lunedì 19 giugno 2017

Scoperta in Cappadocia un'immensa città sotterranea.


Scavata nel tufo nel sottosuolo di Nevsehir, in caso di pericolo poteva dare rifugio a migliaia di persone.

Kayseri, in Turchia 

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 Il complesso di tunnel e ambienti sotterranei è stato trovato sotto una fortezza bizantina. Fotografia di Murat Kaya, Anadolu Agency/Getty
Scavata nel tufo nel sottosuolo di Nevsehir, in caso di pericolo poteva dare rifugio a migliaia di persone.
Quando arrivavano gli invasori, gli abitanti della Cappadocia sapevano dove nascondersi: nel sottosuolo, in uno dei 250 rifugi che avevano scavato nel friabile tufo vulcanico di cui è fatta la loro terra.

Oggi i lavori di un cantiere potrebbero aver portato alla luce il più grande nascondiglio sotterraneo mai scoperto in questa regione al centro della Turchia, già celeberrima meta turistica grazie alle sue chiese rupestri, alle case dai bizzarri camini e alle intere città scavate nella roccia.

Scoperto a Nevsehir, la capitale della provincia, sotto un castello d'età bizantina costruito in cima a una collina, il sito è ancora in gran parte inesplorato. Ma le prime ricerche fanno pensare che possa rivaleggiare, per dimensioni e caratteristiche, con la città ipogea di Derinkuyu, che poteva ospitare 20 mila persone. 
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Nel 2013, gli operai che stavano demolendo alcune modeste case che circondavano il castello scoprirono una serie di ingressi che portavano a una rete di tunnel e stanze sotterranee. Il comune bloccò il progetto e chiamò un team di archeologi e geofisici che cominciò a indagare. Esaminando 300 anni di corrispondenza tra gli amministratori locali e le autorità dell'Impero Ottomano, gli studiosi hanno trovato indizi su dove cercare: "Dai documenti risultava l'esistenza di una trentina di tunnel per l'acqua in questa regione", spiega Hasan Ünver, sindaco della città. 
Partendo da quei tunnel, nel corso del 2014 gli scienziati hanno scoperto un insediamento su più livelli, che comprendeva abitazioni, cucine, cantine, cappelle, scalinate e bezirhane, frantoi dove venivano spremuti i semi di lino per ricavarne olio per l'illuminazione della città sotterranea. Gli oggetti ritrovati - macine, croci di pietra, ceramiche - mostrano che la città è stata utilizzata dall'epoca bizantina fino alla conquista ottomana. 
A quanto pare, proprio come Derinkuyu, si trattava di un grande complesso autosufficiente, con pozzi per l'aria e canali per l'acqua corrente. Quando incombeva il pericolo, i cappadoci si ritiravano sottoterra, bloccavano i tunnel d'accesso con grosse porte di pietra rotonda e si chiudevano dentro con provviste e bestiame finché la minaccia non era passata.
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Tra le prime regioni ad abbracciare il Cristianesimo - l'apostolo Paolo arrivò qui nel I secolo, e nel IV secolo i suoi vescovi rivestirono molta autorità quando l'Impero adottò la nuova religione - la Cappadocia subì le prime invasioni musulmane alla fine dell'VIII secolo. Più tardi arrivarono i turchi Selgiuchidi, e infine gli Ottomani che nel Quattrocento completarono la conquista dell'Anatolia abbattendo l'Impero Bizantino. 
Quanto è grande? I geofisici dell'Università di Nevsehir hanno condotto sondaggi sistematici su un'area di circa quattro chilometri quadrat,i usando tecniche come la misura della georesistività e la tomografia sismica. Dalle 33 misurazioni indipendenti effettuate, si stima che il sito debba avere un'area di quasi 460 mila metri quadrati, e che si addentri fino a 113 metri nel sottosuolo. Se le misure sono esatte, la città di Nevsehir dovrebbe superare di un buon terzo quella di Derinkuyu.
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Ma sono solo ipotesi, precisa Murat Gülyaz, direttore dell'università e archeologo a capo delle operazioni. "Finora non è possibile dire quanto fosse grande la città. Ma data la sua posizione, le difese di cui era dotata e la vicinanza alle riserve d'acqua, è molto probabile che si estendesse su un'area molto vasta". 

"Questa scoperta si aggiunge come una nuova perla, un nuovo diamante, un nuovo gioiello d'oro" alle ricchezze della Cappadocia, si entusiasma il sindaco, che sogna di costruire "il più grande parco archeologico del mondo":  hotel di lusso e gallerie d'arte in superficie, percorsi turistici e un museo nel sottosuolo. "Vogliamo anche riaprire le chiese ipogee", dice. "Siamo tutti molto emozionati".

L'équipe di archeologi continuerà a ripulire i tunnel dalle macerie e esplorare il sottosuolo: un'operazione rischiosa, visto che il tufo crolla facilmente. "Quando la città sarà tutta scoperta", sostiene Gülyaz, "è quasi certo che la classifica delle destinazioni turistiche della Cappadocia cambierà drasticamente".

Sensazionale Scoperta in Messico! Trovate in una grotta le “Pietre del Primo Incontro” tra gli Extraterrestri e i Maya.

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Residenti che si trovano nella perfieria di Puebla, vicino Veracruz (Messico), hanno trovato delle pietre di giada con misteriose incisioni che sembrano rappresentare alcuni esseri dall’aspetto umanoide con grandi teste, simili a veri e propri Alieni.




Questa scoperta era stata fatta nel mese di Marzo 2017, e la notizia era stata rilasciata via Twitter dal giornalista Javier Lopez Diaz che lavora a CincoRadio, dove sono state pubblicate alcune immagini delle pietre che stanno per essere studiate e analizzate da esperti. Quello che si può vedere inciso sulle due pietre potrebbe rappresentare un vero “contatto” con esseri provenienti da altri mondi, avvenuto durante lo sviluppo della Civiltà Maya.
L’autenticità dei reperti trovati in una grotta nella periferia tra Puebla e Veracruz, sembra essere confermata grazie alla ispezione della grotta dove sono stati trovati altri reperti, tra cui petroglifi di importanza storica che riproducono delle vere e proprie scene di un Inontro tra esseri di Altri Mondi e rappresentanti del Popolo Maya. Infatti le pietre ritrovate sono state chiamate le “Pietre del Primo Incontro”.
La spediazione nella grotta
Dopo poco più di tre mesi dalla scoperta delle pietre, una spedizione di ispezione è stata fatta dal gruppo “Treasure Seekers” dove il ricercatore della JAC Detector José Aguayo, il Maestro Manuel, insieme a Rangel Vigueras, Asrael, Héctor Pavón, Claudia Vázquez e qualche altro collaboratore, hanno trovato per caso una pietra scavata nella grotta dove ci sono dei disegni impressi con forme aliene. L’ispezione nella grotta è avvenuta per ben 2 volte, la prima a Maggio e la seconda il 12 Giugno 2017.
Dopo aver camminato diverse ore attraverso la boscaglia per raggiungere una serie di tre grotte private, che si trovano entro i confini di Veracruz e Puebla,  due dei membri del team di ricerca hanno immediatamente segnalato alcune scoperte sorprendenti,  come ad esempio una e più pietre che si trovavano all’interno della grotta, in cui erano visibili immagini che rappresentano la possibile relazione storica tra umani e alieni. Poi è stata notata con sorpresa la presenza di un metallo che i dirigenti della spedizione, dicono che potrebbe essere oro.
Nelle pietre documentate situate nella grotta, a prima vista sono visibil vari disegni intagliati tra i quali le navi aliene e esseri dall’aspetto umanoide; in una delle pietre, che a quanto pare è stata rotta dalle spedizioni precedenti, si può notare la parte superiore di una nave spaziale con un essere che viene nel nostro mondo e un ex capo della cultura preispanica che sembra avere apparentemente una spiga di grano. Ci sono altri simboli da decifrare ma queste pietre la gente del posto le chiamavano “pietre del primo incontro.”
Secondo la leggenda della gente del posto, qui sarebbe avvenuto un incontro con esseri venuti attraverso una nave spaziale e quindi sarebbe stato documentato il tutto attraverso le incisioni sulle rocce intrappolate o incorporate in una caverna. Alcuni ricercatori hanno cominciato la loro ispezione con il proprietario del terreno dove si trova la caverna, cosi la prima visita al sito è iniziata tre mesi fa. Infatti nella boscaglia, non solo hanno trovato la grotta, ma anche alcune pietre su cui vengono visualizzate le immagini di questi esseri umanoidi; quindi questa nuova visita del 12 Giugno era in programma.
Ma mentre i ricercatori effettuavano le riprese e scattavano le foto, hanno potuto verificare l’esistenza di un qualcosa di luminoso, di colore dorato. Poi è stato passato il metal detector e cosi hanno scoperto che si trattava di un materiale metallico, e che a quanto pare potrebbe essere una  lamina d’oro sottilissima che si è frammentata e sparsa in tutto il luogo del sito. Così è stato effettuato un prelievo del campione e portato ad analisi, che potrà confermare o meno che si tratti di oro. La notizia di questa scoperta straordinaria è stata riportata dai quotidiani in Messico tra cui Elinformante de Veracruz e Televisapuebla.tv. In Italia nessuno ne ha parlato tranne noi di Segnidalcielo.
José Aguayo ha detto che “Se ad un certo punto l’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico ha deciso di intressarsi a questa scoperta e raccogliere i pezzi delle pietre, per entrambi i gruppi di ricerca sarebbe meglio, anche perché in questo modo si sarebbe accettato il fatto dell’esistenza di un contatto alieno, di cui molti hanno sempre negato l’esistenza delle prove”.
Guardate i due video straordinari relativi all’ispezione nella grotta e alle immagini dei Petroglifi.
Fonte: segnidalcielo
Tratto da: hackthematrix

domenica 18 giugno 2017

Un lavoro povero è davvero ‘meglio di niente’? - Elena Monticelli, Marco Marrone



Mentre riscoppia nuovamente “la questione voucher” nel nostro paese e mentre il caso dei c.d. “Scontrinisti” della Biblioteca Nazionale di Roma è stato per giorni su tutti i giornali e le trasmissioni televisive, come esempio emblematico di lavoro povero, contemporaneamente, con la precipitazione del clima elettorale, il dibattito “reddito sì reddito no” ha raggiunto una polarizzazione in Italia che negli ultimi anni sembrava essersi affievolita, grazie al proliferare di campagne e proposte di legge in materia. La propaganda del M5S, caratterizzata da un approccio “proprietario” del tema del reddito di cittadinanza (nonostante nei fatti la loro proposta di legge riguardi una forma di reddito minimo, dove il termine cittadinanza viene evocato sulla scia del ‘prima gli italiani’), ha determinato un irrigidimento da parte degli altri soggetti politici, addirittura si è utilizzato il discorso del Papa per aprire le prime pagine delle più grosse testate giornalistiche proprio contro il tema del reddito.
Pertanto il pericoloso paradigma che sembra pian piano affermarsi, pare essere: “contro l’aumento della disoccupazione no al reddito di cittadinanza si alla piena occupazione, sì a proposte come il lavoro di cittadinanza”. Ma siamo davvero convinti che le posizioni possano essere ancora così nette? Davvero c’è bisogno, ancora una volta, di riaprire una discussione fondata sulla contrapposizione tra redditisti e lavoristi?
Se così fosse allora avrebbe senso, provare a porre la domanda da un altro punto di vista: è, indistintamente, tutto il lavoro ad essere veicolo di cittadinanza? In che modo il reddito non si contrappone al salario, ma anzi, consente di liberare energie e conflittualità per un suo miglioramento? Infine, in che modo il reddito può ribaltare tendenze di lungo periodo che hanno caratterizzato il fallimento delle politiche del lavoro in Italia?
Alla domanda “che lavoro stiamo producendo?” hanno provato a rispondere in tanti (si segnalano, per esempio, questo articolo di Roberto Ciccarelli o questo di Francesca Coin) che mostrano come siamo di fronte ad un vero e proprio processo di sostituzione di lavoro contrattualizzato, salariato e tutelato con forme di lavoro povero, mal pagato o gratuito. È evidente come questo processo sia il frutto a sua volta delle trasformazioni del lavoro in Italia e di un uso capitalistico della crisi.
  1. Le trasformazioni del lavoro al tempo della crisi

Pensare l’impatto di una delle più lunghe crisi della storia soltanto come recessione e come distruzione di posti di lavoro è riduttivo e pone il rischio di non riuscire a cogliere la reale intensità dei suoi effetti. Senza negare questo aspetto, è necessario integrarlo anche con una lettura delle trasformazioni delle forme con cui le prestazioni lavorative vengono regolate. Come emerge nella tabella 1, che raccoglie le variazioni delle tipologie di impiego dal 2008, anno di inizio della crisi, al 2015, ultimo anno in cui sono disponibili tutti i dati, possiamo vedere come la flessione di oltre 2 milioni di lavoratori con un contratto subordinato a tempo indeterminato non è l’unico dato a segnare variazioni significative. Quello del tempo indeterminato è infatti l’unica tipologia che nel corso di questi anni si è trovata a diminuire, mentre tutte le altre tipologie contrattuali mostrando decisi tassi di crescita. Abbiamo infatti, oltre alla crescita di circa 1 milione di occupati a tempo determinato, la crescita dei tirocini che in appena tre anni quasi raddoppiano passando dai circa 180 mila del 2008 ai quasi 350 mila del 2015. Clamorosa e già tristemente nota è l’esplosione del voucher, che passa dai 28 mila prestatori nel 2008 ai quasi 1 milione e mezzo del 2015, complice non solo la spinta della crisi, ma anche la scelta di governi di destra e di sinistra di estendere progressivamente il dispositivo del lavoro accessorio all’interno del mercato del lavoro. A crescere, infine, sono anche i lavoratori autonomi, un settore sul quale viene esercitata una pressione non solo da una trasformazione del lavoro che dura da oltre 20 anni, fotografata ai suoi esordi dal ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ (Bologna & Fumagalli, 1997) nel 1997; sia da parte di fenomeni come la gig economy, che, come affermato dallo studio rilasciato da McKinsey lo scorso autunno, stanno contribuendo ad incrementare il dato del lavoro autonomo trasversalmente in tutti i paesi occidentali.
Tab. 1 – Variazioni tipologie contrattuali (valori assoluti in 1.000)
 
Fonte: Istat, Inps e Ministero dell’economia, elaborazioni Marrone
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: esiste un filo rosso che attraversa queste forme di impiego? Vi è una logica rintracciabile in ognuno di questi istituti in grado di spiegare perché i datori di lavoro nostrani guardano a queste forme di impiego con sempre maggiore interesse?
Sicuramente, una delle ragioni ha a che fare con la riduzione del costo del lavoro, sia per quanto riguarda istituti quali i tirocini, dove la sovrapposizione tra le attività lavorative svolte dai tirocinanti e l’obiettivo formativo dell’istituto legittima un drastico abbassamento dei costi del lavoro; sia per quanto riguarda altre forme come i voucher o l’utilizzo del lavoro autonomo, che consentono ai datori di lavoro di retribuire soltanto il lavoro effettivamente svolto senza farsi più carico dei bisogni riproduttivi del lavoro.
La volontà di ridurre il costo del lavoro non è però l’unica prospettiva possibile. Come sottolinea la copiosa letteratura che in questi anni ha messo sotto analisi le strategie aziendali nel contesto della produzione globale, persino la corsa all’outsourcing non corrisponde a semplice logiche economiche, piuttosto per: “evitare di adempiere ai propri obblighi di datore di lavoro” (Chen, 2006, p. 11). In altre parole, sembra che la ragione che ha spinto sempre più aziende a ricorrere all’utilizzo di forme di lavoro ‘informale’ sia la volontà di procedere verso una sorta di esternalizzazione all’interno dello stesso luogo di lavoro, come ci ricorda Sassen (1994), particolarmente preziosa per quelle attività come la ristorazione o il commercio che non possono delocalizzare la produzione. I datori di lavoro ricorrono così a questi istituti per ottenere lavoro senza riconoscere loro l’essere all’interno di un rapporto di lavoro, deresponsabilizzandosi nei confronti dei lavoratori, con tutto ciò che questo comporta sia all’interno del luogo di lavoro, in termini di esposizione ad una subordinazione senza più limiti e diritti, sia al di fuori di esso.
  1. Le politiche del lavoro all’insegna del neo-liberismo a bassa intensità.

Nonostante questo processo si presenti nei fatti in una scala globale, le forme che esso assume si inseriscono all’interno di solchi caratterizzati da specificità territoriali che incorporano e indirizzano tali trasformazioni. Questa lettura, di cui una delle migliori sintesi è rappresentata dal lavoro condotto da Barbera, Dagnes, Salento et al. (2016) caratterizza, infatti, la modalità in cui sono state introdotte 35 anni di riforme neo-liberali all’interno del nostro paese. In modo trasversale agli ambiti di intervento, dalle privatizzazioni, alle riforme del lavoro, le retoriche che hanno accompagnato le riforme non hanno mai assunto esplicitamente il frame-work neo-liberale, ma essa è stata sostituita da altra narrazioni, in primis quella ‘storica’ del ritardo economico dell’Italia nei confronti del mercato globale e, soprattutto, continentale.
Tale configurazione, però, non sarebbe stata possibile senza una flessione dello Stato verso la promozione e la difesa degli interessi economici, dismettendo così il ruolo di garante del patto tra capitale e lavoro egemone nel trentennio dal ’45 al ’75. Ciò che ci interessa mettere a fuoco qui, però, è come le politiche del lavoro degli ultimi 30 anni abbiano giocato un ruolo decisivo nel processo di una progressiva informalizzazione del lavoro e del suo impoverimento. Tanto i tirocini, quanto i voucher, infatti, sono stati oggetto di politiche pubbliche che mentre da un lato si proclamavano rivolte ad incrementare l’occupazione, dall’altro incastravano milioni di individui in una trappola di continui ‘lavoretti’ svolti in attesa dell’arrivo di un lavoro ‘vero’. Parallelamente al neo-liberismo a bassa intensità, inoltre, ha insistito su questo processo l’impatto delle nuove tecnologie che, come ci ricorda Marx, funzionano da ‘evidenziatore dei rapporti sociali’, accelerando così le tendenze predatorie di un capitalismo sempre più intenzionato a sottrarsi da una responsabilità legale e sociale, moltiplicando la condizione di lavoratori esclusi dal riconoscimento del rapporto di lavoro anche nelle frontiere della gig economy.
Tuttavia, la particolarità italiana sembra situarsi proprio nella torsione subita dagli ingenti investimento di risorse pubbliche, a partire da strumenti come la garanzia giovani , o il servizio civile, sino alla sua estensione nei circoli della formazione attraverso l’alternanza scuola-lavoro.
L’idea della piena occupazione come valore in sè (spesso sacrificando anche la dimensione qualitativa), l’idea che la disoccupazione sia il frutto di scelte formative sbagliate o di comportamenti individuali che necessitano di essere corretti, l’idea di un welfare ‘attivo’ che scoraggi la dipendenza dai sussidi pubblici, si trovano quindi a determinare un paradosso[1]. Il risultato di queste politiche non è stata infatti la riduzione del numero dei disoccupati, che, come evidenziato in tabella 2 al contrario è quasi duplicato (a fronte di variazioni molto meno significative tra gli occupati e gli inattivi), ma l’effetto di una sorta di sabbie mobili dove più si tenta di sfuggire all’orizzonte della precarietà, più ci si ritrova a sprofondare in posizioni lavorative prive di diritti e, spesso, anche di salario. I disoccupati, infatti, non sono coloro privi di un lavoro, ma coloro che ne sono alla ricerca e, a comporre questa categoria, sono sempre di più coloro che pur lavorando non accedono né a un reddito sufficiente a soddisfare i propri bisogni, né ad un lavoro in grado di realizzare le proprie aspirazioni di vita.
Tab. 2 – Occupati, Disoccupati e Inattivi (popolazione con almeno 15 anni)


Fonte: Istat, elaborazioni Marrone

3. Reddito come strumento per contrastare il lavoro povero

Il dibattito intorno all’introduzione di misure di sostegno a reddito, pertanto, si è evoluto sempre più in questa direzione, inserendosi nella strettoia politiche del lavoro neo-liberiste, appena illustrate, e le politiche di welfare to work incentivate dall’Unione Europea attraverso i fondi FSE. Il risultato di questa strettoia ha determinato negli ultimi tre anni una produzione legislativa regionale caratterizzata da forme di reddito estremamente condizionate, non al lavoro (inteso come processo formativo di reinserimento nel mondo del lavoro), ma all’adesione a progetti individuali coordinati dai servizi sociali o a forme di tirocinio, segnando un’inversione di tendenza rispetto ad alcune leggi regionali approvate in passato (es. l. r. 4/2009 del Lazio) oppure alcune proposte di legge (d.l. 1670 proposto da Sel). La tendenza verso queste forme di condizionalità caratterizza anche le ultime produzioni legislative a livello nazionale, in particolare il recente REI (reddito di inclusione) di cui si attendono i decreti attuativi.
Qualcuno ha scritto: “Cosa c’è di male? Sono forme di reinserimento del beneficiario nella comunità” in altri termini “una restituzione di dignità attraverso una qualche forma di attività”.
Questa obiezione, in realtà però, ha senso solo in una visione della povertà come espressione di disagio sociale, problemi legati alla salute mentale o a forme di inabilità sociale. Le nuove forme di povertà, però, sono sempre più il riflesso di quel combinato tra stati di disoccupazione e prestazioni lavorative rese al di fuori dei tradizionali schemi contrattuali e dunque estranee ai sistemi di tutela del lavoro vigenti (lavori indecenti e poveri) illustrato in precedenza. Per tali ragioni una condizionalità, legata a progetti di presa in carico dei servizi sociali o di tirocini, o di lavori socialmente utili, che non tenga conto della “congruità” e quindi della storia del beneficiario (delle sue skills e conoscenze), potrebbe essere lesiva della libertà di scelta dell’individuo. Allo stesso modo l’obiezione “serve una controprestazione ad un’erogazione in denaro”, sembrerebbe non tener conto della diversa natura del reddito e del salario: il primo rientra negli strumenti di welfare, pagati dalla fiscalità generale, mentre il secondo è la remunerazione che deriva dalla prestazione lavorativa. In un contesto di sostituzione progressiva del lavoro salariato con forme di lavoro povero, una misura di reddito, condizionata allo svolgimento di attività paralavorative, probabilmente aumenterebbe la produzione di lavoro indecente, invece che interromperla. Per questo il reddito minimo (e a maggior ragione il reddito di cittadinanza) sono un’altra cosa. Non sono strumenti pensati per impiegare le persone “pur di far fare loro qualcosa”, sono strumenti pensati affinché ciascuna persona sia guidata e supportata nelle sue scelte, sia quelle produttive (di lavoro e di ricerca di lavoro), sia quelle relative al tempo liberato dal lavoro, senza l’assillo del bisogno (Bronzini 2016); in altre parole uno strumento di autodeterminazione e di redistribuzione, in una fase caratterizzata da un aumento delle disuguaglianze sociali.
Se si accetta questa visione, allora, il reddito può essere uno strumento per una battaglia di liberazione dai lavori poveri, sfruttati, mal pagati e gratuiti (Leonardi, Pisani, 2017), verso una società in cui sia possibile lavorare meno e lavorare meglio, in un più ampio sforzo garantistico delle capacità individuali, e della garanzia di un tempo sottratto al mercato da impiegare per altre attività (Fumagalli, Morini 2010), non per forza nel consumo come dicono in diversi, ma ad esempio nella cura degli affetti (attività che continua a gravare prevalentemente sulle donne). In quest’ottica, quindi, sì, il reddito si contrappone al lavoro, ma al lavoro indecente e sfruttato che sta diventando non l’eccezione, ma il paradigma che la nostra generazione (e quelle future) sono (e saranno) costrette ad accettare come unico possibile.

Conclusioni.

Benchè “la fine del lavoro” non sembri davvero vicina, è evidente come questi anni di crisi abbiano radicalmente trasformato il modo in cui si lavoro. Tuttavia, questo non riguarda soltanto l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali, ma le trasformazioni in atto sembrano approfondire le tendenze di un capitalismo che ha esteso sempre di più le sue dinamiche di accumulazione. In questo scenario, limitare l’analisi e la proposta politica al problema della creazione di posti di lavoro risulta una vera e propria semplificazione che non tiene in considerazione la moltiplicazione del lavoro al di fuori delle dimensioni formali che abbiamo conosciuto sino ad oggi. Se c’è un elemento del voucher che è necessario non limitare alla sua natura è proprio il tentativo da parte del capitale di sottrarsi da quei vincoli di reciproci obblighi e prerogative che lo legava al lavoro. La sua esplosione ha infatti messo a nudo processi che da tempo si consumavano all’ombra dell’economia formale, rendendo noto come a mancare non sia tanto il lavoro, ma la voglia di retribuirlo e, soprattutto, di retribuirlo adeguatamente.
A rendere possibile questo processo vi è l’egemonia di un pensiero che non tollera altro modo di pensare il lavoro se non in funzione delle esigenze produttive, annichilendo invece la prospettiva di un lavoro che, in quanto cardine della cittadinanza, sia compatibile con le esigenze di vita sia nel luogo di lavoro, sia al di fuori di esso. L’impatto del neo-liberismo a bassa intensità emerge dunque anzitutto nella nozione a-critica del lavoro che la razionalità neo-liberale ha imposto, è questo infatti l’altro lato della medaglia del ‘un lavoretto (che sia in voucher, tirocinio, o altro) è sempre meglio di niente’e risulta quasi “inaccettabile” rifiutarlo.
Riprendere il tema del reddito (a cominciare da un reddito minimo), senza forme di condizionalità legate ad attività para lavorative, che consenta di sottrarsi ai ricatti dell’economia dei lavoretti ci sembra non solo non essere in contrasto con il lavoro, ma sempre più necessario, per far tornare questo ad essere un veicolo di cittadinanza piena. Per milioni di giovani nel nostro paese, infatti, non esiste alcuna alternativa alla costante precarizzazione, al di fuori del welfare familiare, peraltro pesantemente colpito da quasi un decennio di crisi, facendo del lavoro povero un vero e proprio cancro in espansione nella nostra società. Reddito minimo garantito deve tornare a significare garantire a ciascuno la possibilità di una vita degna al di fuori del suo ruolo nel mercato, perché non tutto il lavoro è dignità, ma solo quello dignitosamente retribuito.
*Marco Marrone è dottorando all’Università di Bologna.
Elena Monticelli è dottoranda all’Università La Sapienza di Roma.
[2] I dati sul tirocini sono limitati ai tirocini post-curriculari e sono disponibili soltanto a partire dal 2012
[3] I dati sui voucher sono stati elaborati a partire dal database Inps

Il governo stanzia 10 miliardi alla Difesa. - Giulio Marcon

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Un decreto della presidenza del consiglio ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni. Ma il 22% del totale verranno destinati al Ministero della Difesa. Circa 10 miliardi di euro sottratti a investimenti e sviluppo infrastrutturale che verranno utilizzati per produrre carri da combattimento e elicotteri da attacco.
Oggi, 14 giugno, se non fosse stata messa la fiducia sulla riforma del processo penale la Commissione Bilancio della Camera si sarebbe dovuta occupare di un decreto della presidenza del consiglio che ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni, di cui 10 ai sistemi d’arma e agli interventi militari. Se ne parlerà domani o la prossima settimana.
Di che si tratta? L’ultima legge di bilancio (al comma 140) stabiliva un piano di investimenti (46 miliardi) da qui al 2032 su vari assi: trasporti, ricerca, periferie, difesa del suolo, lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, bonifiche, informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria, ecc. ecc. Di difesa e armi non si parlava nella legge di bilancio, anche se tra le priorità venivano citate le “attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni”, che vuol dire tutto e niente.
Nella tabella del decreto in distribuzione scopriamo che 9.988.550.001 (in pratica 10 miliardi, il 22% del totale) saranno destinati al ministero della difesa. Ma le spese militari non erano inserite tra le priorità del comma 140 della legge di bilancio. Per cosa serviranno questi 10 miliardi? Come ricorda Milex saranno usati per circa la metà dell’importo (5,3 miliardi) per produrre carri da combattimento Freccia e Centauro 2, le fregate Fremm, gli elicotteri da attacco Mangusta e tanto altro ancora. Soldi che serviranno a realizzare (ben 2,6 miliardi) anche il “Pentagono de noantri” (un mega centro servizi e comandi) nel quartiere periferico di Centocelle, a Roma. L’aspetto ridicolo e paradossale è che questa spesa di 2,6 miliardi per il Pentagono nostrano viene inserita sotto il titolo del paragrafo del decreto: “edilizia pubblica, compresa quella scolastica”. Scolastica?
Due riflessioni. La prima: un fondo di 46 miliardi per “assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastruttale del paese” cede il 22% della sua dote al Ministero della Difesa per fare carri armati ed elicotteri di combattimento e centri comandi. Che c’entra? Una scorrettezza politica e formale grande come una casa. Secondo: si sacrificano gli investimenti civili a quelli militari. Mentre si destinano 10 miliardi alle armi, si concedono in questo piano pluriennale solo 500 milioni agli interventi in campo ambientale, meno di 600 ai beni culturali e 287 (sempre milioni) alla salute. E allo “sviluppo economico” (ci si aspetterebbe la fetta di torta più grande) vengono dati 3,5 miliardi di euro, appena poco più di 1/3 di quanto si destina a contraeree e fregate.
Nonostante le lamentele della ministra Pinotti e delle gerarchie militari, al ministero della Difesa arrivano sempre tanti, troppi soldi.
Ma il paese ha bisogno di lavoro, non di carri armati.

venerdì 16 giugno 2017

M5s, Marco Travaglio e gli Smooth Collies. - Rosanna Spadini



Mentre i giornalai di regime, guardiani e ballerine del sistema si stanno affannando sui vari network per  dimostrare che il M5S è sull’orlo di una voragine suicida, vorrei valermi di un interessante articolo di Claudio Messora, che conduce un confronto ben documentato sui dati delle ultime amministrative rispetto a quelle precedenti del 2012, nella giusta convinzione che l’unico confronto ammissibile lo si possa fare solo tra categorie affini, quindi comunali con comunali, regionali con regionali,  politiche con politiche e via di seguito.
Le elezioni politiche nazionali sono davvero tutt’altra cosa e qualunque confronto sembra essere un pastrocchio senza né capo né coda. Sarebbe sbagliato procedere con confronti diversificati, per impostare una qualunque analisi predittiva sulle future elezioni politiche e quindi sul successo più o meno prevedibile  delle rispettive rappresentanze.
Le elezioni comunali sono sicuramente designazioni diverse rispetto alle politiche, perché investono un vissuto più diretto, legami di conoscenza ed amicizia,  da cui è difficile sganciarsi completamente. Per di più succede che in tempi grami come questi, le forze politiche mainstream, responsabili di tutti i guasti del Paese, si siano presentate dietro le foglie di fico delle liste civiche e sparite completamente dalla cartellonistica elettorale, si siano camuffate dietro le facce sorridenti dei politici locali, per oscurare i disastri sociali prodotti dalle loro scelte scriteriate e asservite ai poteri forti.
Vere e proprie ammucchiate che celano i complessi rapporti di forza e di potere, esistenti fuori dai palcoscenici mediatici. Così i volti cambiano, ma il sistema resta sempre uguale, ed è abilissimo nell’arte dell’illusione ottica ad libitum, per cui gli onesti ma distratti cittadini, credono di votare una precisa persona e invece votano un ben preciso sistema di potere. Norma consueta e abbastanza comprensibile, finché non si finisce di votare un inquisito, come a Trapani dove col 32% è Girolamo Fazio, ex berlusconiano, ai domiciliari per tangenti.
Delle 1004 amministrazioni comunali quasi 850 saranno guidate da liste civiche, ma gratta gratta, almeno un terzo di quelle liste sono maschere veneziane dietro le quali si nascondono i principali partiti italiani, tra nomi originali e coalizioni immaginose. Questo è il sistema neoliberista, che permette la candidatura di indagati e che si serve di politici ricattabili, proprio per drenare finanze pubbliche a vantaggio del privato.
Quindi le falsificazioni mediatiche predittive servono appunto a gettare fumo negli occhi dei poveri spettatori ingenui, che si fidano ciecamente di tutte le fake news presenti sui monitor tv, che invece distribuiscono una lettura dei dati completamente manipolata.
E allora vediamoli, questi dati. Come dice Messora, che si limita a considerare solo i 25 comuni presi in considerazione anche dal Corriere della Sera nel suo riassunto generale, che pure non ha esitato a scrivere di un M5S sconfitto, mentre altrove sui media si è parlato a cuor leggero di débâcle, di “Movimento che si sgonfia” e così via.
“Innanzitutto balza all’occhio che a Genova, rispetto alla tornata del 2012, il M5S ha guadagnato 4 punti percentuali, mentre il PD ne ha persi 4. E questo nonostante il 4,87 del fuoriuscito Paolo Putti e l’1,08 di Marika Cassimatis che, insieme, si può ben ritenere abbiano portato via un buon 6% dai risultati dei Cinque Stelle, che senza tutti i mal di pancia avrebbero avuto dunque un potenziale di crescita del 10%, e non solo del 4%, che comunque rappresenta pur sempre una crescita, in una situazione di oggettiva difficoltà. I giornali avrebbero dovuto titolare dunque M5S tiene a Genova, nonostante le divisioni, invece di inventarsi che Grillo aveva perso Genova, quando non l’aveva mai avuta.”
A Palermo, altra città portata ad esempio come catastrofe generale, in realtà il Movimento 5 Stelle aumenta i propri consensi del 12%, e comunque 5 consiglieri entrano in consiglio, mentre il Pd si è dovuto sciogliere in un’altra formazione che complessivamente ha preso l’8,41%, dunque singolarmente ha sicuramente preso ancora meno! A Trapani realizza un più 16,75% secco, visto che alla tornata precedente manco si era presentato. Anche a Taranto va oltre il 10% di crescita. E poi via via, Oristano, Asti, Catanzaro, Frosinone… La realtà è che quello che i numeri dicono è che in 20 grandi comuni su 25 M5S ha fatto o strepitosamente meglio, o molto meglio, o comunque sempre meglio del PDEppure nessuno parla del disastro del Partito Democratico, che in molti dei grandi comuni subisce emorragie di voti del 10% e oltre, fino all’11,45% di Padova e all’11,90% di La Spezia.”
Questo è l’elenco dei fallimenti del Pd:
Taranto: 16% nel 2012 – 11,8% oggi (persi 4800 voti)
Lecce: 10,6% nel 2012 – 8,5% oggi (persi persi 1300 voti)
Asti: 18,8% nel 2012 – 9,6% oggi (persi 2900 voti)
Padova: 24,9% nel 2014 – 13,5% oggi (persi 14000 voti)
Lodi: 23,2% nel 2013 – 15,9% oggi (persi 1200 voti)
Piacenza: 26,6% nel 2012 – 18,5% oggi (persi 3600 voti)
Genova: 23,9% nel 2012 – 19,8% oggi (persi 8000 voti)
Pistoia: 33,7% nel 2012 – 23,2% oggi (persi 3800 voti)
Carrara: 27,2% nel 2012 – 13,6% oggi (persi 4300 voti)
Parma: 25,1% nel 2012 – 14,8% oggi (persi 7000 voti)
La Spezia: 27,2% nel 2012 – 15,3% oggi (persi 4300 voti)
Gorizia: 17,1% nel 2012 – 8,7% oggi (persi 1400 voti)
Belluno: 18,6% nel 2012 – 10,2% oggi (persi 1300 voti)
 
Quindi in tutte le città dove il M5S perde consensi (9 su 25) li perde anche il PD, tranne Cuneo e Monza, dove il differenziale del PD rispetto al M5S, nel confronto con il 2012, sale al 12,68% e al 7,50%. Poi c’è Parma, l’unica grande débâcle del Movimento 5 Stelle in senso assoluto, anche se largamente annunciata: il M5S perde il 16,72% dei consensi ma anche il PD ne perde il 10,32%. In tutte le altre città (tutte) il Movimento 5 Stelle cresce, e solo in due delle venti città rimanenti cresce leggermente meno del PD, mentre nelle altre lo distrugge in senso letterale, arrivando a differenziali di oltre il 16%.
Nonostante queste premesse statistiche però la cose non sono state per nulla pacifiche, e il vero problema che emerge è che a fronte di un consenso del 31% e oltre a livello nazionale, il Movimento non sia riuscito molto spesso a presentare una lista, per litigi interni tra i vari meet up, oppure anche per la scelta di candidati sbagliati. Ma parlare di “scelta” può essere un eufemismo, la verità è un’altra, le candidature nascono spontaneamente dal territorio, che quasi sempre è percorso da attriti anche piuttosto contrastanti, che minano alla radice non solo rapporti interpersonali decenti, ma impediscono di attivare strategie efficaci e produttive.
Solo successivamente la certificazione da parte dello staff decreta la proposta alla candidatura, e magari può anche sbagliare soggetto, per la scelta di un candidato che non rappresenta onestamente i valori del MoV, oppure non riesce ad interpretare veramente la sua base elettorale, che nelle amministrative si riduce ulteriormente, per consensi empatici politici puramente locali. Quindi le cause che possono condizionare negativamente gli esiti elettorali delle comunali sono tante e diverse:
  1. Candidatura sbagliata
  2. Mancato radicamento nel territorio
  3. Mancanza di rapporti costanti con associazioni di categoria
  4. Mancanza di una base di attivisti
  5. Mancanza di finanziamenti
  6. Capacità da parte del gruppo di interpretare le istanze della città
  7. Capacità di creare eventi che possano colpire nel vivo i bisogni sociali
  8. Capacità di condurre una campagna elettorale efficace
  9. Sostegno da parte dei media
  10. Limite delle due candidature
Forse è particolarmente difficile attivare un efficace radicamento sul territorio, però sembra che il M5S non sia particolarmente interessato a costruirlo in maniera consistente. Probabile non riesca ad organizzarsi in questo senso, forse perché questo presuppone un attivismo ben pianificato e la trasformazione da movimento a partito. Le certificazioni alle candidature arrivano troppo tardi (due mesi prima circa) rispetto all’evento elettorale. Fatto sta che il MoV sembra rifuggire dal radicamento sul territorio, quasi volesse preservare la propria duttilità organizzativa, l’egemonia del web e della piazza sulle tv, la concezione nuova di una politica concepita come servizio al cittadino, l’interscambio dei soggetti politici intesi come portavoce del programma.
Presupposti che hanno fatto certamente la differenza tra il MoV e i partiti della casta, ma che comunque ora arrivano a confliggere con le esigenze dell’attuale spettacolarizzazione della politica e della personalizzazione del premierato, ma soprattutto con il prossimo obiettivo strategico della conquista del governo nazionale.
Il concetto slogan di  “uno vale uno” si trova ora smentito dall’esigenza di una struttura più organizzata, che possa privilegiare e preservare nel tempo qualità e competenze dei singoli soggetti, in modo da poter costituire una gerarchia di controllo sulle strategie  politiche territoriali.
E poi «Serve una riflessione nel M5s, anche sul doppio mandato» dice Massimo Bugani, capogruppo del M5s a Bologna «I casi di Roma e Torino sono particolari e ci hanno molto illusi, ma la verità è che il Movimento localmente è spesso tagliato fuori se destra e sinistra non si dividono. Ora dobbiamo fare una riflessione. E visto che si avvicinano le elezioni politiche dobbiamo riflettere sulla regola del doppio mandato. Un vincolo che ha fatto da freno a molti. C’è chi non si è ricandidato, ad esempio è successo a Mira con il sindaco uscente Alvise Maniero. E’ rimasto fuori da queste amministrative per giocarsi una chance in parlamento”.
Per di più la macchina del fango ha fatto credere agli italiani che Roma è malgovernata, ha ordito un vero e proprio linciaggio mediatico contro Virginia Raggi per lunghi mesi, e la disinformazione pilotata domina ancora oggi l’informazione. Il Vespone brufoloso di Porta a Porta ha mostrato un’immagine di Roma invasa dai rifiuti, peccato non fosse recente, ma risalisse al 2014, periodo della giunta Marino.
E infine anche il grande Travaglio, onnipresente sulle tv e sui vari talk show, ospite fisso di madame Bilderberg a Otto e mezzo, si affanna a rimarcare che i 5 Stelle si starebbero suicidando, avrebbero risuscitato il ripugnante bipolarismo centrodestra-centrosinistra, con particolare riguardo per il duo Berlusconi – Salvini.
E poi fa un panegirico del sindaco di Parma Pizzarotti, dicendo testuali parole che «Non ruba, governa benino, fa quel che può e annuncia solo quel poco che fa, sottovoce. È anche un gran rompicoglioni, refrattario agli ordini di scuderia. Tenerselo stretto e coprirlo di attenzioni, oltre a levargli ogni alibi per la fuga, sarebbe la migliore smentita ai detrattori che dipingono il Movimento come una caserma agli ordini di Grillo & Casaleggio».
Forse al grande Travaglio è sfuggito qualche particolare sulla vicenda di Parma, quisquiglie molto significative, che non è il caso di riproporre, visto che le ho ripetute diverse volte, così come trascura il problema euro ed Europa, sta di fatto che sempre più spesso sta prendendo lucciole per lanterne, e scambia un politico perfettamente integrato nel  sistema, con un innocente e innocuo buon amministratore (del potere).
Non si è nemmeno  accorto che i fallimenti del Pd sono la notizia più evidente di queste elezioni amministrative, taciuta però costantemente anche da quasi tutti i media. Il partito di Matteo Renzi ha perso in tutta Italia. Lo dicono i numeri, quei numeri che i giornalai al servizio del potere usano ad libitum.
Forse i soci industriali del Fatto (Chiarelettere, il gruppo Gems, Francesco Aliberti e l’imprenditore Luca D’Aprile) non lo consentono?
O forse è proprio Cinzia Monteverdi che ha troppe pretese, la manager azionista che è amministratore delegato e presidente anche della Zerostudio’s, la società di Michele Santoro che produce Servizio Pubblico in cui Il Fatto Quotidiano ha investito.
La regia della nuova situazione dunque è affidata a Monteverdi che, pur senza aver mai diretto alcuna società vagamente paragonabile a Il Fatto Quotidiano (una trentina di milioni di fatturato) è il terminale di tutti i nuovi equilibri societari. Del resto basta osservare le frequentazioni della signora e tutto appare chiaro … insomma un nome una garanzia, anzi una foto una garanzia.
Dunque come ribaltare la dittatura politico mediatica dominante in Italia, se anche coloro che dovrebbero fare da Rottweiler in realtà si sono trasformati in placidi Smooth Collies?