 milioni di euro) un’operazione che, invece, porterà futuri risparmi nelle casse dello Stato, superiori a quelli che si sarebbero comunque conseguiti senza alcun intervento. Un gioco delle tre carte, quello del duo Renzi-Padoan, che a conti fatti determina una ingiusta penalizzazione per i lavoratori. Talmente ingiusta che ieri è stato depositato in commissione Lavoro alla Camera – dove il dl è in discussione – un emendamento per tornare indietro, firmato dal Pd, ma anche da Fi, M5s, Misto ed ex 5Stelle.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/20/pensioni-il-decreto-del-governo-modifica-in-negativo-la-rivalutazione-dei-contributi/1795185/

Non ho ancora capito dove voglio andare a parare o a farci sbattere. Qui si sta portando avanti un gioco al massacro dal quale non credo che ne usciremo in buona salute.

L’Italia che sa vivere solo in emergenza. - Bruno Manfellotto

L’Italia che sa vivere solo in emergenza

Nelle situazioni estreme diamo il meglio di noi. Finita la corsa per aprire decentemente l’Expo, 
si riapre un fronte antico: quello dei conti pubblici.


Dunque le lacrime della prof Elsa Fornero ci costeranno quattro anni dopo una decina di miliardi (16 secondo Vincenzo Visco). Il groppo in gola, mentre la ministra pro tempore spiegava la riforma pensionistica, arrivò in diretta tv, la sera di domenica 4 dicembre 2011, alla parola «sacrificio», cioè l’azzeramento dell’indicizzazione al costo della vita delle pensioni superiori ai 1443 euro. Già allora molti temevano che la norma fosse incostituzionale, alcuni ne erano convinti, ma davvero la ministra pro tempore non poteva fare altrimenti, e meno male che lo fece: l’Italia rischiava il default, la fine della Grecia, già si immaginavano i cavalli della Troika abbeverarsi alle fontane di piazza Navona, a un passo dal Senato. E il governo Monti tagliò, tecnicamente, per evitare il commissariamento. Si era in emergenza. Come sempre.

Sì, il bel paese vive in perenne emergenza e solo quando questa incombe, esso si agita si industria si muove risolve. E talvolta riesce pure a dare il meglio di sé. Solo che emergenza chiama altra emergenza. La bocciatura della Corte costituzionale, per esempio, ha cancellato d’un colpo il sogno di attingere al tesoretto di 1,6 miliardi, nascosto nelle pieghe del bilancio pubblico, che Matteo Renzi avrebbe voluto destinare ai redditi più bassi e agli ammortizzatori sociali, riedizione corretta degli 80 euro in busta paga di un anno fa. Ma dieci (o 16?) miliardi sono tanti, due volte il gettito Imu sulla prima casa e più, assai difficili da trovare, e il buco costringerà il governo a una dura legge finanziaria - d’emergenza - e a riaprire le trattative con l’Ue sul contenimento del debito. Altro che avviare un piano Obama.

Anche l’EXPO, si sa, è stato realizzato in emergenza. E a caro prezzo. La corsa finale e un bel po’ di lavori aggiuntivi hanno fatto lievitare i costi: per il Padiglione Italia erano stati messi in conto 63 milioni, ne sono stati spesi 92; per la Piastra, la spina dorsale dell’Expo, il preventivo diceva 165 milioni, non ne basteranno 200; per rispettare l’investimento pubblico di 1,3 miliardi, infine, è stato necessario un robusto taglio ai progetti iniziali. Emergenza, ma legale, sarà anche il dopo Expo in un intreccio di controversie, tagli, ribassi di prezzi, contratti siglati con imprese sotto osservazione e ora all’esame di Raffaele Cantone.

Continuiamo? Sono emergenza continua gli sbarchi dei migranti; la corruzione; la spesa pubblica; la sanità; l’ambiente dissestato. E naturalmente anche il maltempo, i rifiuti, i dopo terremoto che durano per generazioni senza che nessuno vi ponga definitivamente rimedio. Non si programma né si previene. Di conseguenza l’esecutivo si adegua sparando decreti legge, d’urgenza e di emergenza: Berlusconi e Monti ne produssero insieme un centinaio; Enrico Letta più di venti, cifra appena superata dal gabinetto Renzi. In tutto, più o meno 165 decreti presentati in sei anni. In emergenza è stata approvata anche la nuova legge elettorale: a colpi di fiducia. E c’è la drammatica emergenza lavoro per la quale evidentemente non basta il Jobs Act: l’acqua c’è, avrebbe detto lord Keynes, ma il cavallo non beve. Insomma, la madre di tutte le emergenze è ancora la crisi economica. Che ci ricorda, dopo l’ubriacatura muscolare dell’Italicum, che ora bisogna cominciare a governare sul serio.

P.s. Se permettete, vorrei spezzare una lancia a favore dei “gufi”, come li chiama Renzi, quelli seri e intellettualmente onesti, per i quali il mio apprezzamento è pari alla gioia che ho provato per il brillante esordio dell’expo di Beppe Sala & c. Ecco perché: forse, se non ci fossero state le copertine dell’“Espresso” sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nelle imprese appaltatrici, non si sarebbe arrivati alla nomina di Raffaele Cantone a commissario anticorruzione e al suo prezioso lavoro di ripulitura; forse, senza le inchieste dell’“Espresso” sul ritardo nei lavori, non ci sarebbe stato quello scatto d’orgoglio che ha poi consentito di ultimare quasi tutti i padiglioni; forse, se non ci fossero state le domande che “l’Espresso” si è posto sull’uso di quelle immense aree a esposizione ultimata, sarebbe stato rimosso il tema centrale del dopo Expo. Insomma, per farla breve, evviva l’Expo, ma anche i gufi.