Sindaci e governatori incandidabili se si dimostra che sono colpevoli.
In ossequio al principio del federalismo, il rischio default scende con metodo per i rami dell'amministrazione. Dallo Stato passa a tutti i livelli della res publica. E così nella mappa del dissesto finanziario ci finiscono proprio tutti. Le Region
i, con le magnifiche otto che hanno i conti in rosso per la sanità, dalla Sicilia al Piemonte. Le Province che quest'estate, dopo gli ultimi tagli, sostenevano di non poter riaprire nemmeno le scuole. E i Comuni naturalmente, la prima linea di quell'esercito di amministratori che il governo vuole richiamare alle sue responsabilità. «Più della metà sono in grande difficoltà di bilancio» dice Graziano Delrio che da sindaco di Reggio Emilia, presidente dell'Associazione dei comuni e - perché no? - da padre di nove figli, i conti è abituato a farli per benino. Una cosa gli sfugge, però. Dice che Parma è in una situazione di «dissesto vero e proprio», provocando la replica piccata del sindaco di quella città, Federico Pizzarotti. E, chi l'avrebbe detto, ma è proprio il botta e risposta tra un renziano (Delrio) e un grillino (Pizzarotti) a offrirci lo spunto per capire cosa intendiamo quando parliamo di dissesto finanziario. E quindi di incandidabilità per i responsabili, come vuole il decreto approvato giovedì dal governo.
Le città a rischio
Sono molti i Comuni italiani dove i bilanci faticano a stare in piedi: quello di Napoli si regge grazie a 3 miliardi di residui attivi, in gran parte vecchie multe che non sono state incassate e forse non lo saranno mai. Quello di Palermo è stato sfondato dai debiti delle società controllate. A Reggio Calabria non si capisce nemmeno quanto sia grande il buco mentre problemi seri sono venuti fuori a Foggia e Ancona. Sono tutte città dove le uscite hanno superato le entrate per anni e i nodi stanno venendo al pettine. Ma, tecnicamente, non si può parlare di dissesto finanziario. Sono in difficoltà ma non ancora fallite. E invece il dissesto è proprio quello che per un'azienda si chiama fallimento. Il sindaco si rende conto di non poter più pagare i debiti, alza la mano e chiede aiuto allo Stato.
Chi paga?
Fino a qualche anno fa era proprio lo Stato a coprire direttamente il buco, una procedura che poteva rendere il dissesto addirittura conveniente. Roma paga e via da capo: uno scherzo che negli anni ci è costato un miliardo e mezzo di euro. Capito l'inconveniente le regole sono state cambiate: chi dichiara il dissesto deve rialzarsi con le proprie gambe e se lo Stato concede un aiuto sotto forma di mutuo agevolato i soldi li deve tirare fuori il Comune. O meglio i suoi cittadini pagando nuove tasse. Il giochino non funzionava più. «L'inevitabile innalzamento della pressione fiscale - scrive la Corte dei conti nell'ultima relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali - ha reso sindaci e presidenti di provincia meno propensi a dichiarare lo stato di dissesto, rendendo più difficile un duraturo risanamento». E infatti. Da quando esiste la legge sul dissesto, era il 1989, i Comuni che hanno imboccato questa strada sono stati 461, con Calabria e Campania che coprono da sole la metà della torta. Ma dopo il boom dell'esordio, 125 casi solo il primo anno quando a pagare era Roma ladrona, i numeri sono scesi, crollati anche a un solo dissesto l'anno. E sono tornati a crescere solo con la crisi: 4 nel 2009, 8 nel 2010, 10 nel 2011, per il 2012 il dato è ancora parziale ma siamo fermi a 6.
37 in dissesto
In questo momento sono 37 i Comuni ancora in dissesto. La procedura di rientro, con l'aumento delle tasse locali come compito da fare a casa, dura cinque anni. L'ultima arrivata nel club è Alessandria che quest'estate ha spento l'aria condizionata negli uffici e ritirato i cellulari a tutti i dipendenti. È il secondo capoluogo di Provincia dopo Caserta, zona dove il dissesto si sente nell'aria visto che ci sono due comuni, Casal Di Principe e Roccamonfina, che l'hanno dichiarato due volte. Cosa rischiano tutti questi sindaci?
Incandidabili?
Dice il decreto del governo che non si può ricandidare chi è stato giudicato responsabile per il dissesto finanziario dell'ente che amministrava. In realtà la norma già c'era da un anno, il governo ha aggiunto una «multa» che può arrivare fino a venti volte lo stipendio guadagnato all'epoca dei fatti. E il suo valore si limita al deterrente. Per far scattare l'incandidabilità è necessaria la condanna della Corte dei conti, anche solo in primo grado, per dolo o colpa grave. Finora non è mai successo. Certo, diversi sindaci sono stati condannati a rimborsare un danno causato alle casse pubbliche. Ma il fatto non è mai stato legato al dissesto finanziario come dice il decreto del governo. Un esempio? L'ex sindaco di Catania Umberto Scapagnini è stato condannato dal tribunale in primo grado a due anni e nove mesi per aver truccato i bilanci del suo Comune. Così aveva evitato di dichiarare il dissesto, aspettando che il debito venisse ripianato dal governo Berlusconi con un assegno di 140 milioni. Scapagnini è ricandidabile.