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Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
Egregia Onorevole Giorgia Meloni, le scrivo perché lei evita, chirurgicamente, le testate che potrebbero farle delle domande, non dico scomode, ma semplicemente delle domande. Va sempre a pontificare e a "starnazzare" nelle televisioni di comodo (tutte, ormai) e rilascia interviste in cui si fa domande e risposte (parafrasando Marzullo) nei vari giornali compiacenti (anche questi "quasi" tutti ormai). Vede, cara Senatrice, la gente non è tutta come gli ascoltatori di Mediaset o La7 oppure come i lettori di Libero, Il Giornale, La verità e (udite, udite) La repubblica, La stampa, Il tempo, Panorama e tanti altri ancora, che ascolta in silenzio i monologhi, tra i tappeti rossi e sorrisetti compiacenti dei suoi interlocutori, e abbassa la testa in segno di approvazione. C'è gente che pensa, che si fa delle domande, gente che avrebbe voglia di fare a lei delle domande, ma come si fa se lei continua ad andare in queste trasmissioni farsa, che fanno campagna elettorale per il padrone 365 giorni all'anno e non le chiedono mai niente? Vede c'è purtroppo gente che ancora oggi crede che se una cosa la dice la televisione è vera. "L'ha detto la televisione......" quante volte si sente dire. Ricorda il programma di Arbore "Indietro tutta"? Parlava proprio di questo, di quanto la televisione possa influenzare le menti umane. Puoi dire quello che vuoi e molti continueranno a dire "l'ha detto la televisione". Ma, come dicevo prima, non tutte le persone, per fortuna, sono cosi. Non tutte le persone si lasciano influenzare da trasmissioni degne della migliore propaganda di regime (perché di questo si tratta), non tutte le persone annuiscono alle continue menzogne che va dicendo da questi giornalai senza dignità, da questi giornalai che offendono la categoria. Di esempi ne potrei citare a migliaia ma mi basta citarne uno. Lei, signora Meloni, è stata da quel "servo" di Mediaset, tale Signor (si fa per dire) Giordano che le ha chiesto del recovery fund, se il merito era di Conte e lei ha detto che il merito era vostro ..... se lo ricorda? Merito vostro? Non si è vergognata neanche un po' a dire queste parole? Il suo partito e la Lega del suo compagno di merenda si sono astenuti, quando si è votato questo provvedimento in Europa. Ma Figuriamoci se, il servo Giordano, glielo contestava, se glielo faveva notare. Non sia mai. Qualsiasi giornalista che si possa definire tale, lo avrebbe fatto, lui no. Ma certo, è andata lì apposta, per dirlo. Per non avere contraddittorio. E purtroppo (per la verità) è quello che, alla gente poco attenta, è arrivato. Lo leggo nei commenti sui social. Il recovery fund merito di Meloni e Salvini. Ma questo lei lo sa perfettamente. Sa come si chiama questo? Mistificazione.
La Procura di Catania ha nuovamente richiesto, come aveva fatto nella prima fase del procedimento, l'archiviazione di Matteo Salvini dall'accusa di sequestro di persona per la gestione dello sbarco di 131 migranti dalla nave Gregoretti. In aula, per l'accusa, è presente il sostituto procuratore Andreas Bonomo. L'udienza davanti al gup Nunzio Sarpietro sta proseguendo con l'intervento dell'avvocato Giulia Bongiorno per la difesa.
"Grazie davvero a Giorgia Meloni e ad Antonio Tajani che questa mattina a Catania, prima dell'udienza in tribunale, mi hanno portato la loro solidarietà e il sostegno delle comunità politiche che rappresentano". L'ha scritto il leader della Lega Matteo Salvini in un tweet mostrando anche la foto dei tre insieme, stamattina per un caffè sul lungomare di Catania.
È cominciata a Catania la manifestazione anti Salvini organizzata dal coordinamento mai con Salvini Sicilia. In piazza Trento ci sono circa 500 persone non lontano da piazza Verga, dove c'è il tribunale in cui si sta svolgendo l'udienza preliminare per il caso Gregoretti. Ad aprire il corteo è un furgone con uno striscione con la scritta abbiamo già la sentenza: Salvini m....! A fianco alcuni ragazzi spingono due carrelli del supermercato pieni di rotoli di carta igienica con la faccia del leader della lega. Ad aprire il corteo uno striscione con la scritta mai con Salvini, la giùstizia non la fa un tribunale.
Caffè a 3 fra i big del centrodestra prima dell'udienza preliminare prevista nel tribunale di Catania nei confronti di Matteo Salvini per il caso dei migranti della nave Gregoretti. Il leghista, il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani e la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni si sono incontrati per una breve colazione in un hotel sul lungomare della città siciliana.
Precedentemente un incontro fra i tre era stato previsto in piazza Duomo, poi rinviato per motivi di sicurezza. Obiettivo, esprimere il sostegno degli alleati del centrodestra al segretario della Lega.
La Lega si stringe attorno al suo "capitano" a poche ore dall'udienza preliminare sul caso Gregoretti, ma la cosiddetta Pontida catanese non riesce. Il piazzale del porto, dove è stato allestito il palco con la gigantografia 'Processate anche me!', non si riempie. Ufficialmente è l'emergenza Covid a imporre numeri ristretti per evitare le folle tipiche del partito. Di fatto ad ascoltare il loro leader, intervistato sul palco da Maria Giovanna Maglie, ci sono parlamentari, amministratori, attivisti. Sventolano bandiere azzurre con la scritta 'Processate anche me!' e il tricolore. Di certo domani Salvini si gioca tanto: l'ex ministro dell'Interno rischia fino a un massimo di 15 anni per sequestro di persona nei confronti dei 131 migranti che rimasero quatto giorni sulla nave militare italiana Gregoretti, prima di poter sbarcare il 31 luglio 2019. Ma rispetto all'ipotesi di chiedere il giudizio abbreviato, nega categoricamente e anzi, a margine del palco, sentenzia: "Non ci sarà proprio un processo". Durante l'intervista ripete ostinatamente il mantra della tranquillità: "Stanotte dormirò sereno, c'è qui la mia compagna. Il rosario ce l'ho in tasca, ma lo tengo per me".
Ammette che "questo 3 ottobre me lo ricorderò comunque vada", ma insiste: "Sarei preoccupato se avessi la coscienza sporca, ma ho fatto solo il mio dovere". Ma la posta in gioco è alta e infatti rimane ancora avvolta nel mistero la linea che Salvini terrà domani nell'udienza di Catania, città peraltro che si presenterà blindata. "Non parlerò' davanti al Gup. Io sono tranquillo e penso di avere fatto il mio dovere, ho totale fiducia nella giustizia italiana", afferma poco prima di salire sul palco. Parole che necessitano però di una precisazione serale attraverso il suo staff: "solo domani Matteo Salvini deciderà se e quando parlare davanti al giudice e maturerà le proprie decisioni riguardo l'udienza preliminare", puntualizzano fonti della Lega. Nello stesso giorno in cui Lampedusa ricorderà le 368 persone affondate nel Mediterraneo nel più tragico naufragio del 2013, a Catania il giudice per le indagini preliminari dovrà decidere se prosciogliere o rinviare a giudizio l'ex vicepremier per un'accusa che la procura catanese ha chiesto di archiviare ma che il tribunale dei ministri ha sostenuto. Fino al sigillo finale messo dal Senato il 12 febbraio scorso, chiedendo che il 'capitano' della Lega andasse a processo. Gli viene contestata la gestione degli sbarchi dalla Gregoretti a una ventina di giorni dai "pieni poteri" chiesti agli italiani come uno tsunami, la sera del 9 agosto. Salvini sottolinea anche che la sua vicenda potrebbe essere un brutto precedente: "Non so se è la prima volta che in Europa che un ex ministro è processo non per reati economici, ma per un'azione di governo". Invoca quindi "una riflessione su qual è il confine tra l'azione di governo e quella della magistratura. Domani potrebbe andare a processo il ministro della Scuola, dei Trasporti o del Lavoro", osserva. Di certo non dimentica il 'tradimento' degli ex alleati 5 Stelle che un anno prima, per il caso simile dei migranti a bordo della nave Diciotti, lo 'salvarono' in Senato negando l'autorizzazione a procedere. "Gli altri cambiano idea nel nome della poltrona? Peggio per loro", taglia corto. Differenze soprattutto con il resto del centrodestra che ha espresso apertamente il sostegno a Salvini. In effetti la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni e il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani vengono a Catania ma non in piazza. Entrambi saranno vicini a Matteo ma nessun intervento dal palco al porto, dove dalle 10 è prevista una maratona oratoria prima e dopo l'udienza clou. "E' un nostro solido alleato - ribadisce Meloni da Agrigento - Ma ci siamo anche e soprattutto per difendere un principio sacrosanto: un ministro che fa quello che la maggioranza degli italiani gli ha chiesto di fare, non può essere processato per questo". Il leghista non fa alcun accenno agli alleati e denuncia invece la contromanifestazione organizzata domani, a poca distanza dal tribunale, da centri sociali e a cui ha aderito il Pd. Quindi rivolgendosi ai giornalisti ricorda: "Domani la Lega non ha organizzato nessuna manifestazione davanti al tribunale, mai mi sarei permesso di andare a occupare il libero e legittimo lavoro della magistratura e mi spiace che lì ci sia un partito che di democratico ha solo il nome e va in piazza augurando galere".
La schiacciante prevalenza del Sì al Referendum costituzionale del 20 e 21 settembre ha confermato la piena consonanza dei cittadini con il Parlamento. Il Sì non è un rifiuto del Parlamento come i media tradizionali hanno provato a sostenere, senza successo. I cittadini hanno votato Sì per migliorare il funzionamento della rappresentanza e quindi le dinamiche del Parlamento. Il risultato è ancora più significativo, al di là dei numeri, perché il contrapposto fronte (del No) ha raccolto il sostegno incessante delle élite burocratiche e finanziarie, della stampa che di fatto le rappresenta, di buona parte dei giornalisti Tv e di tutti quei gruppi e clan di potere che vogliono conservare il proprio spazio di privilegi sottraendo la Libertà di iniziativa dei cittadini. Inoltre, i dati delle zone Vip delle principali città del nord e del centro (le Ztl) mostrano che l’alta borghesia ha smarrito ogni connotazione einaudiana ed è succube di una mentalità conservatrice ostile a un qualunque mutamento che possa toccare i privilegi accumulati con le relazioni intessute fino al momento.
È ora necessario che il Parlamento si mantenga reattivo nell’affrontare il nuovo quadro istituzionale, avviando il varo di riforme necessarie per migliorare ulteriormente il funzionamento delle istituzioni il cui fine ultimo è la rappresentanza degli interessi dei cittadini; e che lo stesso faccia il governo. Ciò è ancor più urgente e indispensabile, visto, oltretutto, che molti dei media proseguono imperterriti a demonizzare la logica del Sì. Nell’immediato il primo impegno è del governo, che dovrà attuare la delega che già ha, per adeguare la legge elettorale al taglio di deputati e senatori, ormai in Costituzione. Come noto, si tratta di una procedura abbastanza automatica e di poche settimane, su cui le Camere saranno consultate e in cui il governo dovrà assicurare che non trovino spazio manine burocratiche fantasiose. Subito dopo si presentano questioni più controverse, a cominciare dall’attesa di una nuova legge elettorale, di ulteriori riforme costituzionali e di nuovi regolamenti parlamentari. Spetta ai gruppi politici raggiungere in ciascuno di tali settori gli accordi che consentano una convergenza almeno minima. Peraltro, ci sentiamo di suggerire alcune soluzioni ragionevoli nella linea del procedere.
1) Il sistema elettorale dovrà garantire che, una volta presentati dai partiti programmi e liste di candidati, i cittadini possano scegliere le indicazioni politico progettuali e i nomi dei candidati. Questo principio implica l’esclusione delle pluricandidature in più aree territoriali e che, in tutti i casi in cui il sistema non sia quello dei collegi uninominali per ciascuno degli eligendi, le liste non saranno bloccate e ci saranno le preferenze.
2) Le soglie non sono uno strumento anti rappresentativo e possono sussistere, ma sono del tutto superflue al Senato ove sono ampiamente sostituite dal numero ristretto da eleggere in ogni circoscrizione senatoriale, cosa che porterà a una soglia comunque più elevata.
3) Siccome il presidente della Repubblica, in quanto rappresentante dell’unità della Nazione nelle sue articolazioni, dovrebbe essere eletto da un’assemblea significativamente più ampia dei membri delle Camere, il numero dei delegati regionali a tal fine non dovrebbe essere comunque ridotto, semmai aumentato.
4) La procedura di sfiducia del Governo dovrebbe essere trasformata in una procedura improntata al meccanismo di sfiducia costruttiva, in modo da dare al voto delle Camere una valenza costruttiva.
5) Sarebbe utile introdurre in Costituzione regole per implementare forme: a) di partecipazione del cittadino al fare leggi nel rispetto della centralità del Parlamento; b) per il suo coinvolgimento nelle decisioni da assumere in settori definiti dalle norme; c) di revoca di un eletto da parte del suo collegio.
6) Al fine di rimediare i guasti provocati dal bicameralismo paritario nei tempi della legislazione e nelle decisioni, rivedere le funzioni attribuite al Senato.
7) Nel quadro del collegare sempre più le istituzioni alla realtà, dare il diritto di voto a chi ha compiuto 16 anni.
8) Per porre un freno al cambio di casacca nel corso di una legislatura, i Regolamenti delle due Camere dovrebbero sancire che nei rispettivi Gruppi Misti non sono possibili sotto componenti se non all’atto della prima iscrizione successiva all’elezione del Parlamentare.
Un ultimo punto visto che seppure secondario è stato introdotto nel dibattito corrente.
9) Avviare una discussione seria e quindi argomentata sperimentalmente sui fatti circa gli stipendi e le risorse a disposizione dei parlamentari, che potrebbe essere allargata più in generale ai costi della politica.
Oggi inizia dinanzi al gup di Catania l’udienza preliminare del processo a Matteo Salvini per il presunto sequestro di persona di 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo il 25 luglio 2019 e bloccati per sei giorni, fino al 31, al largo delle coste italiane sulla nave Gregoretti della Marina militare. Il leader imputato ha convocato a Catania i suoi parlamentari e alleati per fare il martire e buttarla in caciara. E, a leggere o ascoltare certi opinionisti, ci è riuscito: nessuno ha capito perché lo processano. Nemmeno lui. Infatti l’altro giorno ha twittato, restando serio: “La memoria difensiva per il mio processo come ‘sequestratore di persona’ che ho consegnato alla D’Urso è scaricabile qui…”. Figurarsi la gioia dei giudici nell’apprendere che la memoria non è stata depositata in cancelleria, ma a Non è la D’Urso. Il testo, poi, pare scritto da un buontempone che vuol vederlo all’ergastolo. Vi si legge che i migranti sulla nave godevano ottima salute (come se i sequestri di persona fossero leciti purché l’ostaggio sia in gran forma e venga trattato bene). E che non vi fu “alcuna illecita privazione della libertà”, ma una semplice “attesa per organizzare il trasferimento presso la destinazione finale” (cosa che si può sostenere per le imbarcazioni delle Ong straniere, il cui diritto di sbarco sempre e solo in Italia è opinabile, ma non per una nave militare italiana). Ma il capolavoro assoluto è l’insistenza sul “pieno coinvolgimento del governo”. Che in quei giorni non tenne alcun Consiglio dei ministri sulla questione, anche perché il Cazzaro dirigeva il traffico dal Papeete e non parlava più con Conte né con Di Maio (mancavano pochi giorni alla crisi).
La responsabilità penale è personale e la Costituzione parla chiaro: “I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Eppure persino Paolo Mieli scrive sul Corriere che Conte “è stato assai fortunato” a non finire imputato con Salvini. Dimentica che, per il blocco di una nave (la Diciotti, un anno prima) deciso da tutto il governo, Conte, Di Maio e Toninelli si autodenunciarono per essere processati con l’allora ministro dell’Interno. E furono indagati anch’essi per sequestro di persona dalla Procura di Catania. Ma poi il Tribunale dei ministri li archiviò, perché ciascun ministro è responsabile dei propri atti e quel blocco l’aveva firmato Salvini. Noi restiamo convinti che il reato di sequestro di persona non si attagli ai blocchi Salvini delle navi Diciotti, Gregoretti, Open Arms, Sea Watch ecc: che restarono, sì, forzatamente al largo delle coste italiane, ma pur sempre libere di muoversi in cerca di altri porti sicuri.
Ma, se continua a difendersi così, il Cazzaro si scava la fossa. Il Senato, autorizzando il processo, ha già escluso le due condizioni di improcedibilità: l’“interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” e il “preminente interesse pubblico”. E l’archiviazione di Conte, Di Maio e Toninelli sul caso Diciotti ha già escluso che per ogni atto illecito di un ministro debba finire alla sbarra tutto il governo. Anziché provare a far processare pure Conte&C., Salvini dovrebbe tentare di far assolvere se stesso. E il modo peggiore per riuscirci è quello di raccontare balle ai giudici. Anche perché sono le stesse balle che aveva già rifilato al Senato. Con esiti miserevoli. Preannunciava fantomatiche “carte” che provavano il coinvolgimento del premier, di Bonafede e di Di Maio. Poi si scoprì che Conte non aveva scritto né detto una sillaba sul blocco della nave: si era semplicemente attivato con altri Paesi Ue e col Vaticano per ricollocare i migranti. Bonafede aveva commentato lo sbarco già avvenuto, non il precedente divieto di Salvini. E Di Maio, dopo aver ripetuto che dei migranti doveva farsi carico l’Ue, aveva addirittura criticato il trattamento riservato da Salvini alla Guardia Costiera (“Non si tràttino i nostri militari su quella nave come pirati. Pieno rispetto per le forze dell’ordine”). Idem per i paragoni fra caso Gregoretti e caso Diciotti (per cui fu assurdamente negata, coi voti del M5S, l’autorizzazione a procedere): tutte balle.
Salvini, al processo Gregoretti, risponde di sequestro per aver rifiutato per 6 giorni di indicare alla Guardia costiera un porto sicuro (Pos): e quell’indicazione spettava all’Italia (i migranti erano stati “salvati” in un’operazione tutta italiana), mentre per la Diciotti toccava a Malta (che aveva coordinato il salvataggio prima che la nave italiana rilevasse i naufraghi). Non solo: la Diciotti è una nave adibita ai soccorsi in mare, dunque può ospitare decine di persone sotto coperta, mentre la Gregoretti è destinata alla vigilanza sulla pesca e non garantisce un’adeguata sistemazione (infatti i migranti restarono una settimana sul ponte, sotto la canicola). Dalla Diciotti, poi, furono subito fatti sbarcare dal governo donne e bambini; dalla Gregoretti la gran parte dei minori poterono scendere solo per ordine della Procura minorile. Infine: il blocco della Diciotti (agosto 2018) fu deciso perché prima Malta sul Pos e poi la Ue sui ricollocamenti facevano i pesci in barile; quello della Gregoretti (luglio 2019) fu deciso quando il meccanismo dei ricollocamenti Ue era già collaudato. Chi vuol bene a Salvini dovrebbe avvertirlo che contar balle è la peggiore strategia difensiva. In Parlamento chi mente passa per furbo. In Tribunale passa per colpevole.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/03/cazzaretti/5952671/
Roma - Il deputato di FI indagato: “Promise 250mila euro all’assessore alla Sanità del Lazio”. Respinti i domiciliari per una presunta evasione.
La tegola giudiziaria che cade sulla testa del deputato di Forza Italia, Antonio Angelucci, porta la firma di Alessio D’Amato. È l’assessore alla Sanità della Regione Lazio che ha denunciato una presunta offerta da parte dell’editore dei quotidiani Libero e Il Tempo, di una mazzetta (rifiutata) da 250mila euro. Così Angelucci ora rischia il processo per istigazione alla corruzione e per un episodio di corruzione. Accuse che il deputato respinge, dichiarando la propria totale estraneità ai fatti contestati. L’indagine intanto è stata chiusa, atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio.
Ma a Roma il deputato ha anche un’altra grana da risolvere: nei suoi confronti c’è stata, nei giorni addietro, anche una richiesta di rinvio a giudizio per un’ulteriore vicenda, quella che lo vede indagato di associazione per delinquere finalizzata alla omessa dichiarazione. È questa un’altra vicenda per la quale, come ricostruito dal Fatto, più di un anno fa la Procura aveva addirittura chiesto gli arresti domiciliari per Angelucci, rigettati dal gip dopo molti mesi. Ma procediamo con ordine.
Partiamo dunque dall’accusa di istigazione alla corruzione. La vicenda rientra nell’ambito di un “tavolo di conciliazione” avviato dell’allora prefetto di Roma alla luce di una “crisi occupazionale minacciata dal Gruppo San Raffaele, che non vedeva riconosciute le proprie pretese economiche”. Secondo i pm, il deputato “in quanto esponente della famiglia Angelucci, proprietaria di numerose strutture sanitarie accreditate con la Regione Lazio facenti capo al ‘Gruppo San Raffaele’”, nel 2017 durante un incontro in Regione, ha promesso a D’Amato il pagamento di 250mila euro, di cui 50mila “consegnati subito” qualora il dirigente avesse avallato la sua richiesta. Ossia quella di sbloccare il pagamento di pretesi crediti del San Raffaele di Velletri al quale la Regione aveva revocato l’accredito “a causa di gravi irregolarità”, “cui era conseguito – riporta il capo di imputazione – un procedimento penale, allora pendente”. Una richiesta che D’Amato riteneva “infondata e irricevibile”. Ed è proprio l’assessore che denuncia la presunta tangente promessa: “Sono convinto – spiega D’Amato – che quando un pubblico ufficiale viene a conoscenza di una notizia di reato, peraltro di tale gravità, debba sempre rivolgersi alle autorità”.
In questo caso la corruzione quindi non si concretizza. A differenza, secondo i pm, di un altro episodio contestato ad Angelucci. Stavolta sotto accusa ci è finito pure Salvatore Ladaga, indagato per corruzione per l’esercizio della funzione. Si tratta del coordinatore di Forza Italia a Velletri, suocero, tra l’altro, di Gabriele Bianchi (dal quale ha preso le distanze), il giovane accusato assieme ad altri tre dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Per i pm, Ladaga, allora consigliere comunale di Velletri, in attesa di riconferma alle elezioni del 2018, avrebbe agito per “favorire le iniziative imprenditoriali di Angelucci e in particolare la riapertura della casa di cura San Raffaele Velletri”.
A Roma però Angelucci risulta indagato anche per un’altra vicenda, per la quale la Procura più di un anno fa ha chiesto i domiciliari, rigettati dal gip Maria Paola Tomaselli. In questo caso i pm prospettano l’esistenza di “una associazione per delinquere transazionale promossa e capeggiata da Antonio Angelucci finalizzata a commettere reati (…) in relazione alla omessa dichiarazione in Italia dei redditi delle società denominate Spa di Lantigos Sca e T.h.S.A”. Si tratta di società di diritto lussemburghese che, secondo i magistrati, avrebbero “il carattere di capogruppo della holding Angelucci” e che non dispongono di “un’autonoma organizzazione ” e che “consentirebbero di occultare il patrimonio di Angelucci operando all’occorrenza, – come ricostruisce il gip – tramite un complesso meccanismo, il finanziamento delle società del gruppo secondo le decisioni assunte dall’indagato”.
Il deputato non risulta avere ruoli in nessuna società né in Italia né all’estero. In ogni modo, secondo i magistrati, l’evasione risalirebbe agli anni di imposta dal 2008 al 2013 “sia in relazione alla omessa dichiarazione dei redditi” delle società lussemburghesi “sia in relazione alla dichiarazione delle persone fisiche”. Ma per il giudice non ci sono elementi per dimostrare la reiterazione del reato e quindi la richiesta di domiciliari è stata rigettata.
(foto: ilFQ)
Accuse di dossieraggi fabbricati ad arte con lo scopo di mettere alla gogna mediatica i propri nemici: in Vaticano è iniziata una stagione di veleni. A parlare è uno degli indagati, monsignor Alberto Perlasca, coinvolto nell’inchiesta sull’acquisto del palazzo di Sloane Avenue: ha deciso di collaborare coi magistrati vaticani puntando il dito contro il cardinale Angelo Becciu, al tempo degli avvenimenti contestati sostituto della Segreteria di Stato, ovvero suo diretto superiore.
Dagli intrighi finanziari alla stagione dei veleni. L’inchiesta sugli scandali economici della Segreteria di Stato si infittisce e appare sempre più come una vera e propria resa dei conti all’interno del Palazzo Apostolico Vaticano. Accuse di dossieraggi fabbricati ad arte con lo scopo di mettere alla gogna mediatica i propri nemici. A parlare è uno degli indagati, monsignor Alberto Perlasca, coinvolto nell’inchiesta sull’acquisto del palazzo di Sloane Avenue, all’epoca dei fatti capo ufficio amministrativo della prima sezione della Segreteria di Stato. Licenziato e cacciato via dal servizio diplomatico della Santa Sede, il prelato, però, non è tornato nella sua diocesi di Como e ha deciso di collaborare coi magistrati vaticani puntando il dito contro il cardinale Angelo Becciu, ex prefetto della Congregazione delle cause dei santi, ma al tempo degli avvenimenti contestati sostituto della Segreteria di Stato, ovvero diretto superiore di Perlasca.
Immediata la replica del porporato che, attraverso il suo legale, ha fatto sapere che “esprime estremo stupore e dolore, denunciandone la plateale falsità. Pur compatendolo, umanamente e cristianamente, per il difficile momento personale che sta attraversando a causa dell’indagine che lo vede coinvolto ed in relazione alla quale con tali presunte dichiarazioni si starebbe difendendo, Sua Eminenza respinge decisamente ogni tipo di allusione su fantomatici rapporti privilegiati con la stampa, che si vorrebbero utilizzati a fini diffamatori nei confronti di alti prelati. Trattandosi di fatti scopertamente falsi, – ha aggiunto il legale di Becciu – ho ricevuto espresso mandato di denunciarne la diffamatorietà da qualunque fonte provengano, a tutela del suo onore e della sua reputazione, innanzi alle competenti sedi giurisdizionali”. Il segnale eloquente che ormai la guerra, anche fra gli indagati, ha raggiunto l’apice.
Ma non è tutto. Ai magistrati del Papa, infatti, Perlasca ha parlato anche di un bonifico di 700mila euro su un conto australiano effettuato proprio mentre il cardinale George Pell, ex prefetto della Segreteria per l’economia, veniva processato per pedofilia. Accusa dalla quale l’Alta Corte del suo Paese lo ha assolto all’unanimità. Ad ammettere, però, che qualcosa, nella gestione delle finanze vaticane, non è andata è proprio il successore di Pell, l’attuale prefetto della Segreteria per l’economia, padre Juan Antonio Guerrero Alves. “È possibile – ha spiegato il sacerdote gesuita – che, in alcuni casi, la Santa Sede sia stata, oltre che mal consigliata, anche truffata. Credo che stiamo imparando da errori o imprudenze del passato. Ora si tratta di accelerare, su impulso deciso e insistente del Papa, il processo di conoscenza, trasparenza interna ed esterna, controllo e collaborazione tra i diversi dicasteri. Abbiamo inserito nei nostri team professionisti di altissimo livello. Oggi esiste comunicazione e collaborazione fra i dicasteri di contenuto economico per affrontare queste questioni. La collaborazione è un grande passo in avanti. Segreteria di Stato, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica e Segreteria per l’economia collaborano di buon grado. Possiamo certamente commettere errori, sbagliare o essere truffati, ma mi sembra più difficile che questo accada quando collaboriamo e agiamo con competenza, trasparenza e fiducia fra noi”.
Il riferimento, nemmeno tanto velato, è alla rete di finanzieri che hanno lucrato sugli investimenti della Segreteria di Stato. Un giro di affari di milioni di euro tra consulenze fittizie, società aperte per far lievitare i costi, soldi portati in Svizzera, truffe, ricatti e corruzioni. Per i pm della Santa Sede, un personaggio chiave è sicuramente Fabrizio Tirabassi, all’epoca dei fatti minutante dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato e poi licenziato durante l’inchiesta. Per l’accusa, è lui che “ha fornito il suo contributo alla realizzazione dell’operazione Gutt Sa che si è conclusa con un esborso di 15 milioni di euro senza alcuna plausibile giustificazione economica”. È lui ad aver seguito in prima persona le manovre della società lussemburghese posseduta da Gianluigi Torzi e i magistrati non gli credono quando sostiene di essere stato raggirato.
Perché Tirabassi, da 30 anni al servizio del Vaticano, è un commercialista competente, oltre a essere “molto attivo nel proporre investimenti con i fondi della Segreteria di Stato ai vari gestori patrimoniali, stabilendo con essi attività anche a titolo personale”. Un funzionario con tanto di conto allo “Ior (saldo pari a 700mila euro) alimentato esclusivamente dagli emolumenti a lui liquidati dalla Santa Sede ma che egli non ha mai movimentato”. Disponibilità patrimoniali che, per i magistrati, “non solo appaiono sproporzionate rispetto alla retribuzione a lui erogata dalla Segreteria di Stato, ma che, alla luce delle investigazioni, rendono plausibile l’ipotesi che Tirabassi abbia commesso il reato di corruzione o concorso in appropriazioni indebite”. A cui si aggiunge quello di peculato, perché “sono evidenti le collusioni con Enrico Crasso, con il quale era certamente d’accordo per utilizzare i fondi per finalità diverse da quelle istituzionali”. Ed è proprio Crasso a introdurre, nel 2012, il finanziere Raffaele Mincione in Vaticano. Secondo i pm, “nonostante la Segreteria di Stato sia stata messa in guardia nell’ultimo anno circa l’attività di Crasso, continua a dargli fiducia e a non togliergli la delega a operare sui propri conti correnti”.
Un giro di finanzieri che, all’ombra del Cupolone, speculava sui soldi della Segreteria di Stato, compresi quelli dell’Obolo di San Pietro destinato alla carità del Papa. Intanto, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato l’ultima tranche di 45 milioni, su 150, per riscattare il palazzo di Sloane Avenue. Ciò mentre, come ha spiegato padre Guerrero Alves, la Segreteria di Stato “ha portato tutti i suoi fondi allo Ior e all’Apsa e parteciperà al processo di centralizzazione degli investimenti, con una gestione più tecnica e professionale”. Precisando che non è esatto parlare di “perdita del portafoglio” da parte della Segreteria di Stato: “La gestione sarà fatta in altro modo, come accade agli altri dicasteri che hanno un portafoglio. In questi mesi ho visto che in Vaticano, come nel resto della Chiesa, c’è un sacro rispetto per la destinazione dei fondi, per la volontà espressa dai donatori. Quando una donazione è stata accettata per uno scopo specifico, questo viene rispettato. Molti dei fondi gestiti dalla Segreteria di Stato sono stati ricevuti per uno scopo specificato, sempre naturalmente legato alla nostra missione. Se i fondi saranno gestiti da un altro ente, dovranno rimanere associati a quello scopo, con gli stessi beneficiari”.
Twitter: @FrancescoGrana