mercoledì 26 settembre 2018

Briatore e l’attrazione fatale per il mare «dei ricchi» dal Billionaire al mega yacht. - Chiara Beghelli

Flavio Briatore, a destra, e Ferdinando Tarquini, comandante del Force Blu durante l’udienza preliminare al palazzo di Giustizia di Genova (foto Ansa)
Flavio Briatore, a destra, e Ferdinando Tarquini, comandante del Force Blu durante l’udienza preliminare al palazzo di Giustizia di Genova (foto Ansa)

"Uomo libero, tu amerai sempre il mare! Il mare è il tuo specchio; contempli la tua anima nello svolgersi infinito della sua onda, e il tuo spirito non è un abisso meno amaro»: anche se in passato ha affermato di non essere un appassionato lettore, Flavio Briatore potrebbe far suoi i versi di Charles Baudelaire. Il mare è un elemento ricorrente, un mantra, nella sua vita: in un’intervista di qualche anno fa ricordava quasi con nostalgia quando da ragazzo partiva dalla natale Verzuolo (Cuneo) con gli amici per andare in Sardegna, dove si accampava sulle spiagge e da lì ammirava i mega yacht «dei ricchi».
In riva allo stesso mare, quello di Porto Cervo, nel 1998 ha inaugurato il primo dei suoi locali “Billionaire”, nome emblematico come un desiderio, di un geometra figlio di maestri di scuola elementare di Verzuolo, che nel 2007 è arrivato sulla copertina del numero speciale di Forbes dedicato, appunto, ai “billionaries”, i miliardari. Sulle rive dell’oceano, in Kenya, un altro luogo simbolo, la villa che ospitò tanti illustri amici, da Silvio Berlusconi a Beppe Grillo, poi trasformata in resort cinque stelle.
E il mare è anche lo scenario dell’ultima vicenda che lo coinvolge, legata allo yacht Force Blue, 63 metri di lunghezza, palestra e 12 suites, e che ha le sue stesse iniziali: una vicenda che prosegue dal 2010, attraverso due gradi di giudizio (l’ultimo lo ha condannato a 18 mesi, pena ridotta rispetto ai 23 del primo grado) e che oggi si arricchisce di un nuovo capitolo.
«Non ho mai pensato né dovuto evadere le tasse. Le società che evadono il fisco sono quelle che vanno male», affermò Briatore al Tribunale di Genova, dove il processo si è tenuto, tre anni fa. «Il mio lavoro è avere l’intuito di fondare società che anticipano i desideri dei clienti. Nell’ambito dello yachting volevo fare barche per persone ricche. Le barche a sette stelle so come farle».

La magistratura farà il suo corso, ma è vero: Briatore, proprio perché li ha osservati a lungo, sa come esaudire i desideri delle «persone ricche». Il Billionaire ne è l’esempio: nei club da Dubai a Monte Carlo scorrono fiumi di denaro e champagne. Ad agosto un americano ha pagato un conto da 150mila euro a Porto Cervo, anche se Briatore non era lì ad accoglierlo. Nel 2013, infatti, ha ceduto la quota di maggioranza del marchio al fondo Bay Capital, con base a Singapore, con l’obiettivo di espanderlo in area Far e Middle East.
Con effettiva visione sul futuro, ha declinato l’anima del club anche in un marchio di abbigliamento superlusso, di cui nel 2016 ha venduto il 51% a Philipp Plein, giovane stilista e fenomeno della moda “massimalista” degli utlimi anni. Le collezioni sono pensate per uomini «dominanti, virili e impenitenti», con cappotti di cincillà da 20mila euro e mocassini (elemento distintivo dell’icona Briatore) da 750.
Sul mare di Marina di Pietrasanta, in Versilia, con l’amica d’infanzia Daniela Santanché e tramite la società Mammamia Srl, gestisce il Twiga Beach Club, stabilimento cinque stelle con tariffe a tre zeri. Aveva concesso anche l’uso del marchio Twiga a un gruppo di imprenditori salentini per aprire un club anche sulla costa di Otranto, ma i lavori sono stati bloccati con l’accusa di abusivismo, scatenandone le ire contro la burocrazia italiana.
Ancor prima di questi mari, un altro, molto più lontano, lo accolse: era un giovane imprenditore di se stesso nella Milano da bere degli anni Ottanta, venne accusato di truffa nell’inchiesta “Bisca Connection”, riguardante un giro di gioco d’azzardo, venne condannato. Se ne andò ai Caraibi.
Uno dei capitoli più curiosi della storia imprenditoriale di Briatore è la sua conduzione di “The Apprentice”, il reality show andato in onda nel 2012, dove le sue frasi rivolte ai concorrenti che si contendevano un posto da suo assistente sono diventate celebri: «Voi fallite prima di iniziare», «Tra tutti i fenomeni che pensate di essere io vi distruggo subito», e poi la formula per l’eliminazione, «sei fuori». Donald Trump, che per certi versi ricorda l’imprenditore piemontese, prima di entrare alla Casa Bianca lo diceva in inglese, «You’re out!», nella versione originale del programma made in Usa.
Il Force Blue, intanto, che appartiene alla società Autumn Sailing Limited, causa processo in corso si limita a poter solcare solo il Mediterraneo, non potendo dar piena forza ai suoi motori capaci di navigare sugli oceani. La tariffa invernale, secondo il sito Yacht Charter Fleet, parte da 235mila euro a settimana. Spese escluse.

Tangenti al Fisco per riavere lo yacht: Briatore indagato, arrestato commercialista e un ex capo delle Entrate. - Marco Grasso, Matteo Indice


Andrea Parolini e il patròn del Billionaire sono accusati di aver ammorbidito il funzionario pubblico.

Il blitz è scattato alle prime ore di questa mattina: la Guardia di Finanza ha arrestato Andrea Parolini, commercialista di Flavio Briatore, e l’ex direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Genova, Walter Pardini. Entrambi sono accusati a vario titolo di corruzione e frode processuale, mentre per corruzione è indagato a piede libero lo stesso Briatore.  


Briatore e il suo commercialista sono accusati di aver ammorbidito il funzionario pubblico, per tentare di alleggerire la posizione del patròn del Billionaire, inseguito dal Fisco per la maxi-evasione fiscale legata al suo yacht, il Force Blue. Gli uomini del Primo Gruppo della Guardia di Finanza di Genova, coordinati dal pm Walter Cotugno, e diretti dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco, si sono presentati anche nella sede dell’Agenzia delle Entrate di Genova, dove hanno notificato la sospensione dagli incarichi a due funzionarie.  

Si tratta di due sottoposte di Pardini che si prestarono a falsificare un parere fiscale della medesima Agenzia delle Entrate che avrebbe di fatto sconfessato le accuse penali nei confronti di Briatore. 

FATE SCHIFO - Marco Travaglio

Risultati immagini per ponte genova e morti

Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che “utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera”.
Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: “pur a conoscenza di un accentuato degrado” delle strutture portanti, la concessionaria “non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino” né “adottato alcuna misura precauzionale a tutela” degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli.
Autostrade-Atlantia-Benetton “non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto” e non ha “eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo”. Peggio: “minimizzò e celò” allo Stato “gli elementi conoscitivi” che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare “compiutezza sostanziale ai suoi compiti”.
Non aveva neppure “eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto”: gl’ispettori l’hanno chiesta e, “contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della Società alla struttura di vigilanza”, hanno scoperto che “tale documento non esiste”.

Le misure preventive di Autostrade “erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema”, malgrado la concessionaria fosse “in grado di cogliere qualitativamente l’evoluzione temporale dei problemi di ammaloramento… Tale evoluzione, ormai da anni, restituiva un quadro preoccupante, e incognito quantitativamente, per la sicurezza strutturale rispetto al crollo”. Eppure si perseverò nella “irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi, perfino di manutenzione ordinaria”.
Così il ponte è crollato, non tanto per “la rottura di uno o più stralli”, quanto per “quella di uno dei restanti elementi strutturali (travi di bordo degli impalcati tampone) la cui sopravvivenza era condizionata dall’avanzato stato di corrosione negli elementi strutturali”.
E la “mancanza di cura” nella posa dei sostegni dei carroponti potrebbe “aver diminuito la sezione resistente dell’armatura delle travi di bordo e aver contribuito al crollo”. Per 20 anni, i Benetton hanno incassato pedaggi e risparmiato in sicurezza: “Nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado, i costi degli interventi strutturali negli ultimi 24 anni, sono trascurabili”. Occhio ai dati: “il 98% dell’importo (24.610.500 euro) è stato speso prima del 1999”, quando le Autostrade furono donate ai Benetton, e dopo “solo il 2%”.
Quando c’era lo Stato, l’investimento medio annuo fu di “1,3 milioni di euro nel 1982-1999”; con i Benetton si passò a “23 mila euro circa”.
Ora provate a confrontare queste parole devastanti con ciò che avete letto in questi 40 giorni sulla grande stampa. E cioè, nell’ordine, che: per giudicare l’inadempimento di Autostrade (i Benetton era meglio non nominarli neppure) bisogna attendere le sentenze definitive della magistratura (una decina d’anni, se va bene); 
revocare subito la concessione sarebbe “giustizialismo”, “populismo”, “moralismo”, “giustizia sommaria”, “punizione cieca”, “voglia di ghigliottina” e di “Piazzale Loreto”, “sciacallaggio”, “speculazione politica”, “ansia vendicativa”, “barbarie umana e giuridica”, “cultura anti-impresa” che dice “no a tutto”, “pericolosa deriva autoritaria”, “ossessione del capro espiatorio”, “esplosione emotiva”, “punizione cieca”, “barbarie”, ”pressappochismo”, “improvvisazione”, “avventurismo”, “collettivismo”, “socialismo reale”, “oscurantismo” (Repubblica, Corriere, Stampa, il Giornale); 
l’eventuale revoca senz’attendere i tempi della giustizia costerebbe allo Stato 20 miliardi di penali; 
è sempre meglio il privato del pubblico, dunque le privatizzazioni non si toccano; 
il viadotto non sarebbe crollato se il M5S non avesse bloccato la Gronda (bloccata da chi governava, cioè da sinistra e destra, non dal M5S che non ha mai governato; senza contare che la Gronda avrebbe lasciato in funzione il ponte Morandi); e altre cazzate.
Repubblica: “In attesa che la magistratura faccia luce”, guai e fare di Atlantia “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo”.
Corriere: revocare la concessione sarebbe “una scorciatoia”, “un errore” e “un indizio di debolezza”. 
La Stampa: il crollo del ponte è “questione complessa” e nessuno deve gettare la croce addosso ai poveri Benetton (peraltro mai nominati), “sacrificati” come “capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi”, come nei “paesi barbari”.
Parole ridicole anche per chi guardava le immagini del ponte crollato con occhi profani: se lo Stato affida un bene pubblico a un privato e questo lo lascia crollare dopo averci lucrato utili favolosi, l’inadempimento è nei fatti, la revoca è un atto dovuto e il concessore non deve nulla al concessionario. O, anche se gli dovesse qualcosa, sarebbero spiccioli (facilmente ammortizzabili con i pedaggi) rispetto al danno che deriverebbe dalla scelta immorale di lasciare quel bene in mani insanguinate.
Ora però c’è pure la terrificante relazione ministeriale, che va oltre le peggiori aspettative. 

In un Paese serio, o almeno decente, i vertici di Autostrade-Atlantia-Benetton, anziché balbettare scuse o chiedere danni in attesa di farne altri, si dimetterebbero in blocco rinunciando alla concessione, per pudore.
E i giornaloni si scuserebbero con i familiari dei 43 morti e uscirebbero su carta rossa. 
Per la vergogna.


https://www.facebook.com/bruno.fusco/posts/10210560579964714?__tn__=K-R

venerdì 21 settembre 2018

"Al lavoro nel giardino del capo" Responsabile e operai indagati. - Riccardo Lo Verso

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Villa Trabia

Peculato e abuso di ufficio sono le ipotesi contestate ai dipendenti comunali. Indagine della Mobile.

PALERMO - Gli operai comunali avrebbero fatto la manutenzione e abbattuto un albero pericolante nel giardino di casa del loro "capo".

Sotto inchiesta sono finiti in quattro: Rosalia Collura, responsabile del servizio “Ville e giardini storici” del Comune di Palermo e i giardinieri Salvatore Paternostro, Francesco Notarbartolo e Massimiliano Ingrassia. Hanno ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini di cui si è occupata la sezione reati contro la pubblica amministrazione della Squadra mobile.

La dirigente è accusata di abuso di ufficio e di peculato in concorso con i giardinieri. Collura, "abusando della propria posizione", avrebbe sfruttato "indebitamente risorse pubbliche in assenza della preventiva e necessaria autorizzazione e del nullaosta dell'ufficio comunale".  Si sarebbe avvalsa "della prestazione lavorativa dei dipendenti comunali (sottoposti al suo coordinamento, ndr) procurandosi in tal modo un ingiusto vantaggio patrimoniale ed arrecando un danno alla pubblica amministrazione”.

Il fattaccio è avvenuto il 17 agosto 2017, quando i giardinieri addetti esclusivamente alla cura del verde di Villa Trabia, si sarebbero spostati nella residenza privata della dirigente a Mondello. L'ipotesi di peculato, secondo il procuratore aggiunto Sergio Demontis e il sostituto Claudia Ferrari, deriverebbe dal fatto che i tre giardinieri raggiunsero casa Collura con un camioncino, modello Fiat 35, del Comune portandosi dietro anche gli attrezzi con cui svolgono le loro mansioni di dipendenti pubblici.

Gli indagati ora possono presentare memorie difensive e chiedere di essere interrogati per contrastare le accuse.

https://livesicilia.it/2018/09/20/comune-inchiesta-palermo-dirigente_997180/

Pd, indagato Francesco Bonifazi con l'accusa di finanziamento illecito in concorso con Luca Parnasi.

Pd, indagato Francesco Bonifazi con l'accusa di finanziamento illecito in concorso con Luca Parnasi

Il Partito Democratico è sotto inchiesta. A finire nel mirino della magistratura è il tesoriere del partito, Francesco Bonifazi. L'accusa è grave: finanziamento illecito in concorso con l'imprenditore Luca Parnasi, arrestato lo scorso giugno per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. I due avrebbero usato anche la fondazione Eyu (che si occupa di organizzare iniziative ed eventi che possano favorire l'ascolto e la partecipazione attiva) come canale per far arrivare al Pd soldi di dubbia provenienza. Per ora la cifra contestata è di 150mila euro, ma le indagini stanno lavorando per capire se ci sono state altre donazioni. A confermare le ipotesi della pm Barbara Zuin, e del nucleo investigativo dei Carabinieri guidato da Lorenzo D'Aloia, è stato lo stesso Parnasi, che si è lasciato andare durante un interrogatorio. Ma non solo, perché tra l'imprenditore e il tesoriere ci sarebbero stati diversi contatti e un incontro nella sede del Pd a Sant'Andrea delle Fratte, poco prima delle elezioni elettorali.
Il tutto è stato registrato sul cellulare dello stesso Parnasi, a cui era stata affidata la realizzazione dello stadio di Tor di Valle. Peccato però che la riunione si sia tenuta nello studio del parlamentare e quindi non può essere utilizzata, anzi dovrà addirittura essere distrutta. L'esponente politico ha sempre negato che la fondazione Eyu sia stata un tramite per far arrivare pagamenti al Pd, anche solo per la sponsorizzazione del partito. Bonifazi, che non ha negato di conoscere Parnasi, ha però ridimensionato il valore del loro rapporto, ammettendo di averlo incontrato giusto qualche volta: "C'è chi vuole confondere le mele con le pere sostenendo, per esempio, che la fondazione Eyu sia stata utilizzata come scatola vuota per finanziare il partito. Mi amareggia veder coinvolta in una vicenda poco commendevole una fondazione che è invece una scatola piena, anzi pienissima".

Bonifazi, presidente della fondazione Eyu, avrebbe ricevuto un totale di 250milaeuro in due tranche. Gli ultimi 100mila ricevuti però sarebbero giustificati come fattura per uno studio sul rapporto tra la casa e i cittadini. A gestire i pagamenti, il tesoriere della fondazione, Domenico Petrolo, che a ridosso delle ultime elezioni, si è fatto particolarmente insistente con i dipendenti del gruppo Parsitalia, società di costruzioni, proprio della famiglia Parnasi.

"Il governo Renzi promise a Ibm i dati sanitari di tutti gli italiani": ecco i contenuti dell'accordo segreto con la multinazionale. - Antonella Loi

Renzi al Watson Health di Boston firma l'accordo
Renzi al Watson Health di Boston firma l'accordo con Ibm

16 febbraio 2017

La multinazionale Usa in cambio investirebbe 150 milioni di dollari e 400 posti di lavoro nelle aree ex Expo. Tutti i dubbi dell'operazione.


"Siamo orgogliosi del nostro grande passato ma l’unico modo per salvarlo è creare una visione del futuro", proclamava Matteo Renzi nel corso del suo viaggio statunitense del marzo scorso. Quello che secondo l'ex premier era un "grande messaggio" da parte di Ibm consisteva nella promessa di insediare un centro di elaborazione dati europeo in campo sanitario, nelle disgraziate aree di Rho (Milano) che nel 2015 ospitarono Expo. Proprio lì è in programma la realizzazione dello Human Technopole, affidato all’Istituto italiano di tecnologia e ad altri centri d’eccellenza italiani. A latere potrebbe sorgere un progetto ambizioso che comprende - almeno nelle intenzioni - un investimento di 150 milioni di dollari e "l'assunzione" di 400 giovani. Ma, come spesso accade, le cose sono un po' più complesse di come appaiono. 

L'accordo "confidenziale" con Ibm

Osservando un po' meglio i termini dell'accordo sottoscritto a Boston da Renzi e Watson Healt - un sistema di "cognitive computing" fondato da Ibm -, si scopre infatti che la verità è ben più complessa. Secondo quanto scrive Il fatto quotidiano dietro l'incrocio di autografi adeguatamente documentato dai media ci sarebbe un "accordo confidenziale" - o sarebbe meglio dire "segreto"? -, per il quale lo Stato italiano si impegna a cedere i dati sanitari dell'intera Lombardia, la regione più ricca d'Italia e, con i suoi quasi 10 milioni di abitanti, la più popolosa. Di cosa si tratta?
I dati sono contenuti nella cosiddetta Protected Health Information (Informazioni personali sanitarie protette) che abbraccia tutto quanto concerne le vicende sanitarie del cittadino: dall'assistenza sanitaria alle "cartelle cliniche personali" fino alle "informazioni fiscali nominative o anonimizzate". L'accordo segreto prevede la cessione alla multinazionale americana "i diritti all'uso per la memorizzazione ed elaborazoine di tali dati a fini progettuali, nonché per l'utilizzo dei dati anonimizzati anche per finalità ulteriori a quelle progettuali, nonché per l'utilizzo dei dati anonimizzati anche per finalità ulteriori rispetto a quelle progettuali". Tutti elementi saldamente nelle mani delle amministrazioni pubbliche che li hanno raccolti. 

Materia per il Garante.

La domanda che rimane ancora inevasa (il Garante della privacy contattato da tiscali.it per ora non risponde ndr) è se il governo sia titolato a cedere attraverso un'accordo con una società privata il database dei pazienti italiani. E se la stessa Regione Lombardia, competente per materia ma che ancora non si è espressa, possa privarsi senza ostacoli di questo patrimonio. Tanto più che passaggio regionale, nel disegno renziano di allora, immaginiamo, sarebbe potuto essere più semplice, vista la riforma costituzionale "accentratrice" voluta dall'ex premier ma bocciata al referendum. Il tutto per di più messo nero su bianco nella massima segretezza, a insaputa dei diretti interessati.

I dati di tutti gli italiani nel mirino di Ibm.

Nel mirino di Ibm, secondo quanto risulta, non ci sarebbero solo i lombardi ma anche gli altri abitanti della Penisola Isole comprese: i "segreti" di 61 milioni di individui. Nel documento in possesso del giornale di Travaglio è scritto che l'obiettivo sarebbe proprio questo. Ibm, infatti, "ritiene cruciale avere accesso a dati dei pazienti e farmacologici, ai dati del registro tumori, ai dati genomici, ai dati delle cure, dati regionali o Agenas, dati Aifa sui farmaci, sugli studi clinici, dati di iscrizione e demografici, diagnosi mediche storiche, rimborsi e costi di utilizzo, condizioni e procedure mediche, prescrizioni ambulatoriali, trattamenti farmacologici con relativi costi, visite di pronto soccorso schede di dimissioni ospedaliere (sdo), informazioni sugli appuntamenti, orari e presenze e altri dati sanitari". Tutto lo scibile sanitario insomma.
Una mole incredibile di informazioni che Ibm potrà elaborare e trattare "in forma anonima e identificata per specifici ambiti progettuali" ma anche per finalità che esulano dalle attività primarie. In altre parole tutto ciò che verrà prodotto potrà essere sottoposto a un "utilizzo secondario". Quindi anche venduto ad altre società e, niente lo vieta, a compagnie di assicurazione come noto piuttosto fameliche di ogni informazione personale legata alla salute. 

Il "bluff" dei posti di lavoro.

Ancora una volta insomma lo Stato cede parti del suo patrimonio più intimo e prezioso, com'è quello derivante dalla salute dei suoi cittadini, a una multinazionale privata in cambio della promessa di una manciata di posti di lavoro. Attività che, viene logico pensare, lo Stato potrebbe svolgere da sé attraverso i suoi centri di ricerca. Tanto più che già all'epoca della stipula dell'accordo fra Renzi e l'Ibm, all'esultanza dell'ex premier Renzi per l'accordo portato a casa, i sindacati saltarono sul piede di guerra perché il colosso statunitense stava mandando a casa i suoi dipendenti italiani, francesi e tedeschi. Proprio nei giorni della firma, la Fiom in una nota scriveva che "Ibm in Italia sta licenziando 300 lavoratori, rifiutando di confrontarsi – in sede ministeriale – con il sindacato sul piano industriale e occupazionale, nonostante le continue ristrutturazioni che in questi anni hanno colpito il nostro paese". Era solo un anno fa.
Ecco il “Memorandum of understanding” firmato il il 31 marzo 2017:
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Ok a maggioranza da cda Rai a Foa presidente.

Ora la scelta va confermata dalla commissione di vigilanza a maggioranza di due terzi.
Il cda della Rai ha dato l'ok a maggioranza alla nomina di Marcello Foa a presidente della tv pubblica. A quanto si apprende, Foa ha ottenuto quattro voti favorevoli, quelli dell'ad Fabrizio Salini e dei consiglieri Beatrice Coletti (eletta in quota M5S), Igor De Biasio (Lega), Gianpaolo Rossi (Fdi). Rita Borioni (eletta in quota Pd) avrebbe votato contro, mentre Riccardo Laganà, il consigliere eletto dai dipendenti della tv pubblica, si sarebbe astenuto. Lo stesso Foa non avrebbe partecipato alla votazione. Si è replicato così lo stesso schema della votazione avvenuta il 31 luglio scorso. Allora la nomina di Foa non venne però ratificata dalla commissione di Vigilanza, dove il 1 agosto non ottenne la necessaria maggioranza di due terzi (27 voti su 40 componenti).
A breve sul tavolo del consiglio arriveranno anche le prime nomine della nuova gestione. In pole position per il Tg1 c'è sempre Gennaro Sangiuliano, sostenuto dal centrodestra, a meno che la spunti Alberto Matano, gradito a M5S, che potrebbe essere dirottato al Tg2. Al Tg3 si attende la conferma di Luca Mazzà (oltre che del direttore di rete Stefano Coletta), mentre alla radiofonia si parla di Paolo Corsini. Per la TGR sono in pole, sponsorizzati dalla Lega, Alessandro Casarin o Luciano Ghelfi, in lizza anche per il Tg2 qualora Matano andasse al Tg1. Per lo sport resta favorito Jacopo Volpi.
La consigliera Rita Borioni, che ha votato contro la nomina di Foa nella riunione, rende noto di aver presentato "all'inizio della seduta odierna del cda, formale diffida a procedere all'elezione di Marcello Foa, visti i chiarissimi profili di illegittimità della stessa. Nonostante ciò il cda ha deciso di procedere ugualmente. A questo punto mi riservo qualsiasi azione a tutela dell'azienda stessa. La Rai non dovrebbe forzare regole e procedure consolidate per sottostare ai diktat di alcune fazioni politiche". 
"Io non temo niente, penso che sia una persona che insieme ad altre potrà fare tanto per il servizio pubblico". Così il vicepremier Matteo Salvini ha risposto a chi gli chiedeva se temesse un nuovo no della commissione di Vigilanza sulla nomina di Marcello Foa a presidente della Rai. "Sono contento" della scelta del cda, ha detto, "e non vedo l'ora che tutti lavorino al 100%. Presentiamo persone di spessore, non amici degli amici. La Rai deve tornare a correre".