giovedì 17 marzo 2011

Italia 150: Berlusconi esce dal retro per evitare i fischi. E’ l’immagine di un premier in fuga.




Silvio Berlusconi
ha lasciato la basilica di Santa Maria degli Angeli passando dalla sacrestia anziché dal portone principale (unico caso tra le alte cariche dello Stato presenti) per paura di nuove contestazioni. La scena che si è consumata al termine della cerimonia religiosa officiata dal cardinale Angelo Bagnasco in omaggio al 150° anniversario dell’Unità, consegna all’Italia l’immagine di un premier in fuga. Non solo per le bordate di fischi ricevute questa mattina al Gianicolo e, poche ore dopo, al suo ingresso nella basilica che si affaccia su piazza Repubblica.

Sono molti i segnali che nelle ultime ore hanno fatto capire al Cavaliere di non rappresentare più la maggioranza del Paese. Segnali politici, come l’estrema difficoltà di organizzare il rimpasto di Governo accontentando tutte le componenti che chiedono poltrone in cambio di un sostegno decisivo alla maggioranza. Segnali istituzionali, direttamente collegati alla questione rimpasto, conNapolitano che ieri ha di fatto bloccato la nomina a ministro del “Responsabile” Saverio Romano, stoppando così i piani del premier e del Pdl. Elementi che esortano il capo del governo a evitare esposizioni mediatiche in un momento politico così delicato. Prima conseguenza: marcia indietro sui processi. A una settimana da dichiarazioni inequivocabili sulla sua partecipazione ai procedimenti giudiziari (“sarò sempre presente, mi prenderò questa soddisfazione. E spiegherò agli italiani come stanno veramente le cose”), oggi gli avvocati Ghedini e Longo hanno chiesto di rinviare la prima udienza del processo Ruby, prevista per il 6 aprile: “Troppi atti da valutare, ci serve più tempo”.

Al di là delle strategie di immagine e di difesa, sono però i sondaggi, come sempre, il vero spauracchio che fa cambiare platealmente idea al premier: a partire dal nucleare. Con l’emergenza giapponese, si è improvvisamente impennato l’interesse degli italiani per il referendum del 12 giugno, che mette in gioco la linea del governo su questo tema. Le ultime rilevazioni dicono che il quorum verrebbe raggiunto, probabilmente con buone probabilità di bocciatura per il nuovo piano pro atomo dell’esecutivo. Il grattacapo per il premier, però, è doppio. Perché insieme al nucleare, gli italiani si dovranno esprimere sul legittimo impedimento, uno dei capisaldi della sua epopea “ad personam”. Un provvedimento la cui efficacia è già in parte disinnescata dal pronunciamento di gennaio della Corte costituzionale. Ma la bocciatura popolare suonerebbe come una sfiducia popolare a Berlusconi in persona. E allora sarebbe più difficile tenere insieme la maggioranza numerica risicata alla Camera. Così la parola d’ordine è far fallire i referendum.

Per abbassare l’interesse sul quesito nucleare, l’unica strada è accodarsi alla volontà popolare. Dopo giorni in cui, nonostante l’emergenza Fukushima, il governo italiano ha strenuamente difeso l’ipotesi di nuove centrali nucleari nel nostro Paese, proprio oggi da palazzo Grazioli è partito l’ordine di retromarcia su tutta la linea: “Cerchiamo di non alimentare polemiche – ha detto Berlusconi ai suoi – anche perché l’argomento potrebbe essere usato in modo strumentale in campagna elettorale alle amministrative”. L’idea è di scaricare la responsabilità sull’Unione europea: Berlusconi ha sottolineato la necessità di allinearsi a quanto verrà deciso in sede europea. “Decide l’Europa”, ha ribadito più volte. Subito il ministro Romani, uno dei “falchi” pro nucleare nel governo, ha parlato di “estrema prudenza necessaria” e di “necessità di una riflessione”.

Sondaggi sul nucleare, ma non solo: secondo l’ultima rilevazione citata dal premier nell’ufficio di presidenza del Pdl, il centrodestra è dato al 43%, il centrosinistra al 41%. E l’Udc al 6,3%. Ago della bilancia. Da qui la necessità di riconquistare Pierferdinando Casini: “Non sarà facile, forse per riuscirci dovremmo offrirgli la presidenza del Consiglio”, ha scherzato il Cavaliere. Poi bisognerà vedere se Bossi è della stessa idea. Insomma, anche in questo caso Berlusconi è pronto a tornare sui suoi passi. Per tutte queste ragioni, i fischi di oggi, per lui, più che una sorpresa, sono suonati come una conferma. Meglio passare dal retro e restare nell’ombra.



Berlusconi contestato alle celebrazioni per l'Unità d'Italia (17/03/2011)



La vera storia dell'unità d'Italia in 2' a cartoni animati



L'Italia è una repubblica di sana e robusta prostituzione.


Leggo sul blog di Beppe Grillo:

"Caro Beppe,
stasera nella mia città, come in tante altre, inizieranno i festeggiamenti per i 150 anni. Ma di cosa? Mi sono rifiutata di appendere la bandiera al balcone perché non credo che l'Italia esista davvero. Formalmente sì ma come popolo no. Siamo un branco di individualisti che si riconoscono come popolo giusto quando gioca la nazionale. Non ci indigniamo più per quello che la nostra classe dirigente fa e dice; l'importante è avere il carrello della spesa pieno e una bella televisione con abbonamento a Sky. Sono amareggiata perché dopo la laurea ho lavorato diversi anni come libera professionista coniugando lavoro e famiglia avendo messo al mondo un discreto numero di figli. Dopo una separazione molto controversa ho ripreso a lavorare fatturando ogni euro che incassavo ( e anche quelli che alcuni clienti non mi hanno mai pagato ). Non ho mai smesso di seguire i miei figli da vicino lottando con una scuola pubblica che fa acqua con insegnanti che non sanno parlare l'italiano e che mi costringevano ad un lavoro extra serale di assistenza nello studio per essere sicura che imparassero ad esprimersi nella lingua nazionale. Con tutto ciò ho sempre pagato le stesse tasse che paga un collega che non ha prole e magari vive con i genitori...... Morale della favola da alcuni mesi ho cambiato lavoro: ricevo uomini su appuntamento. Mi prostituisco insomma. Non potevo fare diversamente. Stavo per dare il giro ed ero stufa di arrivare a certi week end con i figli in casa, il frigo vuoto e venti euro nel portafoglio. Le ho provate tutte ma alla fine mi sono buttata in un lavoro che sicuramente permette guadagni notevoli e tempo libero da dedicare ai figli. E di pagare i debiti che inevitabilmente si sono accumulati nel corso degli anni. Non è facile ma almeno provo l'orgoglio di poter garantire il minimo indispensabile ai miei figli. Però il tricolore lo lascio appendere agli altri". Maria

***

La mia risposta, non pubblicata sul blog di Grillo, non so per quale motivo.

***

Quando leggo certe cose, prima di dare un giudizio, cerco di riflettere.

Il momento che stiamo attraversando è problematico sotto tanti punti di vista, non c'è dubbio, ma la sua, signora, mi sembra una resa più che una scelta.

Lei ha deciso di arrendersi, tutto qui.

Evidentemente, quello che guadagnava da libera professionista non le bastava, non le bastavano neanche i soldi che eventualmente le passava suo marito, perchè se le sono stati affidati i bambini, lei non specifica quanti, qualcosa deve pur riceverla.

Lei non specifica troppe cose, e ciò mi lascia scettica.

Le posso garantire che un lavoro lo avrebbe potuto trovare, se solo avesse avuto la pazienza e la volontà di farlo, magari facendo qualche sacrificio iniziale, le potrei portare esempi in tal senso.

Con quanto le sto dicendo non ho intenzione di condannarla, me ne guarderei bene, ognuno è padrone di fare ciò che vuole della propria vita, ma le chiedo solo di riflettere su ciò che il suo lavoro potrebbe provocare sull'educazione ed il futuro dei suoi figli.

Con questo la saluto, non mi piace chi si arrende.
Non la comprendo e non condivido la sua scelta.


mercoledì 16 marzo 2011

mattafix living darfur



NOSTALGIA DEL COLONIALISMO DEMO-CRISPINO. - di Giuseppe Melo




Una sola testimonianza d’ira della natura giapponese ha fatto più vittime di quanto registrato malgrado i clamori in Libia, a dimostrazione che non c’è paragone, malgrado la vanità umana, con la forza della natura. Dal Natale scorso, quando è cominciata la rivolta araba, in tutti i paesi coinvolti non ci sono stati tanti morti quanti in un solo giorno di tsunami in Giappone.
Decine di morti in Tunisia, 365 in Egitto, 400 in Libia, contro i 1135 a Minamisanriku e Miyagi, presso l’isola di Honshu. Il gusto però per l’horror catastrofico, implementato da lustri di film dell’orrore Scream ha indicato subito diecimila morti nipponici, per non parlare dei rischi di contaminazione nucleare su cui si sono lanciati come avvoltoi i profeti televisivi e politici naturistici.
Si fronteggiano così in serrate schiere gli epigoni del disastro nucleare da un lato e quelli della tragedia dell’esodo milionario immigratorio dall’altro. Tanto basterebbe per derubricare l’attendibilità dell’informazione odierna, indistinguibile dallo show. Giorno dopo giorno, titolo dopo titolo, i diecimila, i centomila, i milioni di manifestanti, ammazzati, bombardati, approdati, dispersi, contaminati appaiono declamati, agitati per poi sciogliersi nel nulla, senza neanche una parola di scusa per l’inverosimile distanza tra l’annunciato ed il reale.
Tre centrali nucleari sono in pericolo, una è esplosa e mentre si trattiene il respiro, i contaminati sono sei di numero. Dissipati i fumi colorati dello show, appare disperante l’incapacità analitica dei giorni nostri. Intervistati sulle rivolte arabe, i capoccioni di Limes se ne escono con l’improcrastinabile voglia di democrazia dei giovani arabi.
Passate poche settimane, in Tunisia un militare ne sostituisce un altro, in Egitto l’esercito sospende quel poco di costituzionale che c’era, mentre i rivoltosi schiacciano le assemblee femminili; e sulla Libia si prospetta il più grosso flop diplomatico-informativo mai visto. Si conosce molto dell’Iran e del Pakistan, dell’Afghanistan, del Libano e di Gaza, aree monitorate a fondo dai servizi inglesi, americani ed israeliani che non si risparmiano nel divulgare le notizie dell’ultimo arresto o a fare la parafrasi interpretativa dell’ultimo discorso del capo dei pasaradan.
Invece sull’Africa araba, sul profondo Medio Oriente, territori così vicini, è buio profondo, non si conosce nulla. Le rivolte lasciano tutti di stucco e dopo mesi e mesi non hanno non un partito o un leader, ma neanche un volto o una voce. Per trovarne uno in Libia bisogna aspettare Abdul Fattah Younis, ex ministro degli interni e capo delle forze speciali di Gheddafi, passato con i ribelli solo a febbraio.
La russa Vimpelcom impegnata a comprare l’azienda algerino-egiziana Orascom, per concludere l’affare riempiendo di soldi il capitalista Sawiris, forza i partner norvegesi senza che gli eventi egiziani la facciano esitare. Il tunisino Tarak Ben Ammar, nipote di Habib Bourghiba, ieri link tra l’Olp di Arafat e Craxi, oggi con i fondi libici, gran partner cinematografico di Berlusconi, Gheddafi e Murdoch, da una vita membro del Cda di Mediobanca e da questa confermato nel prossimo rinnovo CdA di Telecom Italia, si esalta per le trasmissioni filo rivolta della sua nuova tv satellitare Nessma tv, ma non manca di elogiare gli sconfitti: “Ben Alì ha consolidato l’eredità di Bourghiba: l’emancipazione femminile, la laicizzazione della società, l’alfabetizzazione e la modernizzazione del paese, la creazione di una classe media.
Avrebbe dovuto sapere che gran parte dei giovani laureati non avrebbe trovato lavoro. Come dire, ha fatto troppo bene. Tarak fa il Celli della situazione: spara, esaltandola, su una classe dirigente di cui fa parte. Tres arabe, tres italienne….Ogni dieci anni c’è una rivolta in Tunisia e terreni limitrofi: una Bourghiba, amico dell’Asse, la schiacciò, la seconda lo travolse portando Ben Alì al potere nell’unica operazione riuscita ai servizi italiani.
Ai commentatori le idee vengono una dietro l’altra: è un ’89? è un ’68? O un 1848? Sui già apprezzati autocrati filoccidentali si scatenano condanne meschine; si fanno le pulci ad una corruzione che è planetaria, a partire dall’Onu. Con gran tempismo, però i Ben ali ed i Muraback, perso il potere, lasciano e la scena, morendo in pochi giorni; e la stabilità prossima ventura ringrazia.
Nel mondo arabo ci sono giovani disoccupati quanto da noi-il 24%: i giovani nordafricani under 25 sono però un 65% di 90 milioni e senza welfare. La loro crisi è fame; la più ampia comunicazione e emigrazione testimoniano loro l’abisso che li divide dal mondo ricco. Se come dice Tarak hanno studiato, capiscono anche è un destino segnato.
Nella storia del magma arabo -musulmano, riscatto e guida ad una trasformazione profonda possono venire dai paesi dotati di burocrazia statale solida come la Turchia, l’Iran ed un tempo l’Egitto, che non sembrano capaci, col petrolio o meno, di fare il salto di qualità puramente economico di cui i giovani hanno bisogno.
Anzi, le questioni nazionaliste e religiose non fanno altro che allontanarle dallo sviluppo senza democrazia dei Bric. I democratici che sentono sempre insufficiente lo stato di democrazia; hanno appioppato le loro fisime alle rivolte; tifando in particolare per quella libica che pure avevano sostenuto ai tempi del libretto verde e della politica filo terroristica del rais.
In controtendenza, i 6 milioni di libici, grazie al petrolio hanno dei redditi tali da potersi permettere immigrati. Quel che sta avvenendo in Libia, c’entra poco con le altre rivolte essendo un mero colpo di stato, probabilmente mosso da economia e finanza. Non il Bin Laden sventolato a Tripoli, ma gli Usa, storicamente avversi al regime libico sono i più interessati al cambio di regime.
Se Bush fu decisi con Saddam, Obama non può esserlo altrettanto con Gheddafi. Ora la comunità internazionale, a parte la Russia, dovrà gestire l’imbarazzo delle condanne morali e dei tribunali già pronti con un dittatore tornato in sella. Quella italiana dovrà risolvere la schizofrenia della destra filoUsa che parteggia per il dittatore e la sinistra che in puro odio al successo diplomatico del governo, si è fatta ostile al leader africano.
Il Berlusconi che lucido ed unico aveva sostenuto i russi nel conflitto georgiano, non si è ripetuto, troppo indebolito dalle campagne di stampa e dai processi incombenti, per Sirte e Cirenaica. Ed ora direbbe Gheddafi chiamami ancora amore. L’Italia che chiede aiuto, sembra inconscia che la Libia, malgrado i baciamano, è un suo protettorato economico e che chi ne organizza il colpo di stato lo fa per impiantarvi il suo.

Nei mesi futuri il filo Roma-Tripoli verrà ricucito a Mosca, cioè, secondo i democratici dalla padella nella brace. Questa però è la balance of power; questo lo stato del mondo arabo che fa, di qua e di là del Mediterraneo, rimpiangere l’interventismo democratico crispino, altrimenti detto, con i newcon, colonialismo.




Editoriale: La scienza è cultura. - di Enrico Bellone



La linea editoriale di «Le Scienze» è questa: la divulgazione non è fine a se stessa, ma è un mezzo per diffondere cultura. Non cultura scientifica. Cultura, senza aggettivi. E qui ci sono problemi di lunga data. Il maggiore dei quali poggia nell'opinione che esista un confine tra la cultura vera e propria e le scienze.
Della prima giustamente si dice che deve essere libera: l'artista, il romanziere e il filosofo ci aiutano infatti a capire il mondo umano dei valori, e la comprensione non ammette censure. I fisici, i chimici o i biologi, invece, non dovrebbero essere liberi. Li si dovrebbe sorvegliare e, quando è il caso, bloccare. Il loro modo di capire l'uomo e la natura potrebbe essere rovinoso. Per esempio, riducendo la persona umana a un grumo di materia evolutosi per caso. Una riduzione disumana, e lesiva dello spirito.
Faccio questo solo esempio perché, da qualche tempo, esso è al centro di molte discussioni. Che a volte vanno sopra le righe: su «L'Avvenire» si è arrivati, come già ricordato nell'editoriale di ottobre, a scrivere che Umberto Veronesi, in quanto accetta l'evoluzione, è un fautore del cannibalismo. Questo stato di cose induce non pochi osservatori a credere che la Chiesa di Roma sia l'unica fonte dell'immagine negativa della scienza. Ritengo che ciò non sia vero. Ritengo che stia anche nel mondo laico la matrice profonda di un atteggiamento negativo nei confronti delle scienze, viste come forme non di cultura libera, ma di inquinamento tecnico dell'uomo e della natura.
Il 13 febbraio trovo su «Il Foglio», certamente laico, un articolo di Giuseppe Sermonti che suggerisce di «insegnare Darwin nell'ora di religione», così da far comprendere ai giovani che «incombe il Crepuscolo degli dei, galoppano i cavalieri dell'Apocalisse».
Nulla di nuovo, direi. Nel proporre scenari energetici per il nostro paese, è di matrice laica la proposta di adottare i punti di vista di Jeremy Rifkin. In un libro del 2000, Entropia, Rifkin ci spiega che la seconda legge della termodinamica vale solo nel «regno orizzontale del tempo e dello spazio», ma «tace quando si arriva al regno verticale della trascendenza spirituale».
Per capire l'originalità di questa tesi Rifkin sostiene che dobbiamo respingere la «propaganda» (sic) razionalista di coloro che egli battezza «gli intossicatori» della vera cultura. Ne fa l'elenco: Bacone, Cartesio, Newton, Locke, Adam Smith e Darwin. Grazie a questo gruppo di intossicatori, «tutta la storia della razionalità umana è stata una storia in cui la mente delle persone si è allontanata sempre di più dalla realtà del mondo in cui sta vivendo». Sempre secondo Rifkin, si è anche allontanata da Dio, e oggi dobbiamo allora scegliere di abbandonare Newton e Darwin, poiché dobbiamo scegliere tra «servire Dio o rifiutarlo».
Date queste premesse, avremmo allora l'obbligo di puntare solo sulle umane fonti rinnovabili e respingere il disumano nucleare. Ebbene, viene dall'attuale sottosegretario laico all'Economia la tesi, perfettamente rifkiniana, secondo cui «l'età dell'atomo è finita». Non lo sapevo. So invece che le nazioni più moderne stanno ripensando, insieme alle rinnovabili, anche il nucleare, e si stanno trasformando in «società della conoscenza». Non conoscenza scientifica, ma conoscenza senza aggettivi. Ecco perché «Le Scienze» insiste sull'eredità positiva lasciataci da Galilei, Newton, Kant e Darwin. E nel dire, quindi, che la scienza è cultura.