mercoledì 10 ottobre 2018

Il pericoloso gioco dell’Unione europea. - Evans-Pritchard

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(Contrariamente alla stampa mainstream italiana, Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph vede sì i rischi della situazione attuale per l’Italia – il braccio di ferro sul Def tra governo e Ue, basato più su motivazioni politiche che questioni tecniche – ma non tace i punti di forza di cui gode il nostro Paese.)

Il “chicken game”, ovvero “gioco del pollo” (o del coniglio) è, nella teoria dei giochi, un contesto così esemplificabile: due auto si dirigono a tutta velocità l’una contro l’altra; entrambi gli automobilisti contano sul fatto che sarà l’altro a spaventarsi, cedere e sterzare per primo, diventando il “pollo” – ovvero il codardo – della situazione. Se ciascuno dei due tira dritto, però, lo scontro sarà inevitabile, così come il disastro per entrambi.
Ed è proprio questo il pericoloso gioco che Juncker sta consapevolmente conducendo nei confronti del Governo italiano, per mettere sotto stress il sistema bancario. E funziona.
Le autorità dell’UE, spiega il giornalista, contano sui mercati: all’aumentare dei tassi, sperano, la paura per la tenuta del sistema bancario spingerà l’opinione pubblica italiana verso più miti consigli.
Il gioco però è rischioso. Se si va troppo oltre, infatti, l’Ue rischia di scatenare essa stessa una crisi di credito che travolgerebbe il sistema bancario italiano e la caduta in una spirale di recessione che si autoalimenta, provocando esattamente ciò che vuole evitare.
I margini del gioco sono stretti, la tattica è rischiosa, perché l’economia italiana negli ultimi mesi ha rallentato. E sgombra il campo da tecnicismi e ipocrisie: non sono certo i punti percentuali di deficit previsti nel Def italiano che sono in questione. È invece una questione tutta politica. 
Nell’Ue c’è qualcuno che punta a mettere in ginocchio l’Italia. Quando Jean-Claude Juncker questa settimana si è scagliato contro i ribelli della Lega – M5S agitando lo spettro di una ‘nuova Grecia’, ha volutamente gettato benzina sul fuoco. 
Era una strategia calcolata. Ciò che i mercati dei bond temono in questo momento è un’escalation della battaglia tra l’alleanza Lega – 5 Stelle e Bruxelles, che – se mal gestita – comporta il rischio di un’uscita italiana dall’euro e la rottura dell’unione monetaria.
Il rischio di denominazione è diverso dal normale rischio di insolvenza. Che si può isolare e misurare confrontando l’andamento dei prezzi di diverse annate di credit default swap con contratti legali diversi. La componente è in forte rialzo. Bruxelles potrebbe avere ragione nel calcolare che Roma cederà e che gli eterni ‘poteri forti’ dell’establishment italiano piegheranno i ribelli o li compreranno. Ma avverte anche che per ora non è successo: e cita le recenti affermazioni di Di Maio sul fatto che chi spera in un’inversione di rotta si illude.
Evans-Pritchard – pur definendo illusorie le promesse di Di Maio sul fatto che la maggior crescita ripianerà il deficit – mette anche in fila una serie di punti di forza italiani, abitualmente taciuti dalla nostra stampa mainstream e quindi poco noti all’opinione pubblica: che l’Italia in rapporto al bilancio UE è un contribuente netto; il nostro avanzo nelle partite correnti, ovvero nella differenza tra esportazioni e importazioni, di 2,8 punti percentuali del PIL; le dimensioni del nostro settore manifatturiero, maggiori di quello della Francia o della Gran Bretagna. 
Inoltre sottolinea come con un avanzo di bilancio primario come il nostro – a differenza della Francia, che peraltro ha ripetutamente violato il Patto di stabilità – potremmo passare tecnicamente alla lira senza temere una crisi di sostenibilità del debito.
Quanto al nostro debito pubblico, ricorda che è di 2.300 miliardi di euro, cui aggiunge un ulteriore debito di 500 miliardi di dollari alla Bce attraverso il sistema di pagamenti Target2 (che si tratti di un reale debito anche in questo caso è questione notoriamente controversa), ma sottolinea che può essere convertito unilateralmente in lire secondo le regole della Lex Monetae.
Al minimo cenno che l’Italia fosse in procinto di lasciare l’euro – e o convertire i debiti in lire o fare default – si scatenerebbe immediatamente il contagio in Portogallo, Spagna e Grecia. I creditori tedeschi rischierebbero un taglio del loro credito da un trilione di euro. Per evitarlo, la Germania e gli altri Paesi del Nord dovrebbero accettare quello che finora hanno ostinatamente rifiutato: il grande balzo in avanti verso l’unione fiscale, sostenuta da una banca centrale con pieni poteri di prestatore di ultima istanza. 
Ma Evans-Pritchard non sembra molto ottimista sul realizzarsi di questa ipotesi.
In caso di dissoluzione dell’Eurozona – messa a rischio anche dalla fine degli acquisti di obbligazioni da parte della BCE, a fine anno, che lascerà gli stati del Sud Europa esposti alle forze del mercato – Evans-Pritchard fa notare che si potrebbe parlare di “distruzione reciproca assicurata”, ma sottolinea che “l’Italia avrebbe almeno qualche effetto di compensazione: un vantaggio competitivo dovuto alla tanto necessaria svalutazione (il tasso di cambio reale è del 20% troppo alto) e una ripartenza dopo il taglio parziale del debito. È difficile invece vedere quale potrebbe essere il lato buono della medaglia per Germania, Olanda o Francia. Quindi chi ha davvero il coltello dalla parte del manico? L’Italia non assomiglia alla Grecia, dove il gruppo dirigente pro-Syriza voleva strenuamente rimanere nell’euro. La Lega e i 5 Stelle affondano le loro radici nell’euroscetticismo. Il loro piano di riserva per una valuta parallela – i “minibot” – è inserito nel contratto di governo dell’alleanza. Se gli spread delle obbligazioni salgono a livelli che soffocano il sistema bancario, il governo può in qualsiasi momento emettere carta sostitutiva come una liquidità alternativa a fini fiscali e contrattuali, sovvertendo l’unione monetaria dall’interno.
Evans-Pritchard cita diversi elementi a sostegno della posizione italiana sull’euro. Tra questi, la ormai celebre recente dichiarazione di Claudio Borghi a Radio Uno, quando disse per l’ennesima volta che tornare alla lira per l’Italia sarebbe meglio, anche se non è nel programma di governo e richiede il consenso dei cittadini. 
L’Ue sta cadendo in una trappola, ovvero sta spingendo la situazione talmente al limite che finirà col creare proprio il consenso necessario per l’uscita dall’euro. Nell’articolo sono citati inoltre i documenti sul “piano B” di Paolo Savona.
Le agenzie di rating sono pronte a muoversi. Potrebbero perdonare l’allentamento fiscale se i soldi fossero spesi per investimenti che aumentassero la velocità di crescita economica dell’Italia, ma non per invertire la riforma pensionistica e per un reddito di base universale. Il piano di abbandonare il consolidamento fiscale per i prossimi tre anni lascia il paese ancora più vulnerabile a un cambio di rotta del ciclo economico e dei tassi di interesse. L’aumento dei tassi erode il capitale delle banche italiane, che possiedono un quarto del debito pubblico negoziato e fanno affidamento sui mercati dei capitali all’ingrosso per il 21% del loro finanziamento. Siamo in un circolo vizioso. Titoli di debito pubblico e banche possono ancora abbattersi a vicenda in un effetto a spirale. Questo è il difetto fondamentale di un’unione monetaria senza un prestatore automatico d’emergenza. Difetto che l’Ue non ha mai sanato. Juncker potrebbe riuscire a terrorizzare l’Italia fino a indurla alla sottomissione nelle prossime settimane. Ma potrebbe invece appiccare l’incendio che brucerà la sua casa europea.

Fonte Vocidallestero del 8/10/2018

L'ARMATA BRANCALEONE - Marco Travaglio

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Quando vai alla guerra, prima studi il nemico, poi ti guardi intorno in cerca di alleati, infine prepari le armi più efficaci per vincere. Oppure ti vedi L’Armata Brancaleone e poi fai il contrario.
Ora, non c’è dubbio che il governo giallo-verde abbia deciso di andare alla guerra contro tutti i poteri, nazionali e internazionali, palesi e occulti, che governano per davvero l’Italia e l’Europa: Commissione Ue, Bce, Fmi e i famosi “mercati”, cioè la grande finanza e i grandi speculatori che scommettono immense fortune su o contro questo o quel Paese. E giù giù a cascata fino ai nostri poterucoli da riporto: Quirinale, Bankitalia, ragionerie e burocrazie ministeriali, Confindustria, lobby varie, partiti sconfitti nelle urne e vincenti nei media.
Il primo atto di guerra è stato vincere le elezioni, sbaragliando i due partiti-architrave del sistema che sognavano l’ennesima ammucchiata, Pd e FI, e lasciando in gramaglie un bel po’ di prenditori, lobbisti e giornalisti vedovi inconsolabili.
Il secondo è stato profanare alcuni santuari da sempre intoccabili: il precariato del Jobs Act, la corruzione impunita, i prenditori privati delle concessionarie pubbliche (vedi Autostrade Spa dopo il crollo del ponte), la lobby del gioco d’azzardo, i vitalizi, il business della cosiddetta accoglienza ai migranti.
Il terzo, il più imperdonabile, è la prima manovra finanziaria non concordata con l’Ue, dunque non recessiva e non tagliata su misura dei ricchi.

Quando, in quattro mesi, si lanciano tutte queste bombe contro chi ha sempre comandato sarebbe folle non prevedere una reazione uguale e contraria. E non comportarsi di conseguenza. 
La reazione è sotto gli occhi di tutti: scomuniche europee, moniti quirinaleschi, toni apocalittici su tutti i media che gridano pure alla censura di regime (domenica, in prima serata, Rai1 mandava in onda gli anatemi di Cottarelli e Burioni, noti portabandiera della tirannide giallo-verde), spread a 300 e Borsa in crollo.

Non c’è nessun complotto: c’è, semplicemente, il rabbioso sgomento di un intero sistema che non si dà pace di non comandare più. Quando i soliti noti raccontano che “i mercati sono neutrali” perché badano al sodo, anzi al soldo, viene da scompisciarsi: è proprio perché badano al sodo, cioè al soldo, che non sono neutrali.

Immaginiamo che accadrebbe se, puta caso, il governo varasse una legge appena più drastica della Fornero, che imponesse il suicidio obbligatorio a tutti i pensionati: i mercati e le Borse festeggerebbero, lo spread e il deficit-Pil finirebbe sottozero. Idem se una legge prevedesse lo sterminio di tutti i poveri.
Per questo esiste il suffragio universale: per evitare che comandino quelli che badano al sodo, cioè al soldo. 
Infatti, da quando gli elettori han cominciato a votare “male”, si studia il sistema di mandare alle urne solo chi vota “bene”. 
Avrete notato con quali facce disgustate si parla dei populisti che, non contenti di prendere tanti voti, pretendono pure di mantenere le promesse elettorali.
E con quali occhietti estasiati si guarda a Cottarelli, a Calenda, a Monti e ad altri noti frequentatori di se stessi, celebratissimi proprio perché non hanno mai preso un voto (infatti già si riparla di un bel governo tecnico).
I mercati, si dice, fanno il loro mestiere: verissimo. Ma il loro mestiere è speculare, non dirigere o rovesciare i governi, fare o disfare le leggi.
Questo è compito della politica.
Purtroppo però la politica non può governare contro i mercati, capaci di mangiarsi non uno, ma dieci Def con un colpo di spread.
Dunque la politica deve farci i conti, mediare e rassicurarli. E qui casca l’asino dei giallo-verdi: sono andati alla guerra in ordine sparso, spensieratamente, cazzeggiando.
Il ministro Tria ha garantito – chissà perché e a nome di chi – all’Ue e ai mercati un deficit-Pil all’1,6%,ben sapendo che basterebbe a malapena per scongiurare l’aumento dell’Iva ereditato dai predecessori, senza avviare una sola delle riforme promesse. 
E ha azzerato il suo potere negoziale. Poi, tomo tomo cacchio cacchio, ha comunicato la novità del 2,4%. E ha azzerato la sua credibilità.
Intanto ministri e urlatori vari davano i numeri più disparati sulla manovra e per giunta insultavano come ubriacone Juncker e cialtrone Moscovici.
I quali sono entrambe le cose e anche peggio.
Ma, finché non verranno spazzati via dagli elettori (i loro partiti sono già morti), hanno potere di vita o di morte sul nostro governo. E lo esercitano nel più sleale dei modi, per puri scopi elettorali: gabellano pochi decimali di deficit in più per la fine del mondo (dopo aver digerito ben di peggio da Francia, Germania, Spagna, persino Italia).
E contribuiscono allo sfascio sui mercati con le loro sparate razziste contro l’Italia e il suo legittimo governo. Moscovici l’ha confessato spudoratamente al Pais: “Non si possono confrontare Italia e Spagna” non solo per le differenze di debito e deficit, ma anche perché “Madrid ha un governo pro-europeo” e l’Italia no.
Intanto il Fmi e i suoi valletti di Bankitalia avvertono il governo di non toccare la Fornero e il Jobs Act. Dal che si deduce che l’Europa, come la intendono i suoi tenutari, è incompatibile con la nostra Costituzione: la sovranità non appartiene più al popolo, che vota chi gli pare (nel nostro caso, due partiti che vogliono cambiare l’Europa, il Jobs Act e la Fornero); bensì a pochi tecnocrati che non rappresentano nessuno (a parte i soliti “giri”), ma contano più di milioni di elettori.
Nemici come questi si combattono senza cedere di un millimetro, ma con la massima serietà: non una parola di troppo; solo atti formali inattaccabili; e tanta mediazione e persuasione.
Finora i giallo-verdi han fatto l’opposto: hanno visto L’Armata Brancaleone e, anziché evitarla, l’hanno imitata.

Marco Travaglio FQ 10 ottobre

martedì 9 ottobre 2018

Inps, premi ai medici che negano malattia e invalidità. Ordine invita alla disobbedienza: ‘Aberrazione, noi contrari’. - Thomas Mackinson

Inps, premi ai medici che negano malattia e invalidità. Ordine invita alla disobbedienza: ‘Aberrazione, noi contrari’


"Cara Inps, il medico non si compra". Durissimo il giudizio di Filippo Anelli, presidente dell'ordine dei 350mila camici bianchi sulla decisione dell'Inps di dare premi ai camici che negano malattia e revocano invalidità. "Questo incentivo, se confermato, è un'aberrazione per la professione medica e segna il tradimento di principi costituzionali. I medici non ne tengano conto”.

Non siamo i medici dello Stato ma del cittadino. Questo incentivo, se confermato, è un’aberrazione per la professione medica e segna il tradimento di principi costituzionali. Chiunque debba valutare, sappia che siamo contrari”. E’ durissimo il giudizio del presidente dell’Ordine dei Medici sulla decisione dell’Inps di introdurre per la prima volta da quest’anno le prestazioni per malattia negate e invalidità revocate tra i criteri di valutazione utili alla retribuzione di risultato dei medici, senza per altro far riferimento a quelle indebitamente riconosciute, oggetto di programmazione di specifica attività ispettiva. La delibera è firmata direttamente dal presidente Tito Boeri a marzo 2018 ma la notizia emerge e deflagra solo ora, soprattutto grazie alla denuncia di Vittorio Agnoletto. Secondo l’attuale “Piano delle performance” dell’ente, che ognuno può consultare sul sito, più il medico negherà prestazioni e più sarà pagato. Da questa attività, promettono le tabelle dell’Inps, si otterranno così minori prestazioni per altri 10 milioni di euro, portando il totale 2018 sopra quota 81 milioni.
Il cuore della questione non sono le cifre, come spiega il Presidente Filippo Anelli che rappresenta tutti i 350mila camici bianchi d’Italia: “In premessa  – dico che forse oggi paghiamo il mancato rispetto delle norme da parte di qualcuno, cosa che purtroppo nella nostra società non è residuale ma abbastanza frequente. Diciamo che c’è un costume generale nel Paese che forse ha portato a fare questo. Ma come Federazione ci siamo sempre posti e ci poniamo come problema il fatto che gli strumenti di carattere manageriale-economicistici molto spesso confliggono con la professione, cioè non sempre rispondono a bisogni e obiettivi convergenti. E questo riguarda tanti aspetti, ma per i medici prima vengono gli obiettivi di salute, poi quelli economici”. Da qui, le obiezioni specifiche.
La prima è riferita proprio all’ente pubblico, all’Inps. “Non ritengo possa avere come obiettivo quello del risparmio, ma quello del riconoscimento o meno di un giusto diritto. Credo che lo Stato oggi dovrebbe essere il maggior garante dei diritti, quindi mi fa specie che anteponga una questione di carattere economico a un diritto del cittadino. Da un punto di vista concettuale è difficile da accettare, lo dico da cittadino e non da medico. Io mi aspetterei che la mia Repubblica Italiana, fondata su determinati diritti, avesse come maggior garante lo Stato e i suoi organi. Nel momento in cui qualcuno mi incentiva a non applicare un diritto, allora è un vero e proprio tradimento della Carta costituzionale. In senso etico, credo, che questo problema debba essere posto. Non mi pare assolutamente possibile transigere”.
La misura controversa risale però a marzo 2018, dov’è stato l’Ordine in questi sei mesi? “Ha ragione quando dice che gli ordini dovrebbero dire la loro su scelte di carattere manageriale che confliggono su aspetti deontologici. Ma una volta era costume che l’Inps e non solo convocasse e sentisse l’Ordine sui rinnovi contrattuali e sulle misure che toccano aspetti deontologici della professione. Era una sana abitudine che si è persa da quando i contratti non sono più stabiliti per decreto ma privatistici. E’ forse l’occasione per rilanciare la questione, perché l’Ordine è qui anche per questo.Vorrei poi vedere, stando sui numeri, quante sono le domande e le erogazioni negate e quanti contenziosi, con relativo costo, per le casse dello Stato. Quanto cioè questo voler ad ogni costo, anche pagando il medico perché lo faccia, questo rigettare la domanda dei cittadini comporti un beneficio. Non so, per così dire, se l’impresa valga la spesa”.
Poi l’affondo sulla deontologia, messa a rischio da un pezzo dello Stato. “Non si può anteporre il diritto del cittadino a un pur ragionevole incentivo del medico. Le due cose non possono essere confliggenti. Puoi chiedere al medico di essere più efficiente sugli aspetti gestionali e operativi del suo lavoro, ma non di negare dei diritti. Se secondo loro le commissioni mediche non sono efficienti, trovino un modo per renderle tali, ma non agendo sul merito delle loro decisioni. E’ insultante anche per il medico che dietro un promesso corrispettivo si trasformi da compiacente facilitatore degli abusi a rigido funzionario che finalmente applica norme già previste. E’ insultante che lo Stato assuma un punto di vista come questo sul medico. Non puoi svendere per qualche euro in più in busta paga l’autonomia di pensiero e di giudizio professionale”.
Fonte: ilfattoquotidiano.it del 9.10.2018

Marionette detronizzate.


Il Pd, è ormai composto da individui che, oltre che distruggere l'ideologia di sinistra, hanno tradito la fiducia di chi chi li ha sostenuti affidandogli il governo del paese.

Di chi la colpa? Di chi ha messo a capo del Pd marionette accondiscendenti e avide di potere che hanno dimenticato l'ideologia che avrebbero dovuto difendere ed applicare, marionette che non accetteranno mai la sconfitta dovuta alla rabbia che loro stessi hanno suscitato comportandosi da irresponsabili, strafottenti menefreghisti desiderosi solo di obbedire ai mercati borsistici e alle banche, per ottenere in cambio vantaggi personali. 

Persone che dovrebbero sparire definitivamente dalla scena politica perché senza alcuna etica, senza alcuna personalità, pupattoli inutili e dannosi. E che, invece, come dei banalissimi esseri ignavi e sterili, denigrano chi li ha sostituiti con la speranza di sminuirne credibilità ed efficacia di azione. 

Governare è un onore, un privilegio e dovrebbe essere concesso solo a persone dotate di abnegazione, buona volontà, discernimento, preparazione, cultura, lungimiranza.

Governare richiede una responsabilità pesantissima, che pochi possiedono, e pochi, pertanto, dovrebbero essere gli individui desiderosi di assumersene l'onere; 

ma quando il governo del popolo viene affidato ad individui incoscienti, accondiscendenti e privi di scrupoli, perde ogni suo alto significato e diventa un banalissimo lavoro di routine per cui il nominato dimentica di essere persona e diventa un burattino al servizio di chi comanda, perdendo di vista qual'è l'incarico onorario del quale è stato investito.

Cetta.

Premio Nobel Economia 2018 a Nordhaus e Romer.



I due economisti statunitensi hanno studiato le relazioni tra economia, clima e la crescita endogena.
Gli statunitensi William Nordhaus e Paul Romer si sono aggiudicati il premio Nobel per l’Economia. La crescita globale sostenibile e il benessere della popolazione tra i temi dei loro lavori
Perché il Nobel a Nordhaus e Romer.
Il Nobel è stato assegnato ai due economisti statunitensi in quanto "hanno sviluppato metodi che affrontano alcune delle sfide fondamentali e più urgenti del nostro tempo – ha affermato la Royal Academy of Sciences di Stoccolma – combinare la crescita sostenibile a lungo termine dell'economia globale con il benessere della popolazione del pianeta". I due vincitori condivideranno il premio da 9 milioni di corone, pari a circa 860mila euro. La proclamazione arriva dopo l'assegnazione, nei giorni scorsi, dei Nobel per la Paceper la Medicinala Fisica e la Chimica. Il Nobel per la Letteratura, invece, non sarà assegnato quest'anno in seguito allo scandalo legato a Jean-Claude Arnault.  

Chi è William Nordhaus.
A Nordhaus, 77enne professore a Yale, il comitato norvegese dei Nobel ha deciso di assegnare il premio in particolare per aver studiato l'interrelazione tra cambiamenti climatici ed economia a livello globale, creando per primo un modello quantitativo che descrivesse tale interazione. La sua ricerca – sottolinea la Royal Academy – mostra come "l'attività economica interagisca con la chimica e la fisica di base sui danni causati dagli effetti del cambiamento climatico". Il suo modello oggi viene utilizzato per esaminare le conseguenze degli interventi sulla politica climatica, ad esempio le tasse sulle emissioni di CO2. Consulente economico durante l'amministrazione Carter, Nordhaus ha scritto numerosi libri, tra cui un manuale con un altro premio Nobel, Paul Samuelson.  

Chi è Paul Romer.
Romer, fino a pochi mesi fa capo economista della Banca mondiale e in precedenza professore a Stanford, compirà 63 anni a novembre. A lui, che è figlio dell'ex Governatore del Colorado Roy Romer, il Nobel è andato per lo studio che ha gettato le basi per quella che oggi è conosciuta come teoria della crescita endogena, da cui sono emerse nuove ricerche sulle politiche che incoraggiano l'innovazione e la crescita a lungo termine. Le sue ricerche hanno dimostrato "come gli economisti possano perseguire un tasso di crescita sano" – ha spiegato sempre il comitato norvegese – e come le forze economiche influenzino le imprese a produrre nuove idee e innovazione. Romer è intervenuto in diretta audio durante la presentazione del premio.  

Fonte: www.tg24.sky.it del 8.10.2018

sabato 6 ottobre 2018

Si aggiudica l'opera di Banksy per un milione di sterline, ma subito dopo il quadro si autodistrugge e lascia tutti di stucco.



"È lo scherzo più audace della storia dell'arte", scrive il Guardian. Lo scherzo dell'artista lascia l'acquirente scioccato, ma non è detto che sia un male...


Questa opera si autodistruggerà entro cinque secondi: non è l'adattamento artistico dell'ennesima Missione Impossibile di Tom Cruise, ma ciò che è realmente accaduto ieri sera ad un'asta di Sotheby's a Londra. Per gentile concessione di Banksy. La sua 'Girl With Balloon' era stata appena battuta per 1,04 milioni di sterline (circa 1,18 milioni di euro), quando la tela - davanti agli occhi sbigottiti dei presenti - è scivolata dalla cornice per riemergere sotto di essa ridotta a strisce da un tritadocumenti nascosto al suo interno ed azionato in sala probabilmente dallo stesso fantomatico artista britannico.
Il Guardian non ha dubbi: "Banksy ha fatto quello che potrebbe essere lo scherzo più audace nella storia dell'arte con uno dei suoi lavori più conosciuti", scrive oggi il quotidiano, che pubblica le immagini dell'opera in brandelli - fortunatamente solo per metà - e dei presenti in sala che la guardano a bocca aperta.
Banksy, poco dopo ha postato su Instagram un'immagine dell'opera post-tritadocumenti con il titolo 'Going, going, gone...'. "Sembra che siamo appena stati Banksy-zzati", ha detto il direttore di Sotheby's Alex Branczik. Non è chiaro, commenta il Guardian, se lo scherzetto aumenterà o meno il valore dell'opera. Intanto, la casa d'aste ha reso noto in un comunicato al Financial Times che l'acquirente è rimasto "sorpreso".
Fonte: www.huffingtonpost.it del 6.10.2018

Taranto, i «furbetti» del ricovero «La clinica restituisca 13 milioni». - Massimiliano Scagliarini

Taranto, i «furbetti» del ricovero«La clinica restituisca 13 milioni»Taranto,

L’Asl: trattamenti di ossigeno-terapia pagati come interventi chirurgici.

BARI - Dovrà essere il primario della Neurofisiopatologia del Policlinico romano di Tor Vergata a riesaminare le cartelle cliniche della clinica San Camillo di Taranto, cui la Asl ha chiesto di restituire 13,5 milioni di euro a fronte di prestazioni diverse da quelle realmente erogate ai pazienti. Lo ha deciso il Tar di Lecce, in un caso emblematico dei rapporti tra aziende sanitarie e ospedali privati pugliesi: i controlli sull’appropriatezza dei ricoveri, che arrivano (se arrivano) ad anni di distanza, spesso sono parziali e non riescono a stroncare il fenomeno della codifica opportunistica. Quello di indicare nelle cartelle cliniche un codice «Drg» (il listino prezzi della sanità) più favorevole per il privato.
In questa vicenda, però, la Asl di Taranto fino ad ora ha lavorato con impegno, pur scontrandosi con la casa di cura: nel 2015 l’amministratore, l’avvocato Carlo Fiorino, è stato condannato a quattro mesi per interruzione di pubblico servizio, in quanto aveva impedito agli ispettori dell’Uvar di accedere alle cartelle. «Oggi - garantisce il direttore generale della Asl, Stefano Rossi - i controlli si svolgono regolarmente, e su una buona percentuale delle cartelle».
La vicenda affrontata dal Tar riguarda il Drg 532, intervento chirurgico sull’ernia del disco che costa alla sanità pubblica 8.413 euro e che la San Camillo aveva dichiarato di aver effettuato in anestesia totale. Ma la quantità di interventi effettuati aveva insospettito la Asl. Quel Drg - secondo la letteratura - è un esito collegato ai reparti di neurochirurgia, mentre alla San Camillo riguardava l’ortopedia per ricoveri molto brevi. Si trattava, in realtà, di «trattamenti di ossigeno-ozono terapia» che valgono 500 euro, peraltro effettuati in un reparto che - sempre secondo la Asl - risultava avere percentuali di occupazione superiori al 100% e che svolgeva questi interventi sotto la supervisione di un medico (nel frattempo deceduto) molto noto in città.
La Asl ha riqualificato gli interventi «523» in «234», che è un Drg medico e vale 4.600 euro. La richiesta di restituzione dei 13 milioni riguarda il periodo dal 2009 al 2013, e dagli atti di causa emerge che la San Camillo avrebbe impedito i controlli dal 2011: per questo la Asl, all’epoca, ha mandato le carte in Procura.
La San Camillo ha tuttavia impugnato la richiesta di restituzione, segnalando di aver ottenuto tre decreti ingiuntivi nei confronti della Asl in relazione proprio a somme contestate. E i giudici amministrativi hanno ritenuto opportuno nominare un tecnico terzo cui affidare la verifica della «regolarità tecnica delle ri-codifiche operate dalla Asl», sia «sul piano - per così dire - “qualitativo” (e dunque riferibile alla condivisibilità, nel merito, delle ragioni che - caso per caso - a parere della Asl le giustificavano)», sia «su quello “quantitativo” (riferibile, cioè, al quantum delle somme - almeno su base percentuale rispetto ai 13,5 milioni circa richiesti - di cui la Asl è, in base all’esito della verifiche qualitative, legittimata a chiedere la restituzione)». Sui decreti ingiuntivi, però, i giudici hanno osservato che «non è chiaro se e in che percentuale i decreti siano pertinenti alla somme oggi in contestazione». Sarà dunque il primario romano Nicola Biagio Mercuri a dover rivedere le cartelle.
Peraltro, in parallelo, il Consiglio di Stato si è occupato del caso che riguarda gli interventi effettuati dalla Bernardini di Taranto: qui la Asl chiede la restituzione di 1,3 milioni. I giudici hanno ordinato alla Finanza, che aveva svolto le verifiche nel 2016, di depositare una relazione di chiarimenti.
Fonte www.lagazzettadelmezzogiorno.it del 6 ottobre 2018.