venerdì 20 febbraio 2015

Cos’è il Brain Project di Obama. - Giulietto Chiesa

Sarà qualcosa di analogo al “Progetto Genoma” e produrrà frutti altrettanto copiosi di quelli che inondarono la genetica e le borse valori dell’Occidente. In un campo, tuttavia, del tutto diverso. Si chiamerà infatti “Brain Project” (Brain, per semplicità, per Brain Research Through Advancing Innovative Neurotechnologies) e dovrà produrre un gigantesco balzo in avanti della conoscenza del funzionamento del cervello umano, consentendo di vedere da vicino, dall’interno, come l’individuo percepisce il mondo esterno e quell’altro mondo che gli è proprio, il luogo dove confluiscono i miliardi e miliardi di informazioni che vengono dai miliardi e miliardi di cellule del corpo umano. Che è – quest’ultima parte – all’incirca il 98% di tutta l’attività cerebrale.
Il Brain si propone di sapere da dove nascono – e come – pensieri, sensazioni, sentimenti, ricordi. Fin dove si spinge la coscienza, dove sconfina nell’inconscio. Anzi, di più, cos’è la coscienza. E dove si trova.
Mai ci si era proposti un compito così immenso. Tanto che, con le idee e le tecnologie di ieri, lo si sarebbe definito, sic et simpliciter, impossibile.
Ma non finisce qui. Così sarebbe solo un esercizio calligrafico di bravura scientifica: qualcosa per confermare ancora una volta a noi stessi quanto siamo bravi a dominare la Natura, quanto siamo prometeici, quanto ci piacciono le sfide. No, nei tempi della fine dell’abbondanza, queste soddisfazioni costano – e possono rendere – assai. Non ci s’imbarca in un’avventura di queste dimensioni se non si pensa di poterne trarre un vantaggio. Tanti vantaggi. Il primo dei quali è immediatamente economico, sebbene ve ne siano molti, da sbandierare, e altri di cui è bene parlare sottovoce, almeno per il momento. Non è una corporation quella che si propone una tale cornucopia di obiettivi: è l’America in persona, quella che impugna la fiaccola della libertà. E’ lo Stato che ha dominato il XX secolo quello che rilancia la posta di una partita che non è più certo di poter vincere nel XXI. Certo, gli Stati Uniti, in quanto Stato, impersonano possenti interessi di dominio che non sono solo statuali. Ma sono questi interessi a dettare la rotta. Il Brain è il loro prolungamento. Forse un protrarsi fatale, vedremo.
Ma quello che appare evidente, fin da subito, è che si tratta di un progetto pazzescamente realizzabile. Qualcuno, assai bene informato, afferma che è già in fase di realizzazione, alla chetichella, da non poco tempo (James Martin, “The Meaning of the XXI Century”). Già decine di laboratori, negli Stati Uniti e altrove, sono impegnati a studiare il collegamento tra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale. Cioè a trasferire capacità umane  - come la visione, la comprensione dei linguaggi, gli stessi processi decisionali che caratterizzano il cervello umano – nelle “macchine di calcolo”. E viceversa.
Attenzione, perché il viceversa è proprio la novità del Brain: significa letteralmente trasferire nel cervello umano alcune delle capacità non umane di elaborazione di quantità sterminate di dati, e anche di trasferire almeno in parte, le velocità superumane di realizzazione di tali elaborazioni.  E l’idea di stabilire una connessione tra due intelligenze qualitativamente diverse, inconfrontabili, ma che hanno elementi basilari di funzionamento comuni. Tra questi, in primo luogo, il linguaggio binario. E’ qui che la tecnologia è l’elemento determinante. Prima non c’era, adesso c’è. Cosa ne verrà fuori non lo sa nessuno. Ci affacciamo su un altro abisso inesplorato, guardando il quale, dal luogo in cui ci troviamo, si possono intravvedere ombre inquietanti. Tant’è che lo stesso Obama si è sentito in bisogno – annunciando il progetto – di informare il pubblico che verrà istituita una qualche “commissione etica” con l’incarico di studiare le ripercussioni che una tale esplorazione potrà implicare. Sappiamo che le commissioni etiche hanno scarse munizioni a disposizione contro i possenti interessi di cui stiamo parlando. Dunque cerchiamo di restare nel campo del realismo. I rischi sono enormi.
Il Brain è dunque una vera e propria “nuova frontiera”, destinata in ogni caso a proiettare Barack Obama nella rosa dei presidenti americani che hanno fatto la storia del futuro. Eppure, quando il lancio è stato effettuato, nel marzo 2013, il clamore, curiosamente, è stato contenuto in poche righe. Il che c’induce a dare un’occhiata più ravvicinata alla faccenda, che vada oltre le poche cose fino ad ora rese note, e anche ai primi 100 milioni di dollari stanziati per il 2014. Com’era da attendersi, gli obiettivi che sono stati messi in primo piano concernono le potenziali – per altro gigantesche – applicazioni mediche. Tutte buone. Potremo affrontare la cura dell’Alzheimer, insieme a tutte le innumerevoli malattie mentali che hanno afflitto l’Uomo nella storia, più quelle nuove, che affliggono l’uomo contemporaneo occidentale e che occupano molti dei suoi pensieri: schizofrenia, autismo e così via. Il Brain ci libererà dunque da molti mali. Come non applaudire? Di fronte a queste virtù taumaturgiche addizionali tutte le altre faccende passano in secondo piano. Le affronteremo quando si presenteranno concretamente. Perché fasciarci la testa in anticipo? E’ un procedimento obliterativo assai simile a quello che accompagnò la creazione della prima bomba atomica. I vantaggi erano lì, visibili, sottomano. Come non approfittarne? Il principio di precauzione venne dopo, quando già Hiroshima e Nagasaki – indubbi vantaggi dell’epoca – si erano realizzati e avevano cambiato la storia del mondo. E, come sappiamo, ancora oggi il principio di precauzione funziona assai poco e male. Basta pensare a Fukushima. Eppure si va avanti a tutto gas.
Quanto sia il gas che sta cominciando a bruciare per avviare il Brain lo si intuisce sfogliando l’elenco dei soggetti principali che lo faranno muovere. C’è tutto il Gotha del Potere, della scienza, della forza: agenzie federali, a cominciare da quelle militari; fondazioni private; corporations; università; interi teams di neuro-scienziati e di nano-scienziati, e – non c’era dubbio – il Pentagono in prima persona, essendo a tutti nota la sua sollecitudine verso non solo la salute mentale degli americani ma quella di tutti i sette miliardi d’individui del pianeta Terra. I primi indirizzi sono già stati indicati: Istituto Nazionale per la Salute (Nhi),  l’Agenzia della Difesa per i progetti avanzati di ricerca (Darpa), La Fondazione Nazionale della scienza (Nsf), L’istituto di ricerche mediche Howard Hughes, l’Istituto Allen per la scienza del cervello. Il “dream team” che è stato formato per cominciare è guidato da Cori Bargmann dell’Università Rockfeller e da William Newsome, dell’Università di Stanford.
Dunque proviamo a riassumere i pregi del Brain: salute e prolungamento della vita umana, di quella attiva in particolare; sviluppo di numerose tecnologie del tutto nuove in diverse direzioni; investimento a grande potenziale di resa. Dalle cifre che si metteranno in campo si desume che potrebbe essere anche un rilancio in grande stile dell’economia americana. Non a caso si è parlato fin da subito di qualcosa di simile al decennale “Progetto Genoma” (Hgp, Human Genome Project), che fu accompagnato da un investimento pubblico di circa $300 milioni annui. Che, moltiplicato per dieci, fa $ 3 trilioni. Brain andrà molto oltre. Secondo George M. Church, biologo molecolare già impegnato nell’Hgp, già adesso cifre di quest’ordine di grandezza si spendono nello studio delle neuroscienze e delle nanotecnologie (International Herald Tribune, 18 febbraio 2013).  Presumibilmente il Brain andrà ben oltre. Proviamo a moltiplicare per quattro, o cinque. In fondo Ben Bernanke tira fuori dal nulla circa 85 miliardi di dollari al mese. Nulla impedisce che si possa moltiplicare per cinque gl’investimenti in BRAIN, magari senza dirci niente. Lo stesso Obama, nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione, ha fatto un calcolo fantasmagorico: ogni dollaro investito nel Hgp ne ha fruttato 140. Se il “Progetto Genoma” ha creato profitti per $800 miliardi, proviamo a immaginare cosa potrebbe significare, per l’economia Usa, un Brain che potesse contare su 10 trilioni di $ di investimenti. Cifre che fanno sognare banchieri e politici, ancora più convinti che lo sviluppo possa continuare a essere “infinito”, nella realtà come lo è nelle loro teste. Il campo di sfruttamento più redditizio sarà quello dei 100 miliardi di neuroni del nostro cervello: territorio di ripopolamento dove si troveranno miliardi di limoni da spremere, costi quello che costi.
Mappare il cervello: lo si può fare oggi, senza aprirlo. Analogia con l’immensità degli spazi cosmici. Siamo oggi in grado di conoscere la composizione chimica di una stella distante 100 anni luce, o di un satellite di Giove, senza esserci mai andati. Addirittura senza avere neppure la speranza che qualcuno possa mai andarci, nei secoli dei secoli. Lo sappiamo dall’analisi spettroscopica. Oggi la biologia sintetica ci consente di entrare nel cervello con intere flotte di nano-astronavi capaci di raccogliere (e trasmettere all’esterno) l’attività delle cellule neuronali.
Tutto bene, tutto meraviglioso. Ma viene alla mente quello che scriveva Edgar Morin, nei “Sette Saperi”: “la genetica e la manipolazione molecolare del cervello umano permetteranno normalizzazioni e standardizzazioni finora mai riuscite con gl’indottrinamenti e le propagande sulla specie umana”. Come ci insegna Snowden (ma quanti se ne sono resi conto?), chi è in grado di spiare nei segreti (in questo caso della natura), è anche in condizioni di controllare i comportamenti (in questo caso dell’Uomo).  Scriveva John Markoff, autore dell’articolo già citato di IHT – ma solo nelle ultime cinque righe – che “gli scienziati individuano un insieme di complessi temi etici, che includono la privacy, la possibilità di leggere i pensieri e perfino una cosa che oggi riguarda la fantascienza, cioè il controllo delle menti”. Si sbagliava. Già oggi decine di centri di ricerca sono impegnati – scriveva ancora IHT il 5 aprile 2013 (Clair Cain Miller) “a leggere nelle nostre menti”, per sapere in anticipo cosa desidereremo, come possiamo comprare, dove andremo, come ci comporteremo. Lo fanno con l’intelligenza artificiale, con i motori di ricerca. Ora proviamo a immaginare un cervello artificiale che copia perfettamente un cervello umano. E poi proviamo a immaginare di poter mettere in relazione, via wifi, i due “strumenti”. E avremo un altro Uomo. Ci siamo già. E quest’uomo non ci sarà amico, perché sarà o pazzo o smisuratamente più forte di noi. L’unica cosa certa è che non sarà nessuno di noi.
Immagino gli entusiasmi degli “scienziati ebeti” che sono stati formati per credere ciecamente nel risultato immediato di ciò che creano, ma che sono incapaci di vederne le ripercussioni. E capiremo che siamo nelle dirette vicinanze del “sogno di Frankenstein”. Immagino anche gli entusiasmi degli adoratori della Rete: che bello averla direttamente connessa con il proprio cervello! Che meraviglia dilatare istantaneamente il proprio sguardo a tutto Youtube!
Dato il livello culturale e intellettuale medio dei “cittadini di Matrix”, cioè dei cittadini del Mercato, cioè ancora degli “scienziati ebeti”, e dei non meno ebeti economisti, si può scommettere che non esiteranno ad applaudire ogni aggeggio che porti vantaggio economico. Gli diranno che è utile alla salute, o alla tasca, farsi mettere qualche capsula da qualche parte. O farsi fare una “benefica” vaccinazione. Sarà una centrale trasmittente e ricevente, ma che importa ai cittadini di Google?
Ultima avvertenza, speciale per i più ottimisti: stiamo parlando non di un futuro remoto. Il Brain ci dice che, tra dieci anni, più o meno, questo futuro sarà presente. Ma tutto questo è in via di realizzazione in un contesto “disturbante”, “quando non esiste nessuna certezza riguardo chi utilizzerà questi strumenti; quando nessuno può prevedere gli effetti di medio e lungo periodo; quando il tutto si realizza in condizioni di laceranti squilibri di ricchezza, di reddito, di forza e di potere tra aree del mondo, tra Stati, popoli, civiltà, culture. Saranno i più ricchi, e i meglio armati, ad avere nelle mani  strumenti che verranno usati per accrescere il loro dominio sugli altri. Il tutto in condizioni di impressionanti sperequazioni sociali e di penuria assoluta di beni.  E non dimentichiamo che gli apprendisti stregoni sono i “masters of the Universe”, cioè la scimmia al comando. Prepariamoci all’atterraggio. 

giovedì 19 febbraio 2015

Soprintendenza del Mare riporta alla luce 39 lingotti di Oricalco.



Risalgono a 2600 anni fa. Per Platone era il misterioso metallo di Atlantide.

GELA. La Soprintendenza del Mare  riporta alla luce 39 lingotti di Oricalco: risalgono a 2600 anni fa. Per Platone era il misterioso metallo di Atlantide. 
Un tesoro ripescato nel litorale di contrada “Bulala” nel mare di Gela, in una zona che in passato ha restituito i resti di ben tre navi arcaiche. 
All’interno di un relitto databile alla prima metà del VI secolo a. C., 39 lingotti di un materiale nobile, l’Oricalco, simile al moderno ottone, noto nell’antichità come metallo prezioso, tanto da essere considerato al terzo posto per valore commerciale, dopo oro e argento. Secondo le analisi effettuate con “fluorescenza a raggi X” da Dario Panetta della TQ (Thecnology for Quality) con sede a Genova, ciascun esemplare è frutto di una lega di metalli composta per l’80% di rame e per il 20% di zinco e realizzata con tecniche avanzate, la cui lavorazione, i coloni geloti di origine rodio-cretese avevano appreso molto probabilmente dai Fenici. 
Platone parla dell’Oricalco come di un metallo misterioso presente in Atlantide e di elevato valore «a quel tempo il più prezioso dopo l’oro» e che le mura che comprendevano la cittadella ove insisteva il tempio di Poseidone a Clito «risplendevano con la rossa luce dell’Oricalco». Infine che “L’Oricalco, quel metallo che ormai si sente solo nominare, allora era più che un nome, ed era estratto dalla terra in molti luoghi dell’isola”.
I primi ad individuare i preziosi reperti nel mare di Gela sono stati i volontari dell’associazione ambientalista «Mare Nostrum» diretta da Francesco Cassarino. Il recupero è avvenuto con una squadra di sommozzatori della Capitaneria di Porto, della Guardia di finanza e della Soprintendenza del Mare.
I lingotti di Oricalco erano in arrivo a Gela, provenienti verosimilmente dalla Grecia o dall’Asia Minore, quando la nave che li trasportava affondò forse per il maltempo. Il rinvenimento dimostra la ricchezza di Gela in epoca arcaica, circa 100 anni dopo la sua fondazione del 689 a.C. ad opera di Antifemo e Eutimo, nonché  la presenza di ricche e specializzate officine artigianali per la produzione di oggetti di grande valore estetico. La presenza di Oricalco a Gela potrebbe connettersi con l’origine rodia della città. Non è trascurabile il fatto che gli antichi Greci indicavano in Cadmo (figura mitologica greco-fenicia) l’inventore del prezioso metallo. I 39 lingotti pregiati sarebbero stati destinati a un artigianato locale di alta qualità, per decorazioni di particolare pregio.
“Il rinvenimento di lingotti di Oricalco nel mare di Gela apre prospettive di grande rilievo per la ricerca e lo studio delle antiche rotte di approvvigionamento di metalli nell’antichità mediterranea. Finora nulla del genere era stato rinvenuto nè a terra nè a mare. Si conosceva l’Oricalco attraverso notizie testuali e pochi oggetti ornamentali. Inoltre si conferma la grande ricchezza e capacità produttiva artigianale della città di Gela in epoca arcaica come area di consumo di oggetti di pregio. L’Oricalco era, infatti, per gli antichi un metallo prezioso la cui invenzione produttiva attribuivano a Cadmo. Si pone come ora necessario lo scavo del relitto cui appartengono i lingotti poiché è certo che si tratta di un carico di grande importanza storico-commerciale per aggiornare la più antica storia economica della Sicilia." - ha affermato il Soprintendente del Mare, Sebastiano Tusa.

L’olio di fegato di merluzzo previene il tumore: merito di un particolare Omega-3.

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Usato soprattutto in passato contro il rachitismo, l'olio di fegato di merluzzo si è mostrato utile nella prevenzione del tumore nella poliposi familiare.

Assumere l'olio di fegato di merluzzo non era un piacere per il gusto, ma, assicuravano i genitori, "fa bene". 
La motivazione poteva non apparire convincente, ma oggi quell'usanza in disuso acquista maggiore forza grazie allo studio condotto dal gastroenterologo Luigi Ricciardiello presso l'Università Sant'Orsola di Bologna. 
Il ricercatore, tornato in Italia dopo gli studi sulle alterazioni molecolari nel cancro colonrettale a San Diego e le sperimentazione chemioterapiche nel University Medical Center di Dallas, ha messo in evidenza i benefici di un particolare Omega-3, contenuto in merluzzo, sardine, sgombri e salmone), capace di ridurre il fattore di rischio di chi soffre di poliposi familiare, una malattia che causa polipi al colon che, se non rimossi attraverso colonscopia, evolvono in tumori
Lo sviluppo maligno, nel caso di poliposi acuta, è prossima al 100%, mentre quella attenuata causa tumori nel 50-80% dei casi, a seconda della gravità. 
Il Corriere.it ha raccolto la testimonianza di una delle volontarie sulle quali il ricercatore italiano ha testato gli effetti del particolare acido grasso. 
Il soggetto, una donna di 45 anni periodicamente costretta a sottoporsi a colonscopia, ha sottolineato che, da quando ha cominciato ad assumere due anni fa l'integratore a base del particolare Omega-3, è stata sottoposta ad una sola operazione che le ha tolto un polipo di tre millimetri. 
Il risultato, confrontato con un passato in cui le operazioni erano molteplici e finalizzate sempre ad asportare più polipi, è stato sorprendente.

Se in passato l'olio di fegato era considerato un toccasana contro il rachitismo, oggi le sue virtù si estendono, poiché, secondo il recente studio, previene il tumore del colonretto, spegne gli stati infiammatori cellulari e permette di contrastare il colesterolo a bassa densità (quello "cattivo"). 
Tornerà dunque il cucchiaio di olio di fegato di merluzzo? 
Forse non è necessario, poiché, ricorda ancora Ricciardiello al Corriere.it, potrebbe essere sufficiente correggere le proprie abitudini alimentari: "pesce 2-3 volte la settimanapoca o nulla carne, drink di polifenoli e antocianine (abbondanti nelle arance), verdure. Quasi il 70% dei tumori potrebbe essere prevenuto se tutti avessimo stili di vita corretti".

La pericolosissima fuffa di Renzi. - Andrea Scanzi



Ieri, visitando la General Motors a Torino, Renzi ha detto tra le altre cose: “L’Italia è da sempre la terra in cui il domani arriva prima. L’industria della lagna non è vincente”. 

Rileggete bene: 

la terra in cui il domani arriva prima"
l’industria della lagna“. 

Ma cosa dice? 
Come parla? 
Che roba è? 
Gliel’hanno tolto il ciuccio dal cervello? 
Se un mio compagno all’asilo avesse proferito banalità simili, gli avrei prontamente consigliato di comprare il 45 giri di Cicale di Heather Parisi per darsi un tono intellettuale. 

Questo qua non solo non è un bimbo che fa l’asilo, anche se dallo sguardo e dalla faccia sembrerebbe, ma è pure Presidente del Consiglio. 
La sua pochezza contenutistica è sconfortante. 
Ambirebbe ad avere una narrazione kennedyana, ma ricorda al massimo i testi di Kekko dei Modà. 

Nel frattempo, tra un tweet e l’altro, lui e i suoi bastonano tutto quel giornalismo che non è disposto a celebrare questa ghenga composta – quasi sempre – da arroganti presuntuosi e impreparati: per esempio Il Fatto, per esempio Milena Gabanelli, per esempio Piazzapulita

Proprio come il suo amico Silvio. 

Non è Renzi a essere pericoloso in sé, anzi larga parte di quel che fa induce al ridicolo. 
Al ridicolo e al patetico. 
Renzi non può fare paura, altrimenti toccherebbe aver timore di Jerry Calà o dei Gormiti. 
A essere pericoloso è questo mix tra la pochezza sconfinata e il ruolo che riveste: come dare una Lamborghini in mano a un poppante. 
Poveri noi.

http://www.andreascanzi.it/?p=3028

Libia, analista: “Intervento costerebbe un miliardo e attirerebbe orde di jihadisti”. - Enrico Piovesana .

Libia, analista: “Intervento costerebbe un miliardo e attirerebbe orde di jihadisti”

Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa: "Per la missione in Afghanistan al suo picco, con 4.700 uomini, lo Stato spendeva oltre 800 milioni l’anno". Non solo: "Far sbarcare soldati occidentali in Libia attrarrebbe in quel paese fondamentalisti da tutta la regione, che verrebbero a combattere i crociati come mosche attratte dal miele.”

La scorsa settimana il governo Renzi ha decretato un rifinanziamento per le missioni militari all’estero da 750 milioni di euro fino a settembre. Oggi le missioni militari all’estero ci costano all’incirca un miliardo di euro all’anno, vale a dire 2,7 milioni al giorno. Con la missione il Libia questo costo raddoppierebbe. “Una missione libica da 5mila uomini costerebbe almeno un miliardo di euro l’anno – spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it - tenuto conto che quella in Afghanistan al suo picco, con 4.700 uomini, costava oltre 800 milioni l’anno, e non comprendeva nessun dispositivo navale, né carri armati e artiglieria pesante, che invece in questo caso sarebbero necessari”.
Ma il problema non è solo economico. Sottolineando come parlare oggi di un intervento in Libia sia “puramente accademico, finché non si capirà se ci sarà una missione internazionale, chi vi prenderà parte e quali obiettivi avrà”, Gaiani ritiene altamente rischioso, se non controproducente, l’invio di truppe occidentali in terra libica. “Far sbarcare soldati occidentali in Libia attrarrebbe in quel paese orde di jihadisti da tutta la regione, che verrebbero a combattere i crociati come mosche attratte dal miele”, spiega Gaiani descrivendo uno scenario bellico che mescolerebbe il peggio delle esperienze somala, irachena e afgana, nel quale rischieremmo di finire impantanati per anni, con perdite altissime e risultati tutt’altro che scontati. “L’Italia – si chiede il direttore diAnalisifesa.it – è pronta a imbarcarsi in un’impresa del genere, in una guerra vera e propria?”.
Un’impresa che richiederebbe un contributo di truppe molto alto a tutte le nazioni dell’eventuale coalizione militare, soprattutto se, come sembra chiaro, questa volta non ci saranno gli Stati Uniti a guidare la missione fornendo il grosso dei soldati. Sicuramente più dei 5mila uomini di cui ha parlato la Pinotti, che però, come spiega Gaiani, rappresentano il limite massimo di impiego per le nostre forze armate.
“Per combattere una guerra vera non potremmo certo mandare la fanteria leggera come in una normale missione di peacekeeping: servirebbero forze addestrate ed equipaggiate in maniera adeguata”, dice Gaiani. “Considerando le altre missioni in corso e le esigenze di avvicendamento dopo sei mesi di schieramento, si potrebbe arrivare a quella cifra impiegando l’intera brigata Folgore, da mesi in riserva strategica proprio in vista di un impiego in Nord Africa, più la nuova forza da sbarco della brigata San Marco e una consistente aliquota di forze speciali”.
Le truppe italiane attualmente impegnate nelle altre missioni all’estero sono 4mila (1.100 in Libano, 850 in Afghanistan, 500 in Iraq, 500 nei Balcani, 330 in Gibuti e Somalia, 240 nell’Oceano Indiano, 170 nel Mediterraneo e altre 200 e passa tra Egitto, Repubblica Centrafricana, Palestina, Malta, Mali,Georgia, Cipro, India/Pakistan e Marocco) e scenderanno a 3.500 a fine anno con il ritiro quasi completo dall’Afghanistan. Considerando che il massimo schieramento recente di truppe italiane all’estero è stato di 8.500 uomini nel 2010, la differenza risulta proprio di 5mila uomini.

Addio epatite C: ecco i farmaci gratuiti per 15mila persone.


Serviranno a dire definitivamente addio all’epatite: ecco i farmaci gratuiti per 15mila persone che saranno garantiti da un fondo già stanziato dal ministero della Salute.

Ora è ufficiale, l’Italia ha stanziato un fondo da un miliardo e mezzo di euro previsto dalla legge di Stabilità per mettere a disposizione di 15mila italiani quattro farmaci contro l’epatite C che verranno distribuiti gratis.

Nonostante la carenza di fondi che non consente una copertura totale, a causa dell’elevato costo dei trattamenti, l’investimento sui farmaci porterà al Servizio sanitario nazionale un grande risparmio, che consentirà di cancellare il virus nell’80 per cento dei casi. Guarire dall’epatite C 15 mila pazienti, significa infatti evitare i problemi legati all’infezione, come cirrosi, tumori e complicazioni anche mortali, per un risparmio calcolato in un miliardo l’anno tra ricoveri e trapianti evitati.

In Italia ci sono oggi oltre 300 mila pazienti con epatite C e patologie correlate che generano un costo complessivo per il Sistema sanitario nazionale di oltre un miliardo di euro all'anno. Perciò, chiarisce Francesco Mennini, dell'Università Tor Vergata di Roma, direttore del Centro per la valutazione economica, “l'introduzione di nuovi farmaci che permettono la guarigione dalla patologia può diventare un elemento importante anche dal punto di vista economico”.

“Siamo a una svolta epocale. È come passare dalla radio a internet“, commenta il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.  Ma non tutto fila liscio, perché le associazioni come Epac, stanno registrando casi di inadempienza in alcune regioni come Campania, Calabria e Sicilia che ostacolano la somministrazione gratuita del farmaco agli ammalati

Farmaci anti epatite C: c’è anche il Simeprevir

Dopo il Sofosbuvir, il primo farmaco di nuova generazione arrivato in Italia a ottobre che guarisce l’epatite C nella quasi totalità dei casi, entro questa settimana sarà disponibile anche il secondo ritrovato, chiamato Simeprevir che precede l’approvazione di altri farmaci similari ancora in attesa della definitiva approvazione.

Il Simeprevir, prodotto in Italia dalla Jansenn Italia, avrà inoltre ricadute positive anche sull’occupazione: si parla di 80 milioni di euro dal 2016 al 2021. Si tratta della prima terapia combinata orale, senza interferone che, insieme al Sofosbuvir, ha rivelato percentuali di guarigione dal virus anche del 90 per cento.

Il nuovo farmaco avrà le sembianze di una comune compressa da assumere per via orale che dopo un lungo periodo di trattamento, debellerà nel paziente in modo permanente il virus dell'epatite c.

Emissioni, le energie rinnovabili europee stanno riducendo la CO2.

  • Emissioni, le energie rinnovabili europee stanno riducendo la CO2

  • Senza l’uso delle green energy, dal 2005 al 2012 il consumo di combustibili fossili nella UE sarebbe stato superiore di circa il 7%.

  • (Rinnovabili.it) – Senza l’impiego delle energie rinnovabili, dal 2005 al 2012 in Europa le emissioni di gas a effetto serra sarebbero cresciute di oltre il 7%, rispetto ai valori effettivi. A rivelare il percorso di decarbonizzazione avviato dall’energia pulita è oggi l’Agenzia Europea dell’Ambiente nel rapporto “Renewable energy in Europe – approximated recent growth and knock-on effect”. Il documento, come riporta il titolo stesso affronta gli effetti a catena innescato dalla crescita delle fonti alternative e spiega come le tecnologie verdi  in questi anni abbiano aumentato la sicurezza energetica, ridotto le emissioni e posizionato l’Unione in una posizione di leadership sul fronte ambientale. Nel dettaglio gli autori del documento spiegano che senza l’uso delle energie rinnovabili, nei sette anni in questione, il consumo di combustibili fossili nella UE sarebbe stato superiore di circa il 7%. Fotovoltaico, eolico ed idroelettrico hanno fatto le veci soprattutto del carbone, rimpiazzandone il 13% del consumo, mentre in loro assenza l’uso del gas naturale sarebbe stato superiore del 7%. “L’energia rinnovabile – ha dichiarato Hans Bruyninckx, direttore esecutivo dell’AEA – sta rapidamente diventando una delle grandi storie di successo europee, ma possiamo andare ancora oltre: se sosteniamo l’innovazione in questo settore, le rinnovabili potrebbero diventare un importante motore dell’economia europea, abbattendo le emissioni e creando posti di lavoro.

    L’energia rinnovabile non è stato però l’unico fattore di riduzione delle emissioni di gas serra in Europa. Hanno contribuito anche le politiche e le misure volte a ridurre la CO2 e migliorare l’efficienza energetica. In base alle stime pubblicate dall’Agenzia, il consumo finale di energia da fonti rinnovabili è aumentato in tutti gli Stati membri nel 2013. A livello comunitario, la quota di green energy è arrivata a quasi il 15%, di due punti percentuali sopra al target fissato dalla direttiva sulle energie rinnovabili. In Svezia, Lettonia, Finlandia e Austria le fonti alternative hanno rappresentato più di un terzo del consumo energetico finale nel 2013, prime di una classifica che vede invece agli ultimi posti: Malta, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito (tutti inferiori al 5%).