venerdì 12 giugno 2020

100mila euro alla Lega da un conto in rosso. - Andrea Palladino

100mila euro alla Lega da un conto in rosso

"Relazioni" - I soldi a Salvini arrivano da Paolo Cosenza, legato all’omonimo gruppo del maxi-progetto edilizio sul golfo di Pozzuoli.
Ha la voce dimessa al telefono Paolo Cosenza. Imprenditore campano, membro di una delle famiglie più potenti di Pozzuoli, è il principale finanziatore, per il 2019, della Lega per Salvini Premier. Centomila euro, in un’unica tranche, pagati un anno fa. Trovarlo non è stato facile, il telefono aziendale per giorni squillava a vuoto, la sede appariva introvabile, l’unico contatto attivo è la Pec della sua azienda: “Adesso l’ufficio è praticamente un box di cantiere itinerante, perché sto facendo un cantiere che… insomma… non mi consente più di avere una sede fissa. Mi sono ridimensionato tantissimo”, esordisce. La sua società, la Coseco srl, ha effettivamente avuto un crollo negli affari, passando da un fatturato di 635 mila euro nel 2017 ad appena 45 euro nel 2018. Una crisi che ha messo a rischio la stessa esistenza dell’impresa. E gli ultimi due anni sono stati disastrosi per i conti, spiega: “Ho avuto una brutta esperienza con un socio, che continua ad andare avanti non so in quale maniera, con espedienti, quindi l’ho dovuto cacciare dalla società, mi ha fatto perdere soldi”. Una questione di un prestito infruttifero da 600 mila euro, “mai restituito”.
“Buco” e cemento quanto vale l’area ex Ansaldo.
Eppure pochi giorni prima di discutere un bilancio con una perdita secca sull’utile di più di 340 mila euro, la Coseco diretta da Cosenza decide di fare un bonifico record alla Lega, piazzandosi tra i primi posti dei donatori della politica nazionale, allo stesso livello di holding molto note. Il motivo? “Un investimento, è stato un investimento”, spiega l’imprenditore. Meglio finanziare la politica che l’impresa, in fondo. Per capire la portata della cifra basta scorrere l’elenco dei donatori che, negli anni passati, hanno versato 100 mila euro ai partiti italiani: si va dai figli di Silvio Berlusconi a Ennio Doris, dalla Moby spa al gruppo Angelucci, passando per Fedele Confalonieri. Un parterre niente male per lo sconosciuto imprenditore napoletano. Pozzuoli, la città da dove sono partiti i soldi diretti ai conti nazionali della Lega, è un comune da quasi 90 mila abitanti della area metropolitana di Napoli. Sta nel cuore dell’area flegrea, che vuol dire il paradiso del mare e l’inferno della deindustrializzazione, con una pesante eredità economica e ambientale. Confina con Bagnoli, già polo della siderurgia italiana che ha lasciato un’area enorme da bonificare. A Pozzuoli la classe imprenditoriale, in buona parte composta da costruttori, ha un sogno nel cassetto. Si chiama Waterfront, un megaprogetto per il recupero dell’area ex Ansaldo, di fronte allo splendido mare del golfo, pensato dal più noto imprenditore della zona, Livio Cosenza, morto qualche anno fa.
Può essere una opportunità, ma potrebbe diventare un vero incubo, con una colata di cemento e appartamenti. Dipende, come sempre, dall’indirizzo delle amministrazioni pubbliche. L’area interessata dal progetto confina con la sede produttiva dalla Prysmian Power Link, multinazionale specializzata in cavi sottomarini, che ha ereditato lo stabilimento dalla Pirelli. Lo scorso anno un gruppo di associazioni, sindacati e partiti di Pozzuoli (tra questi articolo 1, il Movimento 5 stelle, Potere al popolo) ha presentato un appello per rivedere l’intero progetto, evitando la nascita fronte mare di nuovi insediamenti residenziali. Per Paolo Cosenza – legato da parentele e passate cariche sociali con il gruppo omonimo, proprietario dell’area destinata al Waterfront, oggi gestito dall’ex deputata del Pdl Giulia Cosenza, figlia di Livio – la politica vuol dire “investire nel futuro”. Non idealmente, ma in cash: “Perché ho finanziato la Lega? Confidavo e confido che possa fare qualcosa sul territorio – spiega al Fatto Quotidiano – c’erano una serie di cose e di programmi che mi interessavano. Ci tenevo, insomma, a farne parte”. Come si suol dire, era bene essere della partita. “Sono in un momento in cui sto investendo tantissimo, più che recependo e quindi spero in una serie di progetti per il territorio”, commenta.
Affari & famiglia. I progetti e “l’attenzione dei politici”
E ha ben chiaro quali siano i progetti interessanti, i dossier per i quali vale la pena spendere tanti soldi in momento di crisi per finanziare la politica: “Ce ne sono un paio, può essere il Waterfront, la zona artigianale, insomma, ci sono dei progetti che si spera ottengano l’attenzione dei politici. Speriamo, in Italia andiamo avanti a speranze”.
E per sperare si è rivolto al partito che cantava, fino a pochi anni fa, i cori contro i napoletani. Segno di una Lega, ormai nazionale, che sta penetrando prepotentemente nel meridione. Paolo Cosenza ci tiene a dire di non essere un militante leghista: “Io sono negato in politica, perché sono un utopista”, spiega. Quella donazione per una cifra pari a più del doppio del suo ultimo fatturato presentato in Camera di commercio sono tutti soldi suoi, assicura. “Se Salvini mi ha ringraziato? No, ma io non ci tengo, io guardo sempre sul locale, io ho una azienda che investe molto sul territorio”.
I rapporti, sostiene, li avrebbe avuti solo con i dirigenti locali del partito. Di nomi, però, non ne vuole fare: “No, meglio di no… poi ci vediamo da vicino, insomma… Ripeto, io conosco qualcuno qua a Pozzuoli, ma adesso per telefono, non mi sembra il caso”.
Il consigliere “avrà visto i vertici centrali”
Una versione, questa, che però viene nettamente smentita da Mario Cutolo, consigliere leghista a Pozzuoli e responsabile del partito per i comuni della provincia di Napoli: “Cosenza, che conosco bene, non ha rapporti con la Lega locale, la Lega locale sono io e quindi lo saprei. L’incontro sicuramente Paolo lo avrà fatto con i vertici centrali, io sono una realtà periferica, non lo ha fatto con me”.
Cutolo assicura di non conoscere “i termini della donazione” inviata dalla Coseco: “Sicuramente da grande imprenditore qual è sarà stata fatta ai più alti livelli. Ma io non conosco i termini e le condizioni della donazione. La famiglia Cosenza è impegnata nel favorire lo sviluppo, ma non conosco l’accordo con la Lega”, spiega al Fatto Quotidiano. Dagli uffici nazionali del partito di Matteo Salvini preferiscono non commentare, salvo il rituale “è tutto in ordine, è tutto regolare, sono soldi messi in bilancio”. E ci mancherebbe.
Paolo Cosenza alla fine decide di non andare oltre nel racconto, “Meglio se non ci vediamo, mi scusi”, spiega al telefono. Per poi aggiungere: “Forse tutti questi soldi investiti, bruciati… forse era meglio se me ne andavo a fare un viaggio per il mondo”. Per ora sogna il Waterfront di Pozzuoli dal box di un cantiere.

Come il Covid-19, si sta propagando il virus degli imbecilli. - Antonio Padellaro

imbecilli (con immagini) | Citazioni, Citazioni divertenti

Come il Covid, il virus degli ultraimbecilli ha un ceppo antico ma ha recentemente subìto, causa salto di specie, uno sviluppo impetuoso che si propaga globalmente per emulazione e non per starnuti (ma, soprattutto, il vaccino è sconosciuto). “Un cretino con dei lampi di imbecillità”, diceva Gabriele D’Annunzio di Filippo Tommaso Marinetti quando appunto l’imbecille era considerato con un certo spasso un tipo tutto sommato innocuo e non contagioso (se non addirittura un esempio particolare di genio). Oggi invece abbiamo i “Black lives matter” che in nome di un anti-razzismo imbecille abbattono la statua di Cristoforo Colombo (Richmond) e imbrattano l’effige di Winston Churchill (Londra) in quanto simboli di una cultura “colonialista”. Con i loro degni emuli che ottengono la cancellazione di Via col vento dalla piattaforma streaming: film ritenuto veicolo di “pregiudizi etnici e razziali, sbagliati”. Non ci dilungheremo sul significato del termine imbecille che tuttavia non va brandito come insulto ma adoperato come constatazione di comportamenti utilmente insensati. Anzi, “non appropriati”, per usare la definizione cara alla sinistra del politicamente corretto, protagonista a Milano di una pretesa quanto mai imbecille: cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli e rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Lo ha chiesto al sindaco Giuseppe Sala e al Consiglio comunale l’associazione “I Sentinelli”, che si definisce “antifascista” (e con l’adesione dell’Arci), riesumando un episodio raccontato più volte dallo stesso Montanelli quando nel 1935, a ventisei anni sottotenente in Abissinia si era sposato con una bambina eritrea di dodici anni secondo le usanze locali. L’assurdità delle richiesta sentinellesca non ha bisogno di ulteriori spiegazioni e precisazioni poiché l’avanzata ultraimbecille trova il terreno più propizio all’espansione quando riesce a far parlare di se, e a suscitare discussioni e polemiche imponendo temi irragionevoli e scriteriati. Sotto questo aspetto l’imbecillità risulta essere spesso una maschera grottesca dietro la quale si nascondono entità tutt’altro che stupide, desiderose di imporsi all’attenzione del pubblico e impegnate a macinare followers. Come nell’invasione dei baccelli extraterrestri del famoso film anni ‘50, l’odierna cultura ultraimbecille punta a sottomettere personaggi e istituzioni che nel timore di subire critiche e contestazioni (e dunque perdere elettori e clienti) si consegnano mani e piedi alla logica dell’idiozia. Come il sindaco di Boston, Marty Walsh che dopo l’affondamento del monumento al navigatore genovese invece di chiamare la polizia dichiara contrito: “Metteremo la statua di Colombo in magazzino mentre dibatteremo sul significato storico di questi incidenti”. O come la piattaforma “Hbo Max” che promette il ritorno in catalogo del capolavoro di Clark Gable e Vivien Leigh ma abbinato a una “discussione sul contesto storico”. La trattazione di sì vasto argomento ci consente solo un fuggevole accenno agli ultraimbecilli inconsapevoli, presenti soprattutto nel campo della destra. Come i terrapiattisti, i no vax e i pappalardi complottisti convinti che il coronavirus si diffonda attraverso la rete telefono-dati 5G. Una domanda infine: gli ultraimbecilli possono avere una qualche utilità? Risponde una citazione di Jean de La Bruyère: “Al mondo non ci sono che due modi per fare carriera: o grazie alla propria ingegnosità o grazie all’imbecillità altrui”. Esempio: l’autobiografia di Woody Allen A proposito di niente. Splendido libro rifiutato da eserciti di editori (Amazon in testa) perché terrorizzati dalle campagne terroristiche dell’imbecille collettivo, basate sulla menzogna del regista stupratore e molestatore delle figlie. E che pubblicato in Italia da “La nave di Teseo” risulta da settimane in testa alle classifiche dei più venduti.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/06/12/come-il-covid-19-si-sta-propagando-il-virus-degli-imbecilli/5832379/

2 Consip e 2 misure. - Marco Travaglio


Consip, l'inchiesta e i personaggi coinvolti - Cronaca - ANSA.it
Càpita a tutti di sbagliare. Specialmente quando il lavoro è tanto e il tempo è poco. Dunque non c’è nulla di strano se l’inchiesta della Procura di Perugia sul pm Luca Palamara, divenuta ben presto un’inchiesta sul Csm e sulle correnti togate, presenta errori nella trascrizione delle migliaia di intercettazioni. O, meglio: non ci sarebbe nulla di strano se quegli errori non fossero tutti unidirezionali, sempre a vantaggio degli utilizzatori finali dell’indagine. Cioè gli amici dell’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, interessato a garantirsi un successore in continuità con la sua discussa e discutibile gestione: prima dello scandalo, il procuratore di Palermo Franco Lo Voi; dopo, l’aggiunto prediletto Michele Prestipino. E soprattutto a spezzare la maggioranza del Csm che aveva già indicato in commissione un procuratore “discontinuo”: il Pg di Firenze Marcello Viola. L’operazione, grazie alla diffusione degli allegri conversari fra Palamara e i deputati renziani Lotti e Ferri (magistrato in aspettativa ed ex ras di MI), riuscì perfettamente: Mattarella chiese un nuovo voto in commissione con altri candidati e alla fine la spuntò Prestipino, cioè Pignatone. Ora che gli atti dell’inchiesta sono depositati (e le accuse di corruzione a Palamara sono evaporate), si scopre, con buona pace della leggenda del Santo Pignatone diffusa dai giornaloni, che quella non era una lotta fra buoni e cattivi: ma una guerra per bande per consumare vendette e prendere il potere nella Procura più importante d’Italia, che vale 2 ministeri.
Ma, come documenta il nostro Antonio Massari, si è scoperto ben altro: una serie di “errori”, tutti favorevoli a Pignatone e ai suoi cari. 
1) La sera del 21 maggio 2019 Palamara incontra l’allora Pg della Cassazione Riccardo Fuzio (poi dimessosi): il Gico della Gdf di Roma, che stranamente indaga per conto di Perugia pur essendo alle dipendenze dei pm romani (indagati compresi), trascrive solo “rumori”. Ma i difensori di Palamara scoprono che una parte del colloquio è abbastanza intelleggibile e chiedono di trascriverlo. Il Gico riempie il buco e attribuisce a Palamara la parola “carabinieroni”. Palamara nega di averla mai usata. Infatti, quando il nostro giornalista ascolta l’audio, sente “Pignatone”. E vabbè, dài, sarà un caso. 
2) Nello stesso colloquio, Massari sente “Mattarella” ed “Erbani” (consigliere giuridico del Quirinale). Nella trascrizione del Gico non compare nessuno dei due nomi, che invece Palamara ricorda di aver pronunciato perché alcuni consiglieri del Csm gli avevano detto di aver saputo da Erbani che qualcuno di loro aveva il trojan nel cellulare, tant’è che molti avevano smesso di parlare con lui. 
E vabbè, dài, sarà un caso. 
3) Il 9 maggio 2019 Palamara cena con Pignatone. Sarebbe interessante sapere cosa si dissero il procuratore che ambiva a scegliersi il successore e il potente membro del Csm che poteva orientare Unicost nell’una o nell’altra direzione 13 giorni prima del voto in commissione. Purtroppo, vedi la combinazione, l’aggeggio che intercetta tutto 24 ore su 24 rimane spento dalle ore 16, quando Palamara annuncia la cena a un’amica: qualcuno l’ha disattivato, o si è provvidenzialmente guastato. Ed è strano, perché durante la cena risulta una telefonata di Palamara intercettata, ma non depositata: quindi il trojan avrebbe potuto funzionare anche quella sera, ma captò solo conversazioni telefoniche e non ambientali. E qui le coincidenze diventano davvero troppe. Anche perché la Procura di Roma, per errori ben più veniali, indagò per falso in atto pubblico e fece espellere dall’Arma il capitano del Noe Gian Paolo Scafarto, che indagava su Consip per conto dei pm napoletani Woodcock e Carrano e poi di quelli capitolini; e, non contenta, tolse le indagini all’intero Noe per affidarle al Ros di Roma.
Che aveva fatto di tanto grave Scafarto, a parte beccare l’imprenditore Alfredo Romeo e il galoppino di Tiziano Renzi, Carlo Russo, mentre trattavano favori in Consip in cambio di 50 mila euro al mese per “T.” e 2,5 per “C.R.”? Nel rapporto investigativo, aveva invertito i nomi di Romeo e del suo consulente Italo Bocchino, attribuendo al primo anziché al secondo la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato”. Che, in bocca al primo, portava a babbo Tiziano e a Consip; in bocca al secondo, provava solo normali colloqui politici fra Matteo e l’ex braccio destro di Fini. Un errore neutro (le prove di almeno un incontro Romeo-Tiziano già c’erano) e involontario (nelle trascrizioni delle telefonate allegate al rapporto Scafarto, la frase era attribuita a Bocchino, dunque sia gli avvocati sia i magistrati avrebbero scoperto facilmente la svista). Eppure Scafarto, indagato e privato della divisa, fu sputtanato dall’Innominabile e dai giornaloni al seguito come carabiniere “deviato” e “falsificatore di prove”, per dimostrare che Consip era un “complotto” e un “colpo di Stato”. Poi il Riesame e la Cassazione reintegrarono Scafarto e il gup respinse la richiesta di rinvio a giudizio, prosciogliendolo con formula piena da quell’errore in buona fede. Ora la domanda è semplice: che farà la Procura di Roma coi finanzieri che scambiano “Pignatone” per “carabinieroni”, non sentono “Mattarella” ed “Erbani” e piazzano trojan intermittenti che si spengono quando Pignatone cena con Palamara? Si accettano scommesse.

giovedì 11 giugno 2020

Ecce bombo. - Massimo Erbetti

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Ma ve lo ricordate il film di Nanni Moretti?:
"No, veramente non mi va, ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è, non è che alle dieci state tutti a ballare in girotondo, io sto buttato in un angolo, no...ah no: se si balla non vengo. No, no...allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: "Michele vieni in là con noi dai..." e io: "andate, andate, vi raggiungo dopo...". Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no. Ciao, arrivederci Nicola.
Dopo le dichiarazioni di Salvini, mi è venuto in mente Moretti "... Mi si nota di più se vengo o non vengo?...".


Ma cerchiamo di capire come sono andate le cose riguardo agli Stati Generali organizzati da Conte, all'inizio il deputato della Lega Claudio Durigon, aveva detto di non apprezzare l’iniziativa, ma aveva assicurato la partecipazione della Lega. Anche Salvini non aveva chiuso, poi l'inversione di tendenza, si vede che in quel momento gli è venuto in mente il film di Nanni Moretti. “Da Conte ho ricevuto un messaggino. Diceva: ‘Venite a esporre le vostre idee'"... “Cerchiamo di capire com’è, dov’è, di cosa si parla, con chi… E’ bizzarro: gli italiani pagano il Parlamento non le ville. Rispondo per educazione: ti faremo sapere chi viene quando ci spiegherete cos’è”...“Gli italiani non hanno bisogno di altri show e passerelle, c’è bisogno subito della cassa integrazione per milioni di lavoratori, soldi veri per imprenditori e famiglie, scuole aperte e sicure” ha detto Matteo salvini, che poi ha ribadito: “Il luogo del confronto e della discussione è il Parlamento, non sono le ville o le sfilate. 60 milioni di persone non possono dipendere dall’umore di Rocco Casalino“.
A parte il fatto che Villa Pamphili è una sede istituzionale di alta rappresentanza della Presidenza del Consiglio e se vuoi far partecipare personalità ed esperti di alto livello internazionale, non lo fai in Parlamento, ma tralasciando questo, quello che più mi stupisce delle dichiarazioni di Salvini è la parte in cui parla di "show e passerelle" che detto da uno che sta in TV 24 ore al giorno, che suona campanelli, che bacia salami e che senza alcuna vergogna, specula anche sulla morte dei martiri delle forze dell'ordine, farebbe anche sorridere, se non ci fosse veramente da piangere.
Comunque la Mossa del centro destra è chiarissima, non partecipa agli stati generali, primo, perché non ha idea di cosa fare e secondo, perché politicamente è molto più remunerativo attaccare le scelte degli altri senza portare soluzioni, che partecipare... "mi si nota di più se vengo o non vengo?..." a voi la risposta.


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Uscito da Palazzo Chigi Giuseppe Conte concede alcune domande ai giornalisti.

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Processi somari. - Marco Travaglio

Magistratura democratica - Tag: Riccardo De Vito
Avete presente il cosiddetto caso Bonafede-Dap-scarcerazioni? E due mesi di “Non è l’Arena, è Salvini” sul ministro, su Basentini e sui loro parenti vivi o morti fino al sesto grado? E i processi al Guardasigilli&C. nel question time, nella mozione di sfiducia e in inutili audizioni in quella parodia di commissione Antimafia ridotta a succursale di casa Giletti (ma senza Salvini, latitante da due anni per non rispondere sui rapporti con Siri e Arata, socio occulto di Nicastri amico di Messina Denaro)? Bene, buttate pure tutto nel cestino. Erano tutte balle, fuffa, armi di distrazione di massa per colpire il ministro che ha bloccato la prescrizione e affibbiargli la colpa delle scarcerazioni di 350 mafiosi e malavitosi (50 già tornati dentro), che ovviamente sono responsabilità esclusiva dei giudici di sorveglianza che le hanno firmate. Basta leggere l’ordinanza di quello di Sassari che ha riesaminato, alla luce del decreto anti-scarcerazioni, gli arresti domiciliari da lui stesso concessi a Pasquale Zagaria il 23 aprile in piena pandemia. E li ha confermati, sollevando questione di legittimità costituzionale contro il decreto. È Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, che ha un’idea del carcere opposta alla nostra. Ma ha il merito di rivendicare le sue decisioni e convinzioni senza incolpare gli altri né inventare scuse. Viva la faccia.
Da tre mesi chi vuole liberarsi di Bonafede starnazza che le scarcerazioni sono colpa sua, dell’ex capo del Dap Basentini e di una circolare del 21 marzo che avrebbe dato la stura al “liberi tutti”. Circolare che non parla mai di scarcerazioni: si limita a chiedere i nomi dei detenuti affetti da patologie che li espongano a conseguenze letali in caso di contagio per metterli in sicurezza (con isolamenti, esami, precauzioni varie: non certo per scarcerarli, visto che si rischia il Covid molto più fuori che dentro). Dunque le scarcerazioni con la circolare non c’entrano nulla, anche se molti giudici se ne sono fatti scudo per dare sfogo ai loro uzzoli decarceratorii. Non è il caso di De Vito che, già nell’ordinanza che mandava a casa (a Brescia, epicentro del Covid) il camorrista Zagaria, chiariva di averlo fatto in base al Codice penale e all’Ordinamento penitenziario. Certo, aveva chiesto al Dap di indicare un centro di cura penitenziario e il Dap, con un’imperdonabile gestione burocratica (giustamente pagata da Basentini con le dimissioni), non aveva risposto in tempo. Ma il giudice chiariva che Zagaria l’avrebbe scarcerato lo stesso, perché riteneva le sue condizioni di salute (neoplasia vescicale, da poco operata con postumi gravi) incompatibili con cure in qualunque struttura penitenziaria.
E ora lo ripete con ancor maggiore nettezza nell’ordinanza che conferma i domiciliari. Zagaria deve restare a casa nel Bresciano e curarsi nell’ospedale del posto: non per le mancate risposte del Dap, che nel frattempo ha indicato strutture alternative (nell’ospedale Belcolle di Viterbo) a quelle che prima erano inutilizzabili in Sardegna (occupate da casi di Covid e ora di nuovo disponibili); ma perché non il Dap, non Basentini, non la circolare, non Bonafede, ma il giudice, nella sua insindacabile “discrezionalità”, ha deciso che la “patologia grave non è fronteggiabile con strumenti diagnostici-terapeutici in ambiente carcerario”; e perché la “Corte d’appello di Napoli in data 22.1.2015” ha definito Zagaria “non più pericoloso”. E l’ha mandato a casa in base al “bilanciamento discrezionale tra diritto alla salute e sicurezza sociale”, visto che il detenuto non può ricevere “adeguate cure mediche in ambito carcerario”. Punto. Chiunque sia il ministro o il capo del Dap, con o senza il decreto, il giudice di Sassari non cambia idea. Solo alla “scadenza del termine individuato” (5 mesi) da lui, e non di quello indicato nel decreto (“immediatamente”), opererà la “rivalutazione della persistenza delle ragioni del differimento e della detenzione domiciliare” in base “all’evoluzione della patologia”. Né quando adottò il provvedimento, né ora il giudice si lascia influenzare dalla “comunicazione del Dap in ordine alla disponibilità delle strutture protette”, dai pareri della Dna e delle Dda “favorevoli al ripristino della detenzione”. Né dal nuovo decreto, che ritiene incostituzionale perché “sconfina nella sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria”, cioè a lui.
Cosa sarebbe accaduto se il Dap gli avesse risposto per tempo, prima del 23 aprile? “L’idoneità dei reparti di medicina protetta tempestivamente comunicati dal Dap avrebbe dovuto essere valutata da questo tribunale con riferimento all’intervento diagnostico che lo Stato non era riuscito ad assicurare” con l’intervento chirurgico. Ma non sarebbe bastata neppure allora a evitare la scarcerazione: infatti neanche ora è “possibile valutare l’idoneità delle strutture indicate a evitare il pregiudizio per la salute del detenuto”. Ciò sarà possibile solo in caso di “guarigione e idoneità delle cure”. Cioè non ora, neppure in presenza di strutture penitenziarie: “una rivalutazione improvvisa… prevalentemente indirizzata al ripristino della detenzione, comporta una violazione del diritto alla salute”. Chissà se i mitomani in Parlamento, in Antimafia, nei giornali e nei tele-pollai leggeranno l’ordinanza e la pianteranno. Ma c’è da dubitarne: non c’è peggior mitomane di chi non vuol capire.

Saltato il dg Luigi Cajazzo, ora Gallera è accerchiato. - Gianni Barbacetto

Saltato il dg Luigi Cajazzo, ora Gallera è accerchiato

Le dimissioni dell’assessore Giulio Gallera aleggiano da giorni sul Pirellone. Sono il sale e il fiele del dibattito politico in Regione Lombardia. Tutti ne parlano, nessuno vuole e può farle scattare. Alla Lega non dispiacerebbero, ma sarebbero il segnale contrario del “rifaremmo tutto, non abbiamo sbagliato niente” che tutti ripetono, ai piani alti di Palazzo Lombardia.
Così la zarina della Regione, Giulia Martinelli, capo segreteria del presidente Attilio Fontana (nonché ex moglie di Matteo Salvini), da sempre in conflitto con Gallera, ha trovato la soluzione: ci teniamo l’assessore, via il direttore generale. Per ora: poi si vedrà. Così è saltato Luigi Cajazzo, il capo dei tecnici della sanità lombarda, che fino a ieri declamava: “Noi abbiamo svolto un lavoro tecnico che difendo e di cui sono assolutamente orgoglioso”.
Saltato. Saltato verso l’alto, però, promosso a un posto formalmente più prestigioso (e meglio pagato): vicesegretario generale della Regione, e per di più “con delega all’integrazione sociosanitaria”, cioè con l’incarico di preparare la riforma del sistema sanità che ha fatto della regione più ricca d’Europa anche quella con più morti e contagiati dal virus. Sì, saltato verso l’alto: anche perché farlo saltare verso il basso non sarebbe stata una buona idea per i vertici politici regionali, visto che Cajazzo dovrà passare le prossime settimane a girare le Procure della Lombardia, per rispondere alle tante domande dei pm sulla gestione dell’emergenza Covid. Per Fontana e Gallera è meglio avere un Cajazzo promosso, piuttosto che rimosso. Ed è meglio averlo non troppo arrabbiato con i politici che hanno scaricato su di lui, tecnico, i cortocircuiti del coronavirus. È stato il fusibile che è saltato.
Sostituito con un altro tecnico che è un grande ritorno al passato. Cajazzo era un poliziotto, non un manager sanitario. Più bravo a inviare email paracadute in vista di future contestazioni, che non a dirigere concretamente la sanità. Che in parte è stata gestita dai politici, Fontana, Gallera e anche Davide Caparini, il leghista assessore al Bilancio che tiene i cordoni della borsa e fa fronte d’acciaio con la zarina Martinelli. In parte è andata per conto suo, gestita dal vento feroce che soffiava a febbraio su Alzano Lombardo, su Nembro, sulle residenze per anziani, sull’ospedale in Fiera da costruire, sui test sierologici da cercare, sulle mascherine da distribuire, sui camici da reperire.
Il nuovo direttore generale invece è un vecchio volpone della sanità. Marco Trivelli ha fatto il manager all’ospedale Niguarda di Milano, al Sacco, agli Spedali civili di Brescia. Cinquantasei anni, bocconiano, viene dal mondo di Comunione e liberazione, era tra gli uomini-sanità di Roberto Formigoni, ai tempi del suo celeste impero. Se oggi arriva a Palazzo Lombardia con la missione di far dimenticare la gestione dell’emergenza più disastrosa d’Europa è segno che, da una parte, la sua competenza manageriale è sopravvissuta al naufragio del Celeste; dall’altra, che né la Lega di Martinelli-Caparini, né la Forza Italia “laica” di Gallera e soci hanno uomini da mettere nei posti più delicati. C’è già profumo di Cl ai vertici di aziende regionali importanti come Aler e Trenord, ora anche in quello della sanità. Le opposizioni intanto scalpitano. Il Pd, con Pietro Bussolati, apprezza che almeno una testa sia saltata, seppur come “capro espiatorio tecnico di responsabilità che sono politiche”. I Cinquestelle sottolineano il ritorno al passato: “Si scrive Trivelli si legge Formigoni”, dice Gregorio Mammì, consigliere regionale M5s. “La sanità lombarda va riformata cancellando la riforma di Roberto Maroni, togliendo le mani dei partiti dalle nomine, garantendo più risorse alla sanità pubblica e al sistema territoriale”.