martedì 12 novembre 2019

Lupi per agnelli. - Marco Travaglio



La nota faccia da renzi che risponde al nome di Renzi ci accusa di censurare un’archiviazione: quella dell’indagine nata a Firenze nel 2015, poi trasferita in parte a Milano su vari appalti sospetti, famosa perché costò il posto al suo ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi (Ncd). Lupi non era indagato, dunque con l’archiviazione non c’entra. Ma i giornali di destra e dunque Renzi frignano per il povero innocente perseguitato dall’ennesimo complotto mediatico-giudiziario. Forse è il caso di rammentare perché Lupi diede le dimissioni e Renzi le accettò, visto che non lo ricordano nemmeno loro. Dalle intercettazioni venne fuori che: Lupi aveva chiamato Ercole Incalza, capostruttura del suo ministero, per dirgli: “Deve venirti a trovare mio figlio” (Luca, neolaureato in cerca di lavoro); Incalza e l’imprenditore e abituale appaltatore Stefano Perotti si erano interessati a incarichi professionali per Lupi jr.; Perotti aveva regalato al giovanotto un Rolex da 10 mila euro. Lupi, cuore di papà, fece benissimo a dimettersi e Renzi ad accompagnarlo alla porta. Per quei fatti che, a prescindere dalla rilevanza penale, ponevano un’evidente questione morale e di opportunità: un ministro non può accettare favori o regali da dirigenti e clienti del suo ministero. L’essere indagato o meno non c’entra: c’entrano i fatti, mai smentiti neppure dall’archiviazione. Che riguarda gli indagati, dunque non Lupi, e non parla di lui.

Eppure il Giornale titola: “‘Dimissionato senza motivo’. L’amara rivincita di Lupi” . E Libero: “Archiviata l’inchiesta sui Rolex. Chi ripaga il male? Lupi si era dimesso per nulla senza essere indagato. Prosciolto nel 2018” (parola di Renato Farina, ciellino come Lupi ma pregiudicato a differenza di Lupi, convinto che si indagasse sul Rolex e che si possa prosciogliere uno che non è mai stato inquisito). E il Riformatorio: “Lupi e i suoi fratelli vittime innocenti dei tagliagole a 5Stelle” (per Tiziana Maiolo il pm era Di Maio). Renzi però li supera e strilla contro “i gazzettini del giustizialismo che fischiettano e fanno finta di nulla davanti all’ennesimo scandalo che scandalo non era”, anziché “scusarsi” con Lupi. Che, rivela Renzi, “era totalmente estraneo alla vicenda ma decise di dimettersi lo stesso”. Ma tu guarda: era estraneo e lui, anziché respingerne le dimissioni, le accolse al volo. Perché non si scusa lui? Sarebbe una bella scena: un politico che si vergogna di una delle poche cose giuste fatte in vita sua, cioè far dimettere un non indagato in nome della questione morale, poi corre a rimediare imbarcando una dozzina di indagati e condannati in nome della questione immorale.

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L’alleato di Salvini è omertoso. - Tommaso Merlo



L’alleato di Salvini attraversa l’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo. Come hanno fatto centinaia di mafiosi nella sanguinaria storia malavitosa italiana. Si vedono solo le gambe. Sono storte e il passo è incerto. L’alleato di Salvini non ha voluto si vedesse il suo volto. Forse per vergogna o forse per evitare di finire carne da macello social. Mossa boomerang. L’autocensura rende ancora più drammatica la scena. L’Italia intera guarda le gambe di quel vecchio prendere posto davanti ai giudici. Non sono gambe qualunque, sono le gambe del tre volte presidente del consiglio che dovrebbe testimoniare sulla trattativa stato-mafia, una delle pagine più inquietanti della nostra storia e che lo vede assoluto protagonista. Mafia e politica che cooperano per spartirsi l’Italia. L’alleato di Salvini recita poche e striminzite parole. Si avvale della facoltà di non rispondere. E cioè tiene la bocca chiusa. E cioè sceglie l’omertà. Ancora una volta. Invece di mettersi a disposizione della Giustizia, invece di cogliere l’occasione per dimostrare la propria estraneità, invece di scandalizzarsi per essere ingiustamente tirato in ballo, invece di prendersela per essere anche solo accostato ad un mafioso qualsiasi, l’alleato di Salvini sceglie di non collaborare, sceglie di portarsi i suoi indicibili segreti nella tomba. Un silenzio che echeggia per tutto il paese. Un silenzio che vale più di mille bugie che sarebbero comunque uscite dalla sua bocca. Perché se davvero non aveva nulla da nascondere, l’alleato di Salvini avrebbe parlato eccome, avrebbe sfoderato la sua logorroica parlantina predicando per ore ed ore la sua totale estraneità alla vicenda. Ed invece neanche una parola. Muto. Evidentemente non può parlare. Troppo rischioso. Confessare tutta la verità su quegli anni bui, per l’alleato di Salvini significherebbe ammettere che la propria intera esistenza è stata buttata via inseguendo spaventosi disegni di potere. Significherebbe venir sommerso dai rimorsi e dai sensi di colpa fino ad essere costretto a togliersi finalmente la maschera e guardare i propri cari e i milioni di cittadini che hanno creduto in lui negli occhi. Davvero troppo. Meglio recitare la propria parte fino all’ultimo, meglio evitare l’incontro con la propria coscienza fino a quando il destino deciderà di abbassare il sipario. La scena dell’aula bunker dura pochi istanti ma è molto intensa. I giudici prendono atto. L’alleato di Salvini è omertoso e se ne torna a Roma col suo jet privato. È indagato anche a Firenze per le stragi del 1993 e altri processi lo tormentano. È inseguito dai giudici. È inseguito dai suoi incubi. Da una vita intera. È questa la sua vera condanna. La fuga perenne. Dal suo passato, da se stesso. Anche la politica è una condanna per lui. Ne ha bisogno. Gli serve per continuare la sua fuga. Ormai perde colpi e il suo partito è ridotto all’osso, ma non si può fermare. Ci sono nuove regionali a breve e poi forse le politiche e poi forse un posto di rilievo nel nuovo governo tutto di centrodestra. Magari quello di padre nobile. Coi suoi avvocati ed inservienti sulle poltrone strategiche. In una democrazia sana ad un personaggio del genere non sarebbe concesso nemmeno di avvicinarsi alle istituzioni. In Italia invece, dopo aver varcato l’aula bunker, per lui si potrebbero riaprire le porte del potere nella nuova veste di alleato di Salvini.

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lunedì 11 novembre 2019

Trattativa Stato-mafia, Berlusconi "scarica" Dell’Utri. In aula si rifiuta di testimoniare. - Salvo Palazzolo

Trattativa Stato-mafia, Berlusconi "scarica" Dell’Utri. In aula si rifiuta di testimoniare

E non vuole neanche essere ripreso da fotografi e Tv. La difesa del suo braccio destro rilancia: “Proiettate in aula l’intervista in cui dice di non aver subito alcuna minaccia dai boss”. Ma la corte dice no.

Prima di entrare in aula i suoi avvocati fanno sapere che non vuole essere ripreso da fotografi e telecamere. Dispensa sorrisi, ma questa volta non parla. Silvio Berlusconi si avvale della facoltà di non rispondere al processo d’appello per la “trattativa Stato-mafia”: "Su indicazione dei miei avvocati", precisa. Nonostante la convocazione dei legali del suo amico di sempre, Marcello Dell’Utri, che è uno degli imputati del processo, condannato in primo grado a 12 anni di carcere.

Mossa attesa il silenzio di Berlusconi, tanto che all’inizio dell’udienza l'avvocato di Dell’Utri, Francesco Centonze, aveva chiesto alla corte di acquisire una dichiarazione dell'ex premier, ripresa nel corso di una conferenza stampa da Rai news, il giorno della condanna di Dell’Utri, il 20 aprile 2018. “In quella occasione disse che il governo Berlusconi, nel 1994 o anche successivamente, non aveva mai ricevuto alcuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti. E’ una dichiarazione che andrebbe proiettata in aula, magari anche prima dell’audizione del testimone”. Richiesta bocciata dalla procura generale: “Noi siamo in uno studio Tv”, dicono Giuseppe Fici e Sergio Barbiera. Anche la corte boccia l'istanza: “Il documento è stato già acquisito agli atti, come dice la Cassazione non è necessario che la proiezione avvenga nel contraddittorio delle parti”.

Fosse stato per Berlusconi, non sarebbe neanche venuto a Palermo: nei giorni scorsi, i suoi legali – l’avvocato Niccolò Ghedini e il professore Franco Coppi, oggi presenti in aula - erano corsi a presentare un certificato ai giudici della corte d’appello, per attestare che alla procura di Firenze c’è da due anni una nuova indagine sui mandanti occulti delle stragi del 1993, che riguarda proprio i due amici inseparabili da 45 anni, fra affari e politica. Per Berlusconi, era già un motivo per tacere al processo “Trattativa”, in quanto “indagato di reato connesso”, anzi proprio un motivo per non venire a Palermo. Ma i giudici hanno insistito per la convocazione. Non sono però riusciti a tirargli di bocca una sola risposta. E di corsa l’ex premier è uscito dall’aula, sfuggendo anche ai cronisti.

La delusione di Dell’Utri.
Dell’Utri non c’è in aula. E’ rimasto nella sua casa di Milano, dove sta finendo di scontare un’altra condanna, quella per concorso esterno in associazione mafiosa, a dicembre avrà finito. Al momento, naturalmente, non può parlare. Ci aveva pensato la moglie, dopo aver saputo di quel certificato presentato dai legali di Berlusconi, ad esprimere tutta la delusione del marito.

“È meglio che non parlo – disse Miranda Ratti all’AdnKronos, il 24 settembre scorso - meglio che non dico quello che penso. Ricordo solo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte di assise d’appello di Palermo. Qui c’è la vita di Marcello in gioco”. Una dichiarazione accorata, senza precedenti. Rafforzata anche da altre parole, attribuite dall’agenzia di stampa “all’entourage di Dell’Utri”: “Sorpresa, rabbia, incredulità. E una grandissima amarezza”.

Un terremoto nella galassia che dagli anni Settanta ha tenuto insieme Berlusconi e l’allora segretario-amico tuttofare arrivato da Palermo, diventato il motore di tante attività imprenditoriali e poi uno dei fondatori di Forza Italia.

La smentita mai arrivata.
Dell’Utri si aspettava che Berlusconi smentisse l’assunto su cui si fonda la condanna di primo grado del processo “Trattativa”: di aver ricevuto per il suo tramite le minacce di Cosa nostra quando era presidente del Consiglio, nel 1994. Minacce di nuove stragi, i boss puntavano ad ottenere un alleggerimento del carcere duro e una legislazione più favorevole.

La sentenza “Trattativa” dice anche dell’altro: Berlusconi avrebbe continuato a pagare i boss durante quel periodo. Un pagamento iniziato a metà degli anni Settanta – dice l’altra sentenza, quella che ha condannato Dell’Utri per associazione mafiosa – un pagamento per quel “patto di protezione” che l’allora imprenditore Berlusconi avrebbe stipulato con i boss siciliani: prima per proteggere la sua famiglia dai sequestri di persona che terrorizzavano la Milano-bene, poi per proteggere i suoi ripetitori Tv in Sicilia.

Ecco perché Berlusconi non ha mai parlato nelle aule di giustizia di Palermo. Perché la storia di Marcello Dell’Utri è strettamente connessa alla sua.

I soldi all’amico.
“Sorpresa, rabbia, incredulità”. Le parole dell’entourage di Dell’Utri raccontano davvero di una frattura senza precedenti. E dire che fino a due anni fa Berlusconi faceva cospicui regali alla famiglia dell’amico- socio in carcere: fra il novembre 2016 e il febbraio 2017, sono arrivati bonifici per tre milioni di euro. Causale, “prestiti infruttiferi”. Operazioni che hanno fatto scattare una segnalazione alla Guardia di finanza da parte dell’Uif, l’unità antiriciclaggio della Banca d’Italia. E, ora, sul tesoro di Dell’Utri vuole fare chiarezza anche la procura di Palermo.

Mentre a Firenze sono arrivate le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano, intercettato dai pubblici ministeri della "Trattativa". Diceva al compagno dell’ora d’aria: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia”. Così Berlusconi e Dell’Utri sono finiti indagati nuovamente per le stragi. Ma questa volta — ed è la prima volta — hanno scelto strade diverse per difendersi.

https://palermo.repubblica.it/cronaca/2019/11/11/news/palermo_attesa_per_deposizione_berlusconi_al_processo_trattativa-240826843/

Il gesto di verità di Giuseppe Conte merita rispetto. - Antonio Padellaro



Ci vuole del fegato per affrontare una folla esasperata di operai che ti circondano, ti strattonano, ti insultano, ti scaricano addosso tutte le colpe, anche quelle di chi ha le colpe ma lì non c’è, non si è fatto vedere. Niente auto sgommanti o riunioni riservate in prefettura per poi scappare via di corsa, tanto un titolo nei tg e sui giornali è comunque assicurato. Nei tg vediamo invece un uomo, il presidente del Consiglio, un potente senza scorta e con il colletto della camicia slacciato, che risponde a brutto muso a un tipo col cappuccio che gli grida in faccia: “Sei un paraculo”. Forse l’incappucciato si aspetta che il “paraculo” se la fili via con la coda tra le gambe (gliele ho cantate), ma la scena ha uno scarto improvviso perché il potente con la camicia slacciata lo affronta (“togliti il cappuccio”) e gli chiede ragione dell’insulto. Sa di essere accerchiato da una pressione che è quella dei corpi agitati, ma anche della disperazione, dell’angoscia, della paura perché se finisce la fabbrica finisce tutto. I toni si abbassano. Se fossi un paraculo direi di avere in tasca la soluzione, spiega il potente e mostra la tasca vuota della giacca che è una dimostrazione di impotenza davanti alla complessità del problema. E anche di verità. Per questo ho provato rispetto per Giuseppe Conte, ieri sera a Taranto, davanti ai cancelli dell’ex Ilva. Ci ha messo la faccia.


https://infosannio.wordpress.com/2019/11/09/il-gesto-di-verita-di-giuseppe-conte-merita-rispetto/
Grande Conte, Grande Padellaro.
Tra Uomini ci si capisce.

Report: del leghista Giancarlo Giorgetti che se la dà a gambe davanti ai microfoni ne vogliamo parlare?

Report: del leghista Giancarlo Giorgetti che se la dà a gambe davanti ai microfoni ne vogliamo parlare?
Foto "il Messaggero"
Ragazzi: adesso anche il servizio pubblico della RAI ha messo a nudo – con i ‘numeri’ e non con i commenti – lo scippo del Centro Nord Italia ai danni del Sud. Il commento di Pino Aprile sull’ex sottosegretario della Lega, Giancarlo Giorgetti, che scappa perché non sa cosa dire ai cronisti di Report!
Il servizio che un paio di giorni fa Report – la trasmissione d’inchiesta della RAI – ha dedicato al Sud (che potete approfondire sulla Facebook di Terroni di Pino Aprile) ha aperto un dibattito interessante. Volendo, nella storia della Seconda Repubblica, è la prima volta che il servizio pubblico televisivo racconta la verità su come l’Italia ha trattato e continua a trattare il Mezzogiorno d’Italia.
Molto centrato il commento dello scrittore e giornalista Pino Aprile, leader del Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale, soprattutto là dove mette in evidenza le contraddizioni della Lega di Matteo Salvini e del suo vice, Giancarlo Giorgetti. Infatti, davanti al giornalista di Report, che gli chiedeva conto e ragione della mancata applicazione della legge nazionale sul federalismo fiscale – legge voluta proprio dalla Lega – Giancarlo Giorgetti è letteralmente scappato!
Di cosa si era accorto, Giorgetti? Che se la legge – ribadiamo: voluta dai leghisti – fosse stata applicata, lo Stato avrebbe dovuto togliere soldi al Centro Nord e darli al Sud! Così la documentazione è sparita.
Scrive Pino Aprile:
“La fuga: dinanzi a dati, domande vere, non addomesticate, i ladri di diritti e verità sono scappati. Quando il cronista chiede a Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, che fine hanno fatto i documenti sullo scippo progettato a danno del Sud (e ordinati da lui quando era presidente della Commissione parlamentare che avrebbe dovuto garantire uguali diritti a tutti e invece li rubava ai meridionali), lui farfuglia, scappa, cambia direzione, accelera, sparisce. China il capo e gira la faccia, come per non farsi riconoscere. Conservate nella memoria e in cima alle vostre pagine social quell’immagine: è la sintesi di un delitto e di una ammissione di colpa”.
Ce n’è anche per un altro leghista, Roberto Maroni:
“Quando, dopo le solite puttanate razziste sugli amministratori del Nord più onesti, per definizione e sé-dicenti – scrive Pino Aprile – l’intervistatore elenca i nomi di quelli lombardi e veneti incarcerati per mazzette, furti, appalti truccati, l’ex presidente della Lombardia Roberto Maroni, che vide il suo vice finire in galera (e lui stesso ha qualche problemino…) si alza e fugge. Conservate l’immagine nella memoria e sulle vostre pagine social: dice di che gente si sta parlando, il loro livello, e dice che hanno coscienza di quel che hanno fatto”.
Non può mancare una ‘pennellata’ su qualche esponente della ‘sinistra’ italiani in bilico tra il PD e Italia Viva di Renzi. E’ sempre Pino Aprile che scrive:
“E l’incredibile Luigi Marattin nato a Napoli, ex-PD ora Italia Viva, già consigliere economico di Renzi, e presidente della Commissione tecnica sui fabbisogni standard, indistinguibile dal peggior leghista, quando i meridionali venivano derubati di risorse e diritti, che dice: «I 35 euro in meno a un campano serve a riconoscere paradossalmente il fatto che la spesa storica è stata più bassa»! Per capirci, il cotale dice che per ‘far riconoscere’ che i terroni sono stati fottuti dallo Stato, tramite i partiti (tutti), li fottiamo di nuovo. Metti che poi uno non se ne accorge, se smetti di derubarlo… La Lega porta la nomina, ma tutti i partiti sono al servizio del potere nordico, con uso massiccio di ascari del Sud (il PD manda i dirigenti del Nord a capeggiare almeno la metà delle liste elettorali al Sud; la Lega lascia fare il lavoro sporco agli indigeni, poi invia i commissari in tutte le regioni meridionali, ad amministrare le colonie)”.
La “spesa storica”: l’ultima trovata della Lega e dei partiti politici nazionali per gabbare i circa 20 milioni di abitanti del Sud: siccome i Terroni hanno sempre avuto meno soldi, beh, che continuino ad avere meno soldi!
“Si possono scrivere molte cose della puntata di Report – scrive sempre Pino Aprile – su come il Sud è depredato, ma dopo il successo di libri meridionalisti su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo; dopo il dilagare sul Web di verità storiche e contemporanee taciute dalla macchina nazionale della comunicazione (inclusa, e anzi in prima fila, quella di Stato); dopo l’ottima trasmissione di Riccardo Iacona; la puntata di Report sdogana gli ultimi dubbi: l’informazione sui furti di risorse e diritti ai danni dei meridionali, da parte dello Stato, tramite i partiti ‘nazionali’ complici del potere politico ed economico del Nord (tutti, e inclusi, ripeto, i rappresentanti del Sud), è uscita dalle catacombe dei ‘sudisti’ (lo dicono in termini dispregiativi), dei neoborbonici (dispregiativo, ovvio), eccetera. Non è più roba da lamentela terronica e ‘rimboccatevi le maniche'”.
Ragazzi: questa volta è stata la RAI a mettere in luce le magagne di un Centro Italia che toglie risorse al Sud, peraltro non su commenti, ma sulla base di dati ufficiali, oggettivi, impossibile da smentire: non a caso il leghista Giorgetti se l’è data a gambe!
“Quindi, è fatta? – si chiede e chiede Pino Aprile -. No, ovvio. Ora dobbiamo temere l’uso di questa informazione, da parte di chi si è scoperto alfiere dei diritti negati al Sud qualche minuto fa (e può succedere, non è una corsa a chi arriva prima), ma per renderla ancora una volta funzionale, però ‘da Sud ribelle (quasi…)’, ai soliti interessi. Non dimentichiamo il piano dei primi anni Novanta, concertato fra Lega e mafia, per la creazione di ‘leghe’ meridionali apparentemente contro quella Nord, di fatto al suo servizio (l’ideologo razzista Gianfranco Miglio scese a Catania per incontrare il latitante boss Nitto Santapaola)”.
“Ora diventa persino più difficile gestire e analizzare l’informazione, però parliamo di qualcosa che non c’era e adesso c’è, che è poca, ma cresce e può dilagare da un momento all’altro; se lo fa nella direzione sbagliata, sarà difficile correggerla. Un problema. E finalmente il problema è questo! Fatemelo ripetere: vederli, quei prepotenti e ladri di equità, fuggire dinanzi a una domanda, alla loro colpa, alla vergogna… Tante volte ti chiedi “ma chi me lo fa fare!”; ecco quella può essere una risposta. Ne vale la pena”, conclude Pino Aprile.
Ah, dimenticavamo: Giancarlo Giorgetti è quello che, da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, durante il Governo Giallo-Verde, si è reso protagonista della seguente furbata:
“Ha fatto mettere, nero su bianco, che le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione verranno utilizzate man mano che i progetti saranno ‘cantierabili’, cioè esecutivi, cioè pronti per essere realizzati. Peccato che non sono stati specificati i luoghi dove la ‘cantierabilità’ dei progetti si materializzerà. Che significa? Semplice: che siccome il Sud ha pochi progetti ‘cantierabili’, mentre nel Centro Nord ci sono già tanti progetti ‘cantierabili’, una parte delle risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione – che sono fondi del Sud – andrà al Centro Nord Italia!”
“Un ‘meraviglioso’ scippo silenzioso ai danni del Sud targato Lega di Matteo Salvini-Giancarlo Giorgetti. A quanto ammonterebbe questo nuovo scippo al Sud in salsa leghista? A circa 10 miliardi di euro. C’è un rimedio? Certo: il Ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, dovrebbe bloccare subito questa furbata: e pazienza se leghisti, renziani e PD ci resteranno male!

L'editoriale di Marco Travaglio: Pecunia non olet - Servizio Pubblico - Puntata 6

domenica 10 novembre 2019

Ma quale scudo. - Marco Travaglio

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Sullo “scudo penale” per chi gestisce l’Ilva, introdotto da Renzi nel 2015, bocciato in parte dalla Consulta nel 2018 e, dopo varie giravolte, cancellato un mese fa, mentono tutti. Mentono i due Matteo e il Pd, che lo rivogliono dopo averlo abolito. Mentono politici, sindacalisti e opinionisti che, per malafede o ignoranza, ripetono che, senza scudo, i commissari e Mittal rischiano di pagare per i reati dei predecessori: la responsabilità penale è personale e ciascuno risponde di quel che fa lui, non altri. Mente, o non sa quel che dice, chi chiede una norma per interpretare l’art.51 del Codice penale: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. Questa “scriminante”, che nei processi comporta la non punibilità di chi ha violato una norma (di solito per omissione), già si applica al manager che deve attuare il piano di risanamento imposto dalla legge o dal giudice in una fabbrica vetusta e insicura: se la messa in sicurezza richiede tempo, chi deve gestirla può violare provvisoriamente la 231 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e le norme a tutela dell’ambiente e della salute.

Ora si chiede una nuova norma per richiamare l’articolo 51. Ma, semprechè le bonifiche siano in corso (e finora nessuna gestione dell’Ilva ha rispettato i tempi e i modi imposti dai giudici), l’art. 51 già esime chi le fa da condanne penali. Senza bisogno di scudi: che senso avrebbe una nuova legge sull’art. 51 se questo è già in vigore? Qui, trattandosi di reati colposi, non c’è neppure il rischio di rispondere “in continuazione” dei reati dei predecessori: per essere “continuati”, i reati in serie devono essere commessi nel “medesimo disegno criminoso”, cioè dolosi. Ma, si obietta, l’esimente dell’art. 51 scatta durante le indagini o addirittura il processo: intanto finisci indagato, forse imputato e le spese legali te le paghi tu. Vero, ma siccome l’applicabilità dell’esimente al caso concreto deve stabilirla il giudice, un’indagine e a volte un processo sono inevitabili. E non c’è legge che possa impedirli (salvo che sia incostituzionale, ma allora verrebbe bocciata dalla Consulta). Invece si può pensare a uno “scudino” non penale, che copra le spese legali di chi viene indagato o imputato adempiendo il dovere di realizzare gradualmente il piano ambientale; e magari gli dia più tempo, fissando però non solo il termine finale, ma anche un cronoprogramma a tappe intermedie. Così governo e magistratura potranno verificare day by day il rispetto degli obblighi di bonifica. Cosa che, nella vergognosa storia dell’Ilva, non è mai avvenuta.

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