giovedì 2 dicembre 2021

Forza Italia contro Di Matteo per spingere Berlusconi al Colle: “Mai accertate collusioni con la mafia”. Da Bontade ai soldi ai boss: cosa dice la sentenza Dell’Utri. - Giuseppe Pipitone

 

Rispondendo a una domanda sulla corsa al Quirinale, il magistrato ha ricordato in tv che lo storico braccio destro dell'ex premier è stato condannato per essere stato intermediario di un patto tra i clan e Arcore: "In cambio della protezione personale e imprenditoriale di Berlusconi prevedeva il versamento di somme ingenti di denaro da parte di Berlusconi a Cosa Nostra". L'attacco dei berlusconiani: "Accuse infamanti e infondate, l'ex premier è il più degno candidato alla presidenza della Repubblica". Ecco cosa c'è scritto nella sentenza definitiva sull'ex senatore.

Più si avvicina la fatidica data dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica e più ad Arcore aumenta la tensione. Nonostante pubblicamente dribbli l’argomento, infatti, Silvio Berlusconi continua sul serio a coltivare il sogno del Quirinale. Sarà per questo motivo che Forza Italia ha reagito in modo rabbioso, attaccando il magistrato Nino Di Matteo, reo di aver ricordato i rapporti tra Arcore e Cosa nostra. È già successo più volte in passato, ma questa volta c’è il Colle ad aumentare la reazione nervosa dei berlusconiani. Intervistato da Lucia Annunziata, infatti, Di Matteo ha ricordato cosa c’è scritto nella sentenza su Marcello Dell’Utri. Nel 2014 lo storico braccio destro di Berlusconi fu condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno a Cosa nostra. Dopo un breve periodo da latitante in Libano, Dell’Utri ha scontato la sua pena tra carcere e domiciliari: ora è tornato alla corte di Arcore, dove – secondo vari retroscena – è uno dei consiglieri più ascoltati in relazione a una possibile candidatura del leader di Forza Italia al Colle.

Le parole del magistrato Di Matteo – Insomma: può un uomo che ha il braccio destro condannato per mafia (e quello sinistro, cioè Cesare Previti, per corruzione in atti giudiziari) correre per il Quirinale? E infatti è proprio rispondendo a una domanda sul Colle che Di Matteo ha ricordato l’esistenza della sentenza Dell’Utri .“Io non ho titolo per esprimere giudizi politici mi limito a ricordare due dati di fatto. Il primo è che il presidente della Repubblica è anche presidente del Csm e nei confronti della magistratura non dovrebbe avere interessi e rancori di tipo personali. Poi ricordo che Dell’Utri fu intermediario di un accordo tra il 1974 e il 1992 con le famiglie mafiose palermitane, che in cambio della protezione personale e imprenditoriale di Berlusconi prevedeva il versamento di somme ingenti di denaro da parte di Berlusconi a Cosa Nostra, e questo è emerso da una sentenza definitiva”, ha detto il consigliere del Csm a Mezz’ora in Più su Rai3. Di Matteo si è astenuto da ogni ulteriore dichiarazione sulla corsa al Quirinale: “Non voglio commentare – ha aggiunto – ma questo sta diventando un paese in cui qualche fatto va ricordato. Il vizio della memoria dovrebbe essere coltivato in maniera più incisiva e generalizzata”.

I berlusconiani: “Nessuna sentenza ha mai accertato collusioni con la mafia” – Dichiarazioni che hanno fatto scendere sul piede di guerra i berlusconiani di stretta osservanza. I capigruppo delle commissioni Giustizia di Forza Italia alla Camera e al Senato Pierantonio Zanettin e Giacomo Caliendo, insieme con i componenti delle commissioni, la senatrice Fiammetta Modena e i deputati Matilde Siracusano e Roberto Cassinelli, hanno diffuso una nota per attaccare il magistrato. “Il consigliere del Csm Nino di Matteo – scrivono – si è scagliato contro la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale, lanciando accuse tanto infamanti, quanto infondate. Occorre ricordare che nessuna sentenza ha mai accertato collusioni del presidente Berlusconi con la mafia. Forza Italia continua a ritenerlo il più degno candidato alla presidenza della Repubblica”. A sentire i berlusconiani “il magistrato Di Matteo non ha alcun titolo per intervenire nel dibattito politico sulle candidature al Quirinale. Al contrario, essendo comunque un magistrato, oltre che un rappresentante dell’organo di autogoverno della magistratura, dovrebbe avere rispetto per il ruolo che ricopre e mostrare quel poco di imparzialità che gli rimane”.

L’incontro con Bontade e l’assunzione di Mangano ad Arcore – Nessuno tra gli altri partiti politici è intervenuto per fare notare come le dichiarazioni di Di Matteo non contenessero alcuna accusa infamante e soprattutto infondata. E’ vero che Silvio Berlusconi non è mai stato processato o condannato per fatti di mafia, anche se è ancora oggi indagato a Firenze per un reato ancora più grave come il concorso nelle stragi del 1993. I rapporti tra il leader di Forza Italia e Cosa nostra, però, sono cristallizzati in una sentenza definitiva: quella emessa nel 2014 a carico di Dell’Utri. Le motivazioni di quella sentenza sono lunghe 75 pagine e il nome di Berlusconi viene citato 137 volte. Spiegando perché ha deciso di confermare la seconda sentenza di Appello (la prima era stata annullata dalla Cassazione due anni prima) la Suprema corte ripercorre il rapporto tra Dell’Utri e Cosa nostra: l’ex senatore fu il garante di un accordo tra i clan ed Arcore durato quasi vent’anni: dal 1974 al 1992. La mafia, in pratica, garantiva protezione all’inquilino di villa San Martino dove venne spedito Vittorio Mangano. In cambio ai boss arrivavano centinaia di milioni di lire dal gruppo imprenditoriale berlusconiano. Era il prezzo di un “accordo di protezione stipulato nel 1974 tra gli esponenti mafiosi (Bontade e Teresi) e Silvio Berlusconi per il tramite di Dell’Utri, espressivo dell’importanza e della solidità dello stesso, dell’affidamento reciproco tra le due parti che lo avevano stipulato grazie alla mediazione dell’imputato, il quale rappresentava la persona in cui entrambe riponevano fiducia”. Quell’accordo, ricostruiva la prima sezione penale presieduta da Maria Cristina Siotto, venne siglato durante un incontro, che si è svolto a Milano tra “il 16 e il 29 maggio 1974” e al quale avevano partecipato Berlusconi, Dell’Utri, il suo amico Gaetano Cinà, uomo della “famiglia” mafiosa di Malaspina, Stefano Bontade, il principe di Villagrazia che era al vertice di Cosa nostra, Girolamo Teresi di Santa Maria del Gesù e Francesco Di Carlo, boss di Altofonte che poi diventerà un collaboratore di giustizia. “In quell’occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra Cosa nostra, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro”, si legge nella sentenza della corte di Cassazione. “L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di Cosa nsotra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo. In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di Cosa nostra palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà”, proseguiva la giudice relatrice Margherita Cassano.

Da Arcore soldi alla mafia tra il 1974 e il 1992 – 
Quell’accordo, secondo i giudici, è andato avanti negli anni, anche dopo l’omicidio di Bontade e l’arrivo al potere dei corleonesi di Totò Riina. “La sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra nella consapevolezza del rilievo che esso rivestiva per entrambe le parti: l’associazione mafiosa che da esso traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”, si legge nella sentenza della Suprema corte. I giudici scrivevano che “la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato che anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato (cioè Dell’Utri ndr), assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione”.

“Quei 20 miliardi di Cosa nostra per i film di Canale 5” – Per dimostrare che Dell’Utri si sia posto nei confronti di Cosa nostra come rappresentante di Berlusconi pure quando non era un dipendente del gruppo di Arcore, i giudici citano un precedente del 1980. “Il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5“. Questa sentenza, come detto, è passata in giudicato: è accertato, dunque, che “l’imprenditore Berlusconi” ha pagato Cosa nostra tra il 1974 e il 1992 grazie all’intermediazione del suo storico braccio destro. Addirittura, secondo i giudici della corte d’Assise di Palermo che hanno celebrato il processo di primo grado sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, quei pagamenti da Arcore sarebbero proseguiti fino al dicembre del 1994, cioè quando Berlusconi era già a Palazzo Chigi. Quella sentenza, però, è stata ribaltata in Appello: dopo la condanna in primo grado, Dell’Utri è stato assolto in secondo. Avendo già finito di scontare la sua pena per concorso esterno, è tornato a essere tra gli ospiti più ascoltati ad Arcore. Raccontano i bene informati che ci sarebbe proprio Dell’Utri dietro l’incontro a cena tra Gianfranco Micciché e Matteo Renzi. Nel menù, a sentire Micciché, ci sarebbe stata anche l’elezione di Berlusconi al Quirinale.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/29/forza-italia-contro-di-matteo-per-spingere-berlusconi-al-colle-mai-accertate-collusioni-con-la-mafia-da-bontade-ai-soldi-ai-boss-cosa-dice-la-sentenza-dellutri/6408892/

Berlusconi al Quirinale? No grazie. - Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio

 

Ai parlamentari della Repubblica,

il Presidente della Repubblica dev’essere il garante della CostituzioneSilvio Berlusconi è il garante della corruzione e della prostituzione, non solo sul piano giudiziario, mentre la Costituzione l’ha violata prima e dopo il suo ingresso in politica.

Ha prostituito ai suoi interessi privati non soltanto le sue escort, alcune minorenni, ma soprattutto i principi costituzionali che aveva giurato di difendere per ben tre volte da presidente del Consiglio: legalità, giustizia, eguaglianza, dignità delle donne, libertà di stampa, indipendenza della magistratura, libero mercato, equità fiscale, scuola e sanità pubbliche, disciplina e onore, antifascismo.

E’ stato eletto sei volte nel Parlamento italiano e una in quello europeo benché ineleggibile per la legge 361/1957 sui concessionari pubblici. E’ stato condannato in via definitiva per avere frodato il fisco, derubando lo Stato che ora vorrebbe presiedere, occultando immense fortune nei paradisi fiscali.

E, da pregiudicato, pretende di guidare il Csm che decide sulle carriere dei magistrati. Ha abusato dei pubblici poteri per piegare il Parlamento ad approvargli 60 leggi ad personam, alcune bocciate dalla Consulta perché incostituzionali.

Era affiliato alla loggia occulta P2. Ha corrotto parlamentari per ribaltare le sconfitte elettorali. Ha elevato a sistema il conflitto d’interessi, legittimando anche quelli degli altri. Ha sdoganato i peggiori disvalori, facendo pubblico vanto di condotte prima relegate alla clandestinità. Ha trasformato Camera, Senato ed enti locali in stipendifici per i suoi avvocati, coimputati, lobbisti, camerieri, badanti, Papi girl, igieniste dentali. Ha screditato il Parlamento con la mozione “Ruby nipote di Mubarak”.

Ha coperto di vergogna gli italiani con sceneggiate e pagliacciate in giro per il mondo e ha trascinato l’Italia in due guerre criminali contro l’Afghanistan e l’Iraq.

Ha epurato giornalisti e artisti a lui sgraditi, trasformando la Rai in servizietto privato per Mediaset e Forza Italia. Ha usato i suoi manganelli catodici e cartacei per calunniare i migliori magistrati e giornalisti, oltre agli oppositori che ostacolavano i suoi disegni eversivi. Ha più volte elogiato Benito Mussolini. Ha giustificato l’evasione fiscale e varato condoni tributari, edilizi e ambientali. Il suo gruppo, con soldi suoi, ha corrotto politici, giudici, ufficiali della Guardia di Finanza, testimoni.

Il suo braccio destro Cesare Previti è stato condannato definitivamente per due corruzioni giudiziarie. Idem il suo braccio sinistro Marcello Dell’Utri per concorso esterno in mafia. I suoi referenti in Campania e in Calabria, Nicola Cosentino e Amedeo Matacena, sono stati condannati l’uno in appello per concorso in camorra e l’altro in Cassazione per complicità con la ‘ndrangheta. E manca lo spazio per fare la conta dei danni inferti dai suoi tre malgoverni all’economia, alla scuola, alla sanità, all’ambiente, alla cultura, ai diritti civili.

Per queste ragioni chiediamo a tutti i parlamentari di non votarlo alla Presidenza della Repubblica. Anzi, di non parlarne proprio. E, se possibile, di non pensarci neppure.

Firmato:  Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/12/01/berlusconi-al-quirinale-no-grazie-firma-la-nostra-petizione-ai-parlamentari/6411310/

domenica 28 novembre 2021

Essere donna.

 

Noi donne siamo esseri eterei,
contenitori generosi di vita....
Chi non capisce la nostra essenza,
non ha capito nulla di noi, e...
...non ci merita.

cetta

sabato 27 novembre 2021

LA POLITICA COME AFFARE. - Nadia Urbinati

 

I togati arrivano quando la corruzione è un fatto e la legge è violata. In una democrazia costituzionale, la corruzione della politica è un’altra cosa. Prima di tutto perché anticipa il fatto e poi perché presuppone l’impurità (che gli esseri umani amino denaro e potere) ed escogita leggi e istituzioni per impedire questa commistione. La politica non ha un’ambizione purificatrice. Qui sta la sua semplicità e difficoltà al tempo stesso.

Le leggi, le costituzioni, sono buone non perché scritte da e per santi, ma perché scritte a partire dall’impurità; da e per persone esposte a passioni (la pleonessia prima di tutto) che, se non limitate, generano il massimo negativo in politica: la violazione della norma dell’eguale libertà, la costruzione di un recinto nascosto agli occhi del pubblico per un gioco di pochi a danno di tutti (Bentham parlava di “sinister interests”).  Una vera e propria curvatura oligarchica. Le costituzioni sono state scritte pensando a questo desiderio di arbitrio.

Il problema è che chi le gestisce può col tempo perdere il senso del loro significato originario. E sviluppa uno spirito di corpo, interpretando la governabilità come riproduzione della stabilità della classe che gestisce le istituzioni.  Le pessime leggi seguono a ruota, e corrompono la politica.  Una di esse consiste nel trattare la politica come un agire economico – la competizione elettorale viene allargata fino ad includere la competizione per il reperimento delle risorse per poter competere per i voti.  La politica come affare scrive le proprie leggi.

In Italia, l’eliminazione del finanziamento pubblico dei partiti è stata la madre della corruzione della politica. Di quel che oggi lamentiamo con il caso dell’oligarca ........ Oligarca non perché ricco di suo, ma perché arricchitosi attraverso la politica. Questa è la peggiore della corruzione politica possibile – è anzi, “la” corruzione.  Che è stata facilitata negli ultimi decenni di erosione graduale delle norme che tenevano i politici al riparto della commistione con il soldo.

Un esempio: negli anni Sessanta vi erano leggi severissime nel determinare l’indennità spettante ai membri del Parlamento; e alcuni partiti, come il Pci, ponevano un tetto all’emolumento dei loro eletti, misurandolo sullo stipendio dei colletti bianchi e stabilendo che l’eccedenza andasse al partito.  La fine dei partiti ha da un lato reso i parlamentari imprenditori di se stessi e dall’altro ha scatenato una corsa al rialzo dei loro emolumenti. Oggi un parlamentare è un privilegiato. Questa è corruzione politica, anche se “secondo la legge”.

Una volta che i politici si fanno professionisti viene loro spontaneo pensare che la politica sia il loro mercato – e il pubblico viene messo alla porta.  Arriva così la legge che privatizza il finanziamento dei partiti e delle campagne elettorali. E arriva ........, che non è il solo. Tutto rientra nella norma, che ha generato le condizioni ideali per la corruzione della politica per mezzo della politica.

http://www.libertaegiustizia.it/2021/11/16/la-politica-come-affare/

I MILLE AVVOCATI DI STRADA CHE RESTITUISCONO DIGNITÀ AI SENZA DIMORA (E AGLI ULTIMI). - Maria Novella De Luca

 

Sono lo studio legale più grande d’Italia, tutti “soci” volontari, con il fatturato più povero: zero euro. Assistono persone precipitare nella povertà dopo licenziamenti, sfratti, divorzi, costrette oggi a vivere sui marciapiedi, nei dormitori, in auto. Per tutti la sfida più grande: ottenere un indirizzo di residenza per non essere più invisibili.

Sono lo studio legale più grande d’Italia (mille “soci” tra civilisti e penalisti) e anche il più povero: fatturato euro zero. Del resto, i loro clienti, nella scala sociale, sono gli ultimi degli ultimi, così privi di tutto da non avere nemmeno un indirizzo: sono clochard, senza tetto, senza fissa dimora. Si chiamano “avvocati di strada”, sono riuniti in un’associazione fondata nel 2001 da Antonio Mumolo, avvocato giuslavorista che nelle fredde notti di Bologna, da volontario portava cibo e coperte a chi viveva sui marciapiedi o sotto rifugi di cartone. “E molti di loro, conoscendo il mio mestiere, mi facevano domande legali, raccontandomi di pensioni perdute, di eredità negate, di figli mai più incontrati per mancanza di un indirizzo di residenza, di fallimenti economici per crediti inesigibili, di assistenza sanitaria negata. Capii che quel mondo di invisibili finiva per strada non soltanto per tossicodipendenza, alcolismo o per problemi psichiatrici, ma soprattutto per diritti negati”.

Insieme a un solo altro collega, Mumolo fonda la onlus “Avvocato di strada”, oggi presente in 56 città, con mille legali che offrono assistenza (gratuita) ai senza dimora, trentottomila persone seguite dal 2001 ad oggi, tremila pratiche aperte ogni anno, centinaia di cause vinte, ma soprattutto centinaia di ex drop-out tornati a vivere dal mondo di sotto al mondo di sopra. Con il motto non “esistono cause perse”, “Avvocato di strada” ha dedicato ai sessantamila clochard italiani addirittura un festival nell’ottobre scorso, per raccontare questo estremo segmento di povertà.

Spiega Antonio Mumolo: “Il senzatetto che dorme sui cartoni è solo la forma più evidente di questa emarginazione, figlia delle ripetute crisi economiche che hanno devastato l’Italia. A differenza di vent’anni fa quando i senza dimora erano persone con storie di alcol o malattie mentali, oggi sono cittadini, all’ottanta per cento italiani, che da un giorno all’altro perdono il bene fondamentale: la casa. Ci vuole poco: un licenziamento, le rate di mutuo non pagate, lo sfratto, una pensione troppo misera, un divorzio e ci si ritrova a dormire in auto, nei dormitori pubblici, negli edifici occupati, in fila alla mensa, alle docce, alle distribuzioni di vestiti usati. Bussando da una porta all’altra alla ricerca di lavoro”.

La storia di Francesca, da commessa in un supermercato ad una vita senza più figlie né una casa.

Come accade a F. che chiameremo Francesca, nelle tante storie che “Avvocato di strada”, pubblica sul suo bilancio sociale ogni anno. Francesca è italiana, ha 40 anni, è mamma di due bimbe di 6 e 8 anni. Emblema e paradigma di come si possa passare da una situazione dignitosa alla povertà in un tempo brevissimo, fulmineo. Un capitombolo nel baratro. “F. era commessa in un supermercato, conviveva con il suo compagno e padre delle bambine, finché i due non decidono di separarsi e l’uomo, abbandonata la casa, smette di prendersi carico delle spese. F. non ce la fa, il suo stipendio è troppo basso per pagare un affitto e gestire, da sola, due figlie. Arriva lo sfratto e le bimbe vengono affidate ai nonni paterni. Costretta a dormire in macchina, Francesca si rivolge ad “Avvocato di strada” perché è inverno, i soldi stanno finendo e pagare la benzina per arrivare al lavoro diventa impossibile”. F. si ammala di broncopolmonite, viene aggredita nella notte, la macchina si guasta irreparabilmente. Sul lavoro le assenze diventano troppe e Francesca viene licenziata.

“Dopo aver messo in contatto Francesca con i servizi sociali della città – ricorda Agostina, avvocata di strada di Milano – siamo riusciti a farle ottenere la residenza fittizia, grazie alla quale ha potuto cercare un nuovo lavoro e un alloggio”. Piano piano Francesca riemerge dal buio e ricostruisce un rapporto con le figlie. Con il sogno, oggi, di riaverle con sé.

Per chi nella vita ha sempre avuto un indirizzo e un nome sul citofono, la parola residenza evoca soltanto un fastidio burocratico da espletare quando, magari, si cambia casa o città. Invece no: la residenza è un diritto fondamentale che determina lo spartiacque tra l’esistenza e la non esistenza. Tra l’essere cittadini o clandestini. Essere invisibili oggi è non poter fornire un indirizzo, dunque ottenere una carta d’identità, quindi un lavoro e l’assistenza sanitaria.

Gli avvocati di strada ricostruiscono i fili spezzati di queste vite, cuciono una tela che riannoda affetti, patrimoni, dignità. Portano in tribunale comuni e datori di lavoro, enti previdenziali e familiari disonesti. “I comuni – dice Mumolo – spesso violano l’obbligo di assegnare per legge ai senza dimora una di quelle vie fittizie inventate proprio per dare una residenza a chi non ce l’ha”. Come via Modesta Valenti a Roma, clochard che morì di stenti, o via della Speranza, o via dei Senzatetto in altre città.

Si sentono rinascita e resistenza nelle storie degli avvocati di strada. C’è M, italiano, che viveva in un dormitorio dopo una dolorosa separazione. Grazie all’assistenza legale riesce a definire il divorzio, trova alloggio in co-housing. “La cosa più bella – è stata sentirmi di nuovo chiamare papà”.

La storia di Stella, da clandestina a una vita alla luce del sole.

C’è S. la chiameremo Stella, ucraina, mamma di un bellissimo bambino con cui viveva, però, quasi nascosta. “Nel periodo in cui è venuta al nostro sportello viveva in una situazione totalmente precaria fuori Genova. Non aveva documenti, non riusciva ad ottenere un permesso di soggiorno ed era costretta a vivere nella clandestinità, nella paura, senza assistenza sanitaria, senza potersi rivolgere ai servizi sociali, né poter iscrivere suo figlio a scuola” Stella era invisibile. Gli avvocati strada rintracciano in Grecia il padre del bambino, ottengono i suoi documenti, regolarizzano la posizione di Stella. “Oggi a lei ed al suo piccolo è stata restituita la dignità e il riconoscimento che per troppo tempo erano stati loro ingiustamente sottratti”. E Stella e il suo bambino non hanno più paura di camminare alla luce del sole.

La storia di Giuseppe non aveva più una residenza ora l’ha ottenuta.

C’è G, lo chiameremo Giuseppe, napoletano. “Arrivò ad Avvocato di strada dopo aver girato tutti servizi della città senza essere riuscito a far rispettare un suo diritto essenziale, quello alla residenza anagrafica. G. che un tempo aveva una casa e un lavoro, aveva camminato tanto, tra uffici freddi e pieni di inutile burocrazia, trovando tutte le porte chiuse. Quando arrivò da noi era veramente esausto e sfiduciato. Aveva perso la speranza e la sua voglia di credere in una società giusta e civile. In breve tempo, grazie al preziosissimo aiuto di una nostra volontaria, G. ottiene la residenza nella via fittizia. Oggi ha nuovamente diritto di voto, accesso alle cure mediche. È tornato a godere di tutti quei diritti fondamentali di cui gode un cittadino italiano residente sul territorio”.

Antonio Mumolo cita una frase “cult” del libro di John Grisham “L’avvocato di strada”: “Prima di tutto sono un essere umano. Poi un avvocato. È possibile essere entrambe le cose”.

http://www.libertaegiustizia.it/2021/11/13/i-mille-avvocati-di-strada-che-restituiscono-dignita-ai-senza-dimora-e-agli-ultimi/

venerdì 26 novembre 2021

In piedi, signori... - William Shakespeare

 

Per tutte le violenze consumate su di Lei,

per tutte le umiliazioni,
per la sua intelligenza che avete calpestato,
per il suo corpo che avete sfruttato,
per l'ignoranza in cui l'avete lasciata,
per la libertà che le avete negato,
per la bocca che le avete tappato,
per le ali che le avete tagliato,
per tutto questo:

"In piedi Signori, davanti a una DONNA!"

(William Shakespeare)

Riforma del fisco, la simulazione delle nuove aliquote Irpef: risparmi fino a 920 euro l’anno. - Alessandro D’Amato

 

Così la riforma del governo Draghi impatterà sui portafogli dei lavoratori: quattro scaglioni e sei fasce di imponibile. Gli effetti del taglio delle tasse sulle famiglie.

Le simulazioni delle nuove aliquote Irpef spiegano oggi come la riforma del fisco del governo Draghi impatterà sui portafogli dei lavori dipendenti. Che, a seconda della soglia di reddito, risparmieranno fino a 920 euro l’anno. Non solo per effetto della riduzione da 5 a 4 degli scaglioni. Ma anche per le detrazioni, che andranno ad assorbire il bonus 80-100 euro e per l’incremento della soglia della no tax area per pensionati e autonomi. Anche l’Irap viene cancellata per un milione di società di persone, partite Iva, start up e professionisti oltre che per gli enti non commerciali. Il conto totale della riforma ammonta a 7 miliardi per l’Irpef e uno per l’Irap. Ma per adesso a imprese e sindacati la riforma del fisco non piace.

Quanto si risparmia con i 4 scaglioni.

L’accordo politico raggiunto ieri tra maggioranza e governo prevede in primo luogo la riduzione delle aliquote. Si abolisce lo scaglione al 41% e le aliquote diventano quindi quattro. Fino a 15 mila euro l’aliquota sarà al 23%; da 15 a 28 mila euro lo scaglione scenderà di due punti rispetto ad oggi e arriverà al 25%. I redditi da 28 a 50 mila euro invece avranno un imponibile del 35% (tre punti di taglio) mentre oltre i 50 mila euro scatta la trattenuta al 43%. Va spiegato però che l’Irpef è un’imposta progressiva. Se quindi c’è chi vede aumentare dal 38 al 43% l’imponibile sulla fascia di reddito, come quelli che guadagnano da 50 a 55 mila euro l’anno, dall’altra parte usufruisce del taglio degli scaglioni sulle quote di reddito precedenti. Che vanno a compensare l’incremento successivo.

Fatta questa premessa, le prime simulazioni delle nuove aliquote Irpef vanno valutate anche sulla base delle nuove detrazioni. Mentre per quanto riguarda la No tax area, quella dei pensionati passa da 8.125 a 8.174 euro. Quella dei lavoratori autonomi andrà da 4.800 a 5.500 euro. In questo quadro i risparmi per le classi di reddito vanno dai 100 ai quasi mille euro l’anno. Secondo la simulazione di Repubblica il beneficio è massimo per un reddito di 60 mila euro (970 euro) e poi arriva a 270 euro per chi ne guadagna da 75 mila in poi. In termini percentuali chi ha 45 mila euro di redditi porta a casa il 6% di tasse in meno. Ovvero 770 euro l’anno. Nella tabella del quotidiano la fascia dei 70 mila euro risparmia 370 euro, quella dei 65 mila ne risparmia 470, quella dei 55 mila ne risparmia 670.

Le sei fasce di imponibile.

E ancora: la fascia dei 40 mila euro l’anno risparmia 620 euro, la fascia dei 35 mila arriva a 470 e quella dei 30 mila a 320. La simulazione di PwC Tls Avvocati Commercialisti pubblicata da La Stampa invece prevede sei fasce di imponibile. E quindi, rispettivamente:

  • i redditi imponibili fino a 20 mila euro risparmiano 100 euro l’anno;
  • i redditi fino a 30 mila euro ne risparmiano 320;
  • la fascia da 40 mila euro risparmia 620 euro netti l’anno;
  • il reddito imponibile fino a 50 mila euro l’anno risparmia 920 euro l’anno;
  • la fascia da 60 mila euro ne risparmia 570;
  • il reddito da 75 mila euro risparmia 270 euro.

I calcoli del Messaggero riportano anche gli effetti su chi guadagna da 10 a 15 mila euro l’anno. In quel caso il beneficio è pari a zero. Per le fasce che vanno dai 16 ai 19 mila euro l’anno il beneficio aumenta progressivamente di 20 euro ogni mille di reddito. Le aliquote, come ricorda il quotidiano, rideterminano soltanto il 40% dell’effetto redistributivo. Il 60% è determinato da detrazioni per lavoro e famiglia.

Gli effetti del taglio per le famiglie.

Secondo invece la simulazione dei Consulenti del Lavoro citata dall’agenzia di stampa Ansa i vantaggi più significativi riguarderanno a partire dal 2022 chi ha un reddito tra i 30 mila e i 60 mila euro lordi l’anno. I dati del ministero dell’Economia dicono che sono circa 7 milioni di contribuenti. In questa simulazione per la fascia di contribuenti da 20 mila euro l’anno l’Irpef attuale, senza considerare alcun tipo di detrazione, è pari a 4.800 euro. Dal 2022, con il passaggio del secondo scaglione dal 27% al 25%, scenderebbe a 4.700 euro con un beneficio di 100 euro. Una famiglia con due lavoratori e 45 mila euro di reddito complessivo l’anno – equamente distribuito e non tenendo conto delle detrazioni per i figli – passa da un’Irpef lorda di 5.475 euro a 5.325 euro, con un beneficio di 150 euro a testa, pari a 300 euro per il nucleo. Infine, nel caso di un unico percettore di reddito da 30.000 euro si passa da un’Irpef lorda di 7.500 euro a 7.200 euro. Il vantaggio è di 300 euro ma concentrato su un’unica persona. Sale quindi al salire del reddito.

Confindustria e sindacati.

La riforma non piace a Confindustria e sindacati. Per gli imprenditori «se la bozza dovesse essere confermata, saremmo in presenza di scelte che suscitano forte perplessità perché senza visione per il futuro dell’economia del nostro Paese». E questo perché, secondo l’associazione datoriale, «la sforbiciata alle aliquote Irpef disperde risorse, con effetti “impercettibili” sui redditi delle famiglie, soprattutto se venissero eliminate le detrazioni per coprire i costi. L’intervento sull’Irap, poi, non migliora la competitività delle imprese». Il segretario della Cgil Maurizio Landini sostiene che gli 8 miliardi dovrebbero andare tutti ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Mentre il segretario confederale della Cisl Giulio Romani, responsabile del dipartimento fiscale, dice «no ad accordi già confezionati coi partiti che renderebbero solo consultivo il ruolo dei sindacati. Viale dell’Astronomia e i rappresentanti dei lavoratori chiedono al governo una convocazione urgente perché l’intesa non ha coinvolto le parti sociali».

https://www.open.online/2021/11/26/governo-draghi-nuova-irpef-simulazione-aliquote/