mercoledì 21 giugno 2017

Ius Soli, ovvero quando le bufale diventano leggende. Tutte le falsità sul Disegno di Legge. - Vittoria Patanè

Bambini italiani
Tifosi della nazionale di calcio italiana a Pretoria, nel 2009. REUTERS/Siphiwe Sibeko.

Lo ius soli è diventato l’argomento del momento. 
Dal Parlamento il dibattito si è spostato sui social network, scatenando come da tradizione gli istinti più beceri della popolazione, spesso fomentata ad hoc dalle parole pronunciate da politici zelanti che cercano di sfruttare e veicolare la rabbia dei cittadini con scopi puramente propagandistici ed elettorali.

Il meccanismo rimane sempre lo stesso: semplificare al massimo un tema complicato arrivando a snaturarlo completamente, a stravolgerlo, a far sì che la verità percepita, che spesso e volentieri si discosta dai fatti, divenga verità assoluta. Alla fine il risultato ottenuto è sotto gli occhi di tutti. Migliaia di persone pronte a scagliarsi contro una proposta di legge che nemmeno conoscono, ripetendo a memoria tesi sentite in precedenza dal loro rappresentante preferito  o lette su uno dei gruppi Facebook che appaiono più spesso sulle loro Home Page. Dal trionfo dei giudizi sommari al dilagare di vere e proprie bufale il passo diventa sempre più breve, fino a che le due cose si confondono e le bufale si trasformano in dogmi.

Questo quanto sta accadendo attualmente sulla proposta di legge sullo Ius Soli che la settimana prossima, dopo un iter lungo e travagliato, approderà nell’Aula del Senato con una zavorra di 80mila emendamenti leghisti sul groppone. Impossibile che un argomento del genere non faccia discutere, difficile che questa discussione si basi sulla realtà dei fatti e non su percezioni infondate che parlano di “cittadinanza automatica” da un lato e di legge inutile (perché lo Ius Soli esiste già) dall’altro, di colonizzazione islamica e di invasione, senza dimenticare mai lo spettro dei “costi” che gli italiani dovranno sobbarcarsi per “mantenere” questi nuovi cittadini. Analizziamo, uno per uno, questi argomenti.

BUFALA N.1: LA CITTADINANZA AUTOMATICA.
Fra trenta, quaranta o cinquant’anni, i nostri figli e i figli nei nostri figli racconteranno una leggenda che parla di un tempo in cui l’Italia divenne la terra dove milioni di donne gravide cominciarono ad arrivare, via terra e via mare, al solo scopo di far nascere i loro figli entro gli italici confini e far sì che essi diventassero automaticamente italiani. Il tutto grazie ad una legge nota come Ius Soli che distribuiva la cittadinanza a chiunque avesse la fortuna di emettere il primo vagito in un appezzamento sito sul paradisiaco territorio nostrano. 

Leggendo questo o quel post su Facebook o qualche Tweet sul social concorrente, è impossibile non accorgersi come molti siano davvero convinti che il provvedimento che approderà in Senato distribuisca carte d’identità e passaporti italiani come caramelle. Per molti l’automatismo è scontato, immediato. Addirittura si vedono già orde di migranti sbarcare a Lampedusa con i documenti per richiedere lo Ius Soli in una mano e le loro donne in stato di gravidanza al fianco. Peccato che il DdL non preveda alcun automatismo, anzi stabilisca un iter lungo e colmo di paletti che porterà i minori nati nel nostro Paese ad ottenere la cittadinanza solo ad alcune, specifiche, condizioni.

Due le vie per diventare italiani: lo ius soli temperato e lo ius culturae. 
In base al primo non sarà sufficiente far nascere i propri figli in Italia per ottenerne la cittadinanza, ma occorrerà che almeno uno dei due genitori abbia un permesso di soggiorno UE di lungo periodo. E chi è che ha questo documento? Uno straniero residente legalmente nel Paese da almeno 5 anni, che abbia superato un test di conoscenza della lingua italiana, che viva in un’abitazione idonea, che abbia la fedina penale intonsa e che abbia un reddito superiore a 5.800 euro, cioè all’importo dell’assegno sociale INPS. In assenza di una di queste condizioni il minore non potrà avere la cittadinanza. Ma andiamo avanti.

Si prevede la possibilità di diventare italiani anche in base allo Ius Culturae. In questo caso servirà che il minore nato in Italia o arrivato qui prima dei 12 anni frequenti regolarmente uno o più cicli scolastici, per almeno cinque anni. Nel caso in cui si tratti di scuola primaria (scuola elementare, per intenderci) bisognerà che il bambino superi l’esame finale. Valida per la cittadinanza anche la frequenza di corsi di istruzione professionale triennali o quadriennali che diano una qualifica. C’è anche un’altra possibilità: potrà sfruttare lo ius culturae lo straniero che è arrivato in Italia prima dei 18 anni, che risiede legalmente nel nostro Paese da almeno sei anni e che ha frequentato un ciclo scolastico o un corso di formazione conseguendo il titolo.

Sia con lo ius soli che con lo ius culturae sarà inoltre necessario che i genitori presentino una dichiarazione volontaria.

Queste le regole, l’automatismo dunque è solo una delle tante bufale diffuse sul web.

BUFALA N.2: LO IUS SOLI AMPLIERÀ L’INVASIONE DI MIGRANTI.
Chiunque abbia letto quanto scritto in merito alla bufala numero uno, potrà comprendere da solo come i migranti che sbarcano ogni giorno sulle nostre coste, realizzando un’invasione che invasione non è (ma questa è un’altra storia) non saranno minimamente coinvolti nell’ambito di applicazione della legge. 

Chiunque sostenga che lo Ius Soli vada a favore degli immigrati appena sbarcati permettendo ai loro figli (ovviamente nati appositamente nel nostro Paese grazie a un piano demoplutomassonico-clandestino) di ottenere la cittadinanza mente. Se non mente, non sa di cosa parla.

Detto in parole povere: No, i migranti irregolari (e i figli degli irregolari) non potranno diventare italiani. Il che in teoria chiuderebbe la questione. Ma per essere ancora più precisi: non potranno diventare italiani nemmeno i figli degli stranieri con un permesso di soggiorno temporaneo, né i minori figli di immigrati con permesso illimitato ma residenti nel nostro Paese da meno di cinque anni.

Non c’è dunque alcun motivo di pensare che persone provenienti dall’Africa o dal Medio Oriente arrivino nel nostro Paese galvanizzati dall’approvazione dello Ius Soli. Perché in ogni caso non ne trarrebbero nessun beneficio.

BUFALA N.3: CON LO IUS SOLI “TUTTI” DIVENTERANNO ITALIANI.
Tutti chi? Verrebbe da chiedere. Legata a stretto giro alla bufala sull’invasione e a quella sull’automatismo c’è la falsità secondo la quale si distribuirà la cittadinanza italiana a destra e a manca, senza alcun criterio. Pochi sanno che quando si propone una legge si studia anche l’impatto che essa potrebbe avere e la platea di beneficiari coinvolti nel provvedimento. 

Come sottolinea lavoce.info: “Secondo una recente indagine Istat, circa il 65 per cento delle madri straniere risiede nel nostro paese da più di cinque anni. Se riportiamo questa percentuale al numero dei nati stranieri negli ultimi 17 anni (976mila) e ipotizziamo che nessuno di loro abbia lasciato l’Italia, si stima che i nati stranieri figli di genitori residenti da almeno 5 anni siano 635mila”. A questo numero va aggiunto quello relativo ai minori stranieri nati o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato le scuole nel nostro Paese. In base ai dati del Miur si tratta di 166mila minori. Sommando gli uni e gli altri si ottiene la platea dei potenziali beneficiari del provvedimento in discussione al Senato: circa 800mila persone.

BUFALA N.4: LO IUS SOLI È INUTILE PERCHÉ LA LEGGE C’È GIÀ.
Altra tesi supportata da molti, tra l’altro abbastanza paradossale a dir la verità, è che la proposta sullo ius soli sia inutile perché in Italia lo ius soli esiste già. Se così fosse non si capisce nemmeno il motivo per cui queste stesse persone protestino, ma all’italica incoerenza siamo già abituati. 

Veniamo a noi. La legge sulla cittadinanza attualmente in vigore  (la n.91) è stata approvata nel 1992 e riconosce la cittadinanza in base allo ius sanguinis: un bambino straniero nato nel nostro Paese è italiano se almeno uno dei genitori è italiano. Cittadinanza anche ai figli degli immigrati nati in Italia o arrivati nel nostro Paese da minorenni, al compimento dei 18 anni. Per diventare italiani in questo caso occorre anche dimostrare di aver vissuto “legalmente e ininterrottamente” in Italia per 18 anni. In assenza di queste condizioni non si può  nemmeno presentare la richiesta. Più che di ius soli dunque si potrebbe parlare dell’esistenza di un iter che porta alla naturalizzazione. Ci sono poi alcune altre opzioni (che potete trovare qui. ) che però nulla hanno a che fare con lo ius soli puro (come quello Usa) o temperato (come quello proposto in Italia) che sia .

BUFALA N.5: NEGLI ALTRI PAESI EUROPEI NON ESISTE LO IUS SOLI.
Falso anche questo, ogni Paese ha regole diverse e parametri diversi: gli unici paesi a non avere qualche forma di ius soli oltre all'Italia sono Austria e Danimarca. 

Per quanto riguarda gli altri  facciamo alcuni esempi: in Germania viene considerato tedesco un cittadino che nasce nel Paese a condizione che uno dei due genitori abbia il permesso di soggiorno permanente da almeno tre anni e viva lì da almeno otto anni.

In Francia si ha diritto alla cittadinanza se almeno un genitore è nato nel Paese, mentre si diventa francesi dopo aver compiuto la maggiore età se si è vissuto nel territorio per almeno 5 anni.

Nel Regno Unito la cittadinanza viene concessa a chi nasce in territorio britannico anche da un solo genitore cittadino britannico o che è legalmente residente con un permesso di soggiorno senza termine.

In Spagna si diventa cittadini spagnoli se si nasce sul territorio avendo padre o madre iberici o se si nasce nel Paese da genitori stranieri se almeno uno è nato in Spagna.

In Belgio la cittadinanza si ottiene automaticamente se si è nati sul territorio nazionale, ma solo quando si compiono 18 anni o 12 se i genitori sono residenti da almeno dieci anni.

In Svizzera si ha diritto alla cittadinanza se si è figli di padre o madre svizzeri, se sposati, o di madre svizzera se i genitori non sono sposati.   

BUFALA N.6: L’ISLAMIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ.
Una bufala molto diffusa, caratterizzata da connotati razzisti parla del rischio che l’Italia diventi preda di una vera e propria colonizzazione di matrice islamica. Perché ovviamente tutti gli immigrati sono islamici, no? No. In base ad un’indagine condotta dalla Fondazione Ismu, “gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2016 che professano la religione cristiana ortodossa sono i più numerosi (oltre 1,6 milioni)”. Quanti sono i musulmani? 1,4 milioni. Poi ci sono i cattolici che sono poco più di un milione. Seguono: 182mila buddisti, 121mila cristiani evangelici, 72mila induisti, 19mila cristiano-copti, 17mila sikh. 

Un altro studio, stavolta realizzato da Idos, si sofferma sull’incidenza percentuale di ciascun gruppo religioso. I risultati sono abbastanza chiari: nel 2014, il 53,8 per cento degli stranieri residenti in italiana era rappresentato da cristiani, il 32,2% del totale da musulmani. Non c’è e non c’è mai stata dunque nessuna invasione musulmana.

BUFALA N.7: NUOVO ITALIANO “QUANTO CI COSTI”.
Ultima bufala da smontare riguarda i costi che gli italiani dovranno sobbarcarsi per mantenere i “nuovi italiani”. In questo caso occorre tranquillizzare chi non intende mettere mano al portafogli per sovvenzionare l’ennesimo “capriccio dei politici”. 


Come detto in precedenza, la legge riguarda solo i “regolari” che, ovviamente, sono già inseriti nella contabilità italiana e rientrano nei dati riguardanti tanto la demografia quanto l’economia. Parlando in parole povere: essendo legalmente residenti nel nostro Paese i genitori pagano già tasse, imposte, contributi ecc. E gli stessi obblighi li avrà il bambino che acquisisce la cittadinanza una volta diventato maggiorenne. Ergo no, lo ius soli non ci costerà nemmeno un euro. Anzi, se consideriamo che gli stranieri in Italia sono spesso giovani, pagano più contributi rispetto alle pensioni che ricevono. In altre parole, contribuiscono a pagare le spesso assurde pensioni di cui godono gli italiani.

http://it.ibtimes.com/ius-soli-ovvero-quando-le-bufale-diventano-leggende-tutte-le-falsita-sul-disegno-di-legge-1501090

"Traccie" maturità, il Miur si scusa per il refuso sul sito.



Il ministero dell'Istruzione ha rapidamente corretto l'errore, ma le immagini incriminate hanno già fatto il giro dei social network.

"Traccie" per l'esame di maturità: questo errore ortografico è comparso per alcuni minuti sul sito del ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca (Miur), scatenando polemiche e ilarità su diversi social network. Fra le critiche piovute sul dicastero, non si osservano solo quelle scaturite dagli studenti, ma anche da esponenti del mondo politico.

Le scuse del ministero.
"Abbiamo visto il refuso sul sito degli Esami di Stato e siamo subito intervenuti per farlo correggere. Si tratta di un errore di battitura, di un errore materiale che, naturalmente, non doveva esserci, tanto più su una pagina che riguarda gli Esami", si legge in una nota di spiegazione pubblicata sul sito del Miur. L'annuncio incriminato, infatti, si riferiva alle tracce per la prima prova scritta della maturità. Tracce, per l'appunto, e non "traccie" come erroneamente riportato. Per questa 'i' di troppo "il fornitore tecnico che gestisce l'inserimento dei contenuti sul sito del Ministero", chiarisce il Miur, "ci ha fatto pervenire una lettera di scuse per l'episodio accaduto che arreca un danno d'immagine alla nostra istituzione".
I precedenti.

Non è la prima volta che il ministero dell'istruzione si rende protagonista di figuracce proprio in occasione della maturità: un caso che ebbe ampio risalto fu quello della traccia d'italiano assegnata nell'esame datato 2008. Era stato richiesto agli studenti di spiegare il "ruolo salvifico e consolatorio della figura femminile" prendendo le mosse da "Ripenso il tuo sorriso", una poesia che Eugenio Montale aveva in realtà dedicato a un uomo (il danzatore russo Baris Kniaseff).

In altre occasioni era stato lo stesso ministro dell'Istruzione a rendersi protagonista di gaffe poco adatte alla sua posizione: si ricordano, ad esempio, l'accento sbagliato "egìda" pronunciato in Aula da Mariastella Gelmini (2008) o l'inesistente "tunnel fra il Cern e il Gran Sasso" (2011). Sino ad arrivare ai giorni nostri con la polemica sui titoli di studio attribuiti al ministro Valeria Fedeli, "un diploma di laurea in Scienze sociali", che in realtà laurea non era e all'errore di storia in occasione di un intervento pronunciato al Premio Cherasco Storia, il 27 maggio scorso, quando la ministra ha attribuito l'armistizio di Cherasco (1796) a Vittorio Emanuele III, il re d'Italia il cui nome è legato alle vicende del Ventennio fascista, oltre un secolo dopo. 

http://tg24.sky.it/cronaca/2017/06/20/miur-scuse-refuso.html

Napoli, scoperto al Tigem il modo di inibire le cellule tumorali. - Walter Medolla



Ballabio e De Luca presentano la ricerca. «Passo avanti».

È made in Naples l’ultimo scoperta in ambito oncologico. 
Dall’istituto Tigem di Pozzuoli, infatti, arriva un’importante risultato, frutto del lavoro di ricerca del team guidato da Andrea Ballabio direttore dell’Istituto e professore ordinario di genetica medica all’Università Federico II di Napoli.

La ricerca riguarda la descrizione di un meccanismo biologico la cui inibizione porta al blocco della crescita delle cellule tumorali. Un importante risultato ottenuto dallo studio dei lisosomi, piccoli organelli che si trovano all’interno delle nostre cellule, coinvolti in un ampio gruppo di malattie genetiche rare. «La funzione dei lisosomi - ha spiegato Andrea Ballabio, direttore del Tigem- è quella di ripulire le cellule. Ecco, noi abbiamo scoperto che questo meccanismo serve alle cellule a produrre energia per proliferare e per crescere. Quindi i lisosomi non servono solo a ripulire le cellule, ma anche a produrre energia che serve a crescere. Questo è un meccanismo fisiologico che è presente in tutti noi e purtroppo, però, serve anche alle cellule tumorali e gli serve per crescere e per proliferare. Noi abbiamo dimostrato che inibendo questo meccanismo siamo in grado di bloccare la crescita tumorale in particolare in tumori come Melanoma, tumore del pancreas e anche del rene. Il prossimo step - ha detto Ballabio - è cercare di trovare il modo migliore per inibire completamente questo meccanismo e farlo senza causare conseguenze negative alle cellule sane, farlo in maniera molto specifica e selettiva».

Andrea Ballabio
Andrea Ballabio

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science , dimostra che proprio l’inceppamento di questo meccanismo porta alla replicazione e alla crescita delle cellule tumorali, come nel caso dei melanomi e dei tumori del rene e del pancreas. I ricercatori del Tigem anno quindi dimostrato che l’inibizione di questo meccanismo blocca la crescita tumorale, suggerendo così una nuova strategia per la terapia dei tumori.
«Le possibilità terapeutiche dipenderanno soprattutto dagli approfondimenti che faremo – dice Chiara Di Malta, prima firmataria della ricerca -. Questo è un passo importante, perché ovviamente abbiamo scoperto un meccanismo nuovo che prima non si conosceva. Ora però dobbiamo concentrarci su come utilizzare le conoscenze che abbiamo ricavato per ottenerne ancora di più, per individuare delle alternative terapeutiche valide per questi tipi di tumore».
Parole di ammirazione per il lavoro svolto sono arrivate anche dal presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca: «Sosterremo senza condizioni questa ricerca - ha detto il governatore - che è di tale valore che merita veramente tutto il sostegno finanziario necessario. Ci siamo ritrovati sulla stessa scelta che la Regione ha fatto un anno fa quando ho deciso di investire 100 milioni di euro sulla ricerca contro il cancro».
Il lavoro, finanziato da Fondazione Telethon al quale si è aggiunto un contributo dell’Airc, è frutto dell’intensa attività di ricerca che quotidianamente si svolge nei laboratori del Tigem, una grande eccellenza del nostro territorio di cui andare veramente fieri.

Pensioni: Poletti, opportunità di uscita per 60.000 in difficoltà.

Il ministro Poletti © ANSA


Il ministro del Lavoro: "Potenziali effetti positivi sul ricambio generazionale in azienda".

"Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei decreti per l'Ape sociale ed i lavoratori precoci, viene data l'opportunità a lavoratori in condizioni di difficoltà, per quest'anno stimati in circa 60.000, di anticipare fino a tre anni e sette mesi l'età di pensionamento, con potenziali effetti positivi sul ricambio generazionale in azienda e quindi sulle opportunità di ingresso al lavoro per i giovani". Lo afferma il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.
Diventa operativo - prosegue - "un altro degli interventi sul sistema previdenziale definiti dal Governo che poggiano su una consistente dotazione di risorse, previste nella legge di bilancio 2017, volti ad introdurre elementi di flessibilità ispirati ad un principio di equità e, nello stesso tempo, rispettosi degli obiettivi e degli equilibri di finanza pubblica".
Il Ministro conclude ricordando che "sono già operative altre norme che attuano un insieme articolato di interventi oggetto di un confronto approfondito con le organizzazioni sindacali, come ad esempio il cumulo gratuito dei periodi di contribuzione previdenziale maturati in gestioni diverse, l'eliminazione definitiva delle penalizzazioni previste in caso di pensionamento anticipato prima dei 62 anni di età e l'aumento e l'estensione delle quattordicesime per i pensionati con redditi più bassi".
60mila lavoratori in difficoltà vanno in pensione anticipatamente a quali condizioni?
Io dico che il governo dà la possibilità ai datori di lavoro di liberarsi di 60mila lavoratori a tempo indeterminato che costano il doppio di una parte dei 60mila che assumerebbero a metà costo e con turni doppi. E il tempo mi darà ragione.

lunedì 19 giugno 2017

Scoperta in Cappadocia un'immensa città sotterranea.


Scavata nel tufo nel sottosuolo di Nevsehir, in caso di pericolo poteva dare rifugio a migliaia di persone.

Kayseri, in Turchia 

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 Il complesso di tunnel e ambienti sotterranei è stato trovato sotto una fortezza bizantina. Fotografia di Murat Kaya, Anadolu Agency/Getty
Scavata nel tufo nel sottosuolo di Nevsehir, in caso di pericolo poteva dare rifugio a migliaia di persone.
Quando arrivavano gli invasori, gli abitanti della Cappadocia sapevano dove nascondersi: nel sottosuolo, in uno dei 250 rifugi che avevano scavato nel friabile tufo vulcanico di cui è fatta la loro terra.

Oggi i lavori di un cantiere potrebbero aver portato alla luce il più grande nascondiglio sotterraneo mai scoperto in questa regione al centro della Turchia, già celeberrima meta turistica grazie alle sue chiese rupestri, alle case dai bizzarri camini e alle intere città scavate nella roccia.

Scoperto a Nevsehir, la capitale della provincia, sotto un castello d'età bizantina costruito in cima a una collina, il sito è ancora in gran parte inesplorato. Ma le prime ricerche fanno pensare che possa rivaleggiare, per dimensioni e caratteristiche, con la città ipogea di Derinkuyu, che poteva ospitare 20 mila persone. 
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Nel 2013, gli operai che stavano demolendo alcune modeste case che circondavano il castello scoprirono una serie di ingressi che portavano a una rete di tunnel e stanze sotterranee. Il comune bloccò il progetto e chiamò un team di archeologi e geofisici che cominciò a indagare. Esaminando 300 anni di corrispondenza tra gli amministratori locali e le autorità dell'Impero Ottomano, gli studiosi hanno trovato indizi su dove cercare: "Dai documenti risultava l'esistenza di una trentina di tunnel per l'acqua in questa regione", spiega Hasan Ünver, sindaco della città. 
Partendo da quei tunnel, nel corso del 2014 gli scienziati hanno scoperto un insediamento su più livelli, che comprendeva abitazioni, cucine, cantine, cappelle, scalinate e bezirhane, frantoi dove venivano spremuti i semi di lino per ricavarne olio per l'illuminazione della città sotterranea. Gli oggetti ritrovati - macine, croci di pietra, ceramiche - mostrano che la città è stata utilizzata dall'epoca bizantina fino alla conquista ottomana. 
A quanto pare, proprio come Derinkuyu, si trattava di un grande complesso autosufficiente, con pozzi per l'aria e canali per l'acqua corrente. Quando incombeva il pericolo, i cappadoci si ritiravano sottoterra, bloccavano i tunnel d'accesso con grosse porte di pietra rotonda e si chiudevano dentro con provviste e bestiame finché la minaccia non era passata.
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Tra le prime regioni ad abbracciare il Cristianesimo - l'apostolo Paolo arrivò qui nel I secolo, e nel IV secolo i suoi vescovi rivestirono molta autorità quando l'Impero adottò la nuova religione - la Cappadocia subì le prime invasioni musulmane alla fine dell'VIII secolo. Più tardi arrivarono i turchi Selgiuchidi, e infine gli Ottomani che nel Quattrocento completarono la conquista dell'Anatolia abbattendo l'Impero Bizantino. 
Quanto è grande? I geofisici dell'Università di Nevsehir hanno condotto sondaggi sistematici su un'area di circa quattro chilometri quadrat,i usando tecniche come la misura della georesistività e la tomografia sismica. Dalle 33 misurazioni indipendenti effettuate, si stima che il sito debba avere un'area di quasi 460 mila metri quadrati, e che si addentri fino a 113 metri nel sottosuolo. Se le misure sono esatte, la città di Nevsehir dovrebbe superare di un buon terzo quella di Derinkuyu.
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Ma sono solo ipotesi, precisa Murat Gülyaz, direttore dell'università e archeologo a capo delle operazioni. "Finora non è possibile dire quanto fosse grande la città. Ma data la sua posizione, le difese di cui era dotata e la vicinanza alle riserve d'acqua, è molto probabile che si estendesse su un'area molto vasta". 

"Questa scoperta si aggiunge come una nuova perla, un nuovo diamante, un nuovo gioiello d'oro" alle ricchezze della Cappadocia, si entusiasma il sindaco, che sogna di costruire "il più grande parco archeologico del mondo":  hotel di lusso e gallerie d'arte in superficie, percorsi turistici e un museo nel sottosuolo. "Vogliamo anche riaprire le chiese ipogee", dice. "Siamo tutti molto emozionati".

L'équipe di archeologi continuerà a ripulire i tunnel dalle macerie e esplorare il sottosuolo: un'operazione rischiosa, visto che il tufo crolla facilmente. "Quando la città sarà tutta scoperta", sostiene Gülyaz, "è quasi certo che la classifica delle destinazioni turistiche della Cappadocia cambierà drasticamente".

Sensazionale Scoperta in Messico! Trovate in una grotta le “Pietre del Primo Incontro” tra gli Extraterrestri e i Maya.

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Residenti che si trovano nella perfieria di Puebla, vicino Veracruz (Messico), hanno trovato delle pietre di giada con misteriose incisioni che sembrano rappresentare alcuni esseri dall’aspetto umanoide con grandi teste, simili a veri e propri Alieni.




Questa scoperta era stata fatta nel mese di Marzo 2017, e la notizia era stata rilasciata via Twitter dal giornalista Javier Lopez Diaz che lavora a CincoRadio, dove sono state pubblicate alcune immagini delle pietre che stanno per essere studiate e analizzate da esperti. Quello che si può vedere inciso sulle due pietre potrebbe rappresentare un vero “contatto” con esseri provenienti da altri mondi, avvenuto durante lo sviluppo della Civiltà Maya.
L’autenticità dei reperti trovati in una grotta nella periferia tra Puebla e Veracruz, sembra essere confermata grazie alla ispezione della grotta dove sono stati trovati altri reperti, tra cui petroglifi di importanza storica che riproducono delle vere e proprie scene di un Inontro tra esseri di Altri Mondi e rappresentanti del Popolo Maya. Infatti le pietre ritrovate sono state chiamate le “Pietre del Primo Incontro”.
La spediazione nella grotta
Dopo poco più di tre mesi dalla scoperta delle pietre, una spedizione di ispezione è stata fatta dal gruppo “Treasure Seekers” dove il ricercatore della JAC Detector José Aguayo, il Maestro Manuel, insieme a Rangel Vigueras, Asrael, Héctor Pavón, Claudia Vázquez e qualche altro collaboratore, hanno trovato per caso una pietra scavata nella grotta dove ci sono dei disegni impressi con forme aliene. L’ispezione nella grotta è avvenuta per ben 2 volte, la prima a Maggio e la seconda il 12 Giugno 2017.
Dopo aver camminato diverse ore attraverso la boscaglia per raggiungere una serie di tre grotte private, che si trovano entro i confini di Veracruz e Puebla,  due dei membri del team di ricerca hanno immediatamente segnalato alcune scoperte sorprendenti,  come ad esempio una e più pietre che si trovavano all’interno della grotta, in cui erano visibili immagini che rappresentano la possibile relazione storica tra umani e alieni. Poi è stata notata con sorpresa la presenza di un metallo che i dirigenti della spedizione, dicono che potrebbe essere oro.
Nelle pietre documentate situate nella grotta, a prima vista sono visibil vari disegni intagliati tra i quali le navi aliene e esseri dall’aspetto umanoide; in una delle pietre, che a quanto pare è stata rotta dalle spedizioni precedenti, si può notare la parte superiore di una nave spaziale con un essere che viene nel nostro mondo e un ex capo della cultura preispanica che sembra avere apparentemente una spiga di grano. Ci sono altri simboli da decifrare ma queste pietre la gente del posto le chiamavano “pietre del primo incontro.”
Secondo la leggenda della gente del posto, qui sarebbe avvenuto un incontro con esseri venuti attraverso una nave spaziale e quindi sarebbe stato documentato il tutto attraverso le incisioni sulle rocce intrappolate o incorporate in una caverna. Alcuni ricercatori hanno cominciato la loro ispezione con il proprietario del terreno dove si trova la caverna, cosi la prima visita al sito è iniziata tre mesi fa. Infatti nella boscaglia, non solo hanno trovato la grotta, ma anche alcune pietre su cui vengono visualizzate le immagini di questi esseri umanoidi; quindi questa nuova visita del 12 Giugno era in programma.
Ma mentre i ricercatori effettuavano le riprese e scattavano le foto, hanno potuto verificare l’esistenza di un qualcosa di luminoso, di colore dorato. Poi è stato passato il metal detector e cosi hanno scoperto che si trattava di un materiale metallico, e che a quanto pare potrebbe essere una  lamina d’oro sottilissima che si è frammentata e sparsa in tutto il luogo del sito. Così è stato effettuato un prelievo del campione e portato ad analisi, che potrà confermare o meno che si tratti di oro. La notizia di questa scoperta straordinaria è stata riportata dai quotidiani in Messico tra cui Elinformante de Veracruz e Televisapuebla.tv. In Italia nessuno ne ha parlato tranne noi di Segnidalcielo.
José Aguayo ha detto che “Se ad un certo punto l’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico ha deciso di intressarsi a questa scoperta e raccogliere i pezzi delle pietre, per entrambi i gruppi di ricerca sarebbe meglio, anche perché in questo modo si sarebbe accettato il fatto dell’esistenza di un contatto alieno, di cui molti hanno sempre negato l’esistenza delle prove”.
Guardate i due video straordinari relativi all’ispezione nella grotta e alle immagini dei Petroglifi.
Fonte: segnidalcielo
Tratto da: hackthematrix

domenica 18 giugno 2017

Un lavoro povero è davvero ‘meglio di niente’? - Elena Monticelli, Marco Marrone



Mentre riscoppia nuovamente “la questione voucher” nel nostro paese e mentre il caso dei c.d. “Scontrinisti” della Biblioteca Nazionale di Roma è stato per giorni su tutti i giornali e le trasmissioni televisive, come esempio emblematico di lavoro povero, contemporaneamente, con la precipitazione del clima elettorale, il dibattito “reddito sì reddito no” ha raggiunto una polarizzazione in Italia che negli ultimi anni sembrava essersi affievolita, grazie al proliferare di campagne e proposte di legge in materia. La propaganda del M5S, caratterizzata da un approccio “proprietario” del tema del reddito di cittadinanza (nonostante nei fatti la loro proposta di legge riguardi una forma di reddito minimo, dove il termine cittadinanza viene evocato sulla scia del ‘prima gli italiani’), ha determinato un irrigidimento da parte degli altri soggetti politici, addirittura si è utilizzato il discorso del Papa per aprire le prime pagine delle più grosse testate giornalistiche proprio contro il tema del reddito.
Pertanto il pericoloso paradigma che sembra pian piano affermarsi, pare essere: “contro l’aumento della disoccupazione no al reddito di cittadinanza si alla piena occupazione, sì a proposte come il lavoro di cittadinanza”. Ma siamo davvero convinti che le posizioni possano essere ancora così nette? Davvero c’è bisogno, ancora una volta, di riaprire una discussione fondata sulla contrapposizione tra redditisti e lavoristi?
Se così fosse allora avrebbe senso, provare a porre la domanda da un altro punto di vista: è, indistintamente, tutto il lavoro ad essere veicolo di cittadinanza? In che modo il reddito non si contrappone al salario, ma anzi, consente di liberare energie e conflittualità per un suo miglioramento? Infine, in che modo il reddito può ribaltare tendenze di lungo periodo che hanno caratterizzato il fallimento delle politiche del lavoro in Italia?
Alla domanda “che lavoro stiamo producendo?” hanno provato a rispondere in tanti (si segnalano, per esempio, questo articolo di Roberto Ciccarelli o questo di Francesca Coin) che mostrano come siamo di fronte ad un vero e proprio processo di sostituzione di lavoro contrattualizzato, salariato e tutelato con forme di lavoro povero, mal pagato o gratuito. È evidente come questo processo sia il frutto a sua volta delle trasformazioni del lavoro in Italia e di un uso capitalistico della crisi.
  1. Le trasformazioni del lavoro al tempo della crisi

Pensare l’impatto di una delle più lunghe crisi della storia soltanto come recessione e come distruzione di posti di lavoro è riduttivo e pone il rischio di non riuscire a cogliere la reale intensità dei suoi effetti. Senza negare questo aspetto, è necessario integrarlo anche con una lettura delle trasformazioni delle forme con cui le prestazioni lavorative vengono regolate. Come emerge nella tabella 1, che raccoglie le variazioni delle tipologie di impiego dal 2008, anno di inizio della crisi, al 2015, ultimo anno in cui sono disponibili tutti i dati, possiamo vedere come la flessione di oltre 2 milioni di lavoratori con un contratto subordinato a tempo indeterminato non è l’unico dato a segnare variazioni significative. Quello del tempo indeterminato è infatti l’unica tipologia che nel corso di questi anni si è trovata a diminuire, mentre tutte le altre tipologie contrattuali mostrando decisi tassi di crescita. Abbiamo infatti, oltre alla crescita di circa 1 milione di occupati a tempo determinato, la crescita dei tirocini che in appena tre anni quasi raddoppiano passando dai circa 180 mila del 2008 ai quasi 350 mila del 2015. Clamorosa e già tristemente nota è l’esplosione del voucher, che passa dai 28 mila prestatori nel 2008 ai quasi 1 milione e mezzo del 2015, complice non solo la spinta della crisi, ma anche la scelta di governi di destra e di sinistra di estendere progressivamente il dispositivo del lavoro accessorio all’interno del mercato del lavoro. A crescere, infine, sono anche i lavoratori autonomi, un settore sul quale viene esercitata una pressione non solo da una trasformazione del lavoro che dura da oltre 20 anni, fotografata ai suoi esordi dal ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ (Bologna & Fumagalli, 1997) nel 1997; sia da parte di fenomeni come la gig economy, che, come affermato dallo studio rilasciato da McKinsey lo scorso autunno, stanno contribuendo ad incrementare il dato del lavoro autonomo trasversalmente in tutti i paesi occidentali.
Tab. 1 – Variazioni tipologie contrattuali (valori assoluti in 1.000)
 
Fonte: Istat, Inps e Ministero dell’economia, elaborazioni Marrone
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: esiste un filo rosso che attraversa queste forme di impiego? Vi è una logica rintracciabile in ognuno di questi istituti in grado di spiegare perché i datori di lavoro nostrani guardano a queste forme di impiego con sempre maggiore interesse?
Sicuramente, una delle ragioni ha a che fare con la riduzione del costo del lavoro, sia per quanto riguarda istituti quali i tirocini, dove la sovrapposizione tra le attività lavorative svolte dai tirocinanti e l’obiettivo formativo dell’istituto legittima un drastico abbassamento dei costi del lavoro; sia per quanto riguarda altre forme come i voucher o l’utilizzo del lavoro autonomo, che consentono ai datori di lavoro di retribuire soltanto il lavoro effettivamente svolto senza farsi più carico dei bisogni riproduttivi del lavoro.
La volontà di ridurre il costo del lavoro non è però l’unica prospettiva possibile. Come sottolinea la copiosa letteratura che in questi anni ha messo sotto analisi le strategie aziendali nel contesto della produzione globale, persino la corsa all’outsourcing non corrisponde a semplice logiche economiche, piuttosto per: “evitare di adempiere ai propri obblighi di datore di lavoro” (Chen, 2006, p. 11). In altre parole, sembra che la ragione che ha spinto sempre più aziende a ricorrere all’utilizzo di forme di lavoro ‘informale’ sia la volontà di procedere verso una sorta di esternalizzazione all’interno dello stesso luogo di lavoro, come ci ricorda Sassen (1994), particolarmente preziosa per quelle attività come la ristorazione o il commercio che non possono delocalizzare la produzione. I datori di lavoro ricorrono così a questi istituti per ottenere lavoro senza riconoscere loro l’essere all’interno di un rapporto di lavoro, deresponsabilizzandosi nei confronti dei lavoratori, con tutto ciò che questo comporta sia all’interno del luogo di lavoro, in termini di esposizione ad una subordinazione senza più limiti e diritti, sia al di fuori di esso.
  1. Le politiche del lavoro all’insegna del neo-liberismo a bassa intensità.

Nonostante questo processo si presenti nei fatti in una scala globale, le forme che esso assume si inseriscono all’interno di solchi caratterizzati da specificità territoriali che incorporano e indirizzano tali trasformazioni. Questa lettura, di cui una delle migliori sintesi è rappresentata dal lavoro condotto da Barbera, Dagnes, Salento et al. (2016) caratterizza, infatti, la modalità in cui sono state introdotte 35 anni di riforme neo-liberali all’interno del nostro paese. In modo trasversale agli ambiti di intervento, dalle privatizzazioni, alle riforme del lavoro, le retoriche che hanno accompagnato le riforme non hanno mai assunto esplicitamente il frame-work neo-liberale, ma essa è stata sostituita da altra narrazioni, in primis quella ‘storica’ del ritardo economico dell’Italia nei confronti del mercato globale e, soprattutto, continentale.
Tale configurazione, però, non sarebbe stata possibile senza una flessione dello Stato verso la promozione e la difesa degli interessi economici, dismettendo così il ruolo di garante del patto tra capitale e lavoro egemone nel trentennio dal ’45 al ’75. Ciò che ci interessa mettere a fuoco qui, però, è come le politiche del lavoro degli ultimi 30 anni abbiano giocato un ruolo decisivo nel processo di una progressiva informalizzazione del lavoro e del suo impoverimento. Tanto i tirocini, quanto i voucher, infatti, sono stati oggetto di politiche pubbliche che mentre da un lato si proclamavano rivolte ad incrementare l’occupazione, dall’altro incastravano milioni di individui in una trappola di continui ‘lavoretti’ svolti in attesa dell’arrivo di un lavoro ‘vero’. Parallelamente al neo-liberismo a bassa intensità, inoltre, ha insistito su questo processo l’impatto delle nuove tecnologie che, come ci ricorda Marx, funzionano da ‘evidenziatore dei rapporti sociali’, accelerando così le tendenze predatorie di un capitalismo sempre più intenzionato a sottrarsi da una responsabilità legale e sociale, moltiplicando la condizione di lavoratori esclusi dal riconoscimento del rapporto di lavoro anche nelle frontiere della gig economy.
Tuttavia, la particolarità italiana sembra situarsi proprio nella torsione subita dagli ingenti investimento di risorse pubbliche, a partire da strumenti come la garanzia giovani , o il servizio civile, sino alla sua estensione nei circoli della formazione attraverso l’alternanza scuola-lavoro.
L’idea della piena occupazione come valore in sè (spesso sacrificando anche la dimensione qualitativa), l’idea che la disoccupazione sia il frutto di scelte formative sbagliate o di comportamenti individuali che necessitano di essere corretti, l’idea di un welfare ‘attivo’ che scoraggi la dipendenza dai sussidi pubblici, si trovano quindi a determinare un paradosso[1]. Il risultato di queste politiche non è stata infatti la riduzione del numero dei disoccupati, che, come evidenziato in tabella 2 al contrario è quasi duplicato (a fronte di variazioni molto meno significative tra gli occupati e gli inattivi), ma l’effetto di una sorta di sabbie mobili dove più si tenta di sfuggire all’orizzonte della precarietà, più ci si ritrova a sprofondare in posizioni lavorative prive di diritti e, spesso, anche di salario. I disoccupati, infatti, non sono coloro privi di un lavoro, ma coloro che ne sono alla ricerca e, a comporre questa categoria, sono sempre di più coloro che pur lavorando non accedono né a un reddito sufficiente a soddisfare i propri bisogni, né ad un lavoro in grado di realizzare le proprie aspirazioni di vita.
Tab. 2 – Occupati, Disoccupati e Inattivi (popolazione con almeno 15 anni)


Fonte: Istat, elaborazioni Marrone

3. Reddito come strumento per contrastare il lavoro povero

Il dibattito intorno all’introduzione di misure di sostegno a reddito, pertanto, si è evoluto sempre più in questa direzione, inserendosi nella strettoia politiche del lavoro neo-liberiste, appena illustrate, e le politiche di welfare to work incentivate dall’Unione Europea attraverso i fondi FSE. Il risultato di questa strettoia ha determinato negli ultimi tre anni una produzione legislativa regionale caratterizzata da forme di reddito estremamente condizionate, non al lavoro (inteso come processo formativo di reinserimento nel mondo del lavoro), ma all’adesione a progetti individuali coordinati dai servizi sociali o a forme di tirocinio, segnando un’inversione di tendenza rispetto ad alcune leggi regionali approvate in passato (es. l. r. 4/2009 del Lazio) oppure alcune proposte di legge (d.l. 1670 proposto da Sel). La tendenza verso queste forme di condizionalità caratterizza anche le ultime produzioni legislative a livello nazionale, in particolare il recente REI (reddito di inclusione) di cui si attendono i decreti attuativi.
Qualcuno ha scritto: “Cosa c’è di male? Sono forme di reinserimento del beneficiario nella comunità” in altri termini “una restituzione di dignità attraverso una qualche forma di attività”.
Questa obiezione, in realtà però, ha senso solo in una visione della povertà come espressione di disagio sociale, problemi legati alla salute mentale o a forme di inabilità sociale. Le nuove forme di povertà, però, sono sempre più il riflesso di quel combinato tra stati di disoccupazione e prestazioni lavorative rese al di fuori dei tradizionali schemi contrattuali e dunque estranee ai sistemi di tutela del lavoro vigenti (lavori indecenti e poveri) illustrato in precedenza. Per tali ragioni una condizionalità, legata a progetti di presa in carico dei servizi sociali o di tirocini, o di lavori socialmente utili, che non tenga conto della “congruità” e quindi della storia del beneficiario (delle sue skills e conoscenze), potrebbe essere lesiva della libertà di scelta dell’individuo. Allo stesso modo l’obiezione “serve una controprestazione ad un’erogazione in denaro”, sembrerebbe non tener conto della diversa natura del reddito e del salario: il primo rientra negli strumenti di welfare, pagati dalla fiscalità generale, mentre il secondo è la remunerazione che deriva dalla prestazione lavorativa. In un contesto di sostituzione progressiva del lavoro salariato con forme di lavoro povero, una misura di reddito, condizionata allo svolgimento di attività paralavorative, probabilmente aumenterebbe la produzione di lavoro indecente, invece che interromperla. Per questo il reddito minimo (e a maggior ragione il reddito di cittadinanza) sono un’altra cosa. Non sono strumenti pensati per impiegare le persone “pur di far fare loro qualcosa”, sono strumenti pensati affinché ciascuna persona sia guidata e supportata nelle sue scelte, sia quelle produttive (di lavoro e di ricerca di lavoro), sia quelle relative al tempo liberato dal lavoro, senza l’assillo del bisogno (Bronzini 2016); in altre parole uno strumento di autodeterminazione e di redistribuzione, in una fase caratterizzata da un aumento delle disuguaglianze sociali.
Se si accetta questa visione, allora, il reddito può essere uno strumento per una battaglia di liberazione dai lavori poveri, sfruttati, mal pagati e gratuiti (Leonardi, Pisani, 2017), verso una società in cui sia possibile lavorare meno e lavorare meglio, in un più ampio sforzo garantistico delle capacità individuali, e della garanzia di un tempo sottratto al mercato da impiegare per altre attività (Fumagalli, Morini 2010), non per forza nel consumo come dicono in diversi, ma ad esempio nella cura degli affetti (attività che continua a gravare prevalentemente sulle donne). In quest’ottica, quindi, sì, il reddito si contrappone al lavoro, ma al lavoro indecente e sfruttato che sta diventando non l’eccezione, ma il paradigma che la nostra generazione (e quelle future) sono (e saranno) costrette ad accettare come unico possibile.

Conclusioni.

Benchè “la fine del lavoro” non sembri davvero vicina, è evidente come questi anni di crisi abbiano radicalmente trasformato il modo in cui si lavoro. Tuttavia, questo non riguarda soltanto l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali, ma le trasformazioni in atto sembrano approfondire le tendenze di un capitalismo che ha esteso sempre di più le sue dinamiche di accumulazione. In questo scenario, limitare l’analisi e la proposta politica al problema della creazione di posti di lavoro risulta una vera e propria semplificazione che non tiene in considerazione la moltiplicazione del lavoro al di fuori delle dimensioni formali che abbiamo conosciuto sino ad oggi. Se c’è un elemento del voucher che è necessario non limitare alla sua natura è proprio il tentativo da parte del capitale di sottrarsi da quei vincoli di reciproci obblighi e prerogative che lo legava al lavoro. La sua esplosione ha infatti messo a nudo processi che da tempo si consumavano all’ombra dell’economia formale, rendendo noto come a mancare non sia tanto il lavoro, ma la voglia di retribuirlo e, soprattutto, di retribuirlo adeguatamente.
A rendere possibile questo processo vi è l’egemonia di un pensiero che non tollera altro modo di pensare il lavoro se non in funzione delle esigenze produttive, annichilendo invece la prospettiva di un lavoro che, in quanto cardine della cittadinanza, sia compatibile con le esigenze di vita sia nel luogo di lavoro, sia al di fuori di esso. L’impatto del neo-liberismo a bassa intensità emerge dunque anzitutto nella nozione a-critica del lavoro che la razionalità neo-liberale ha imposto, è questo infatti l’altro lato della medaglia del ‘un lavoretto (che sia in voucher, tirocinio, o altro) è sempre meglio di niente’e risulta quasi “inaccettabile” rifiutarlo.
Riprendere il tema del reddito (a cominciare da un reddito minimo), senza forme di condizionalità legate ad attività para lavorative, che consenta di sottrarsi ai ricatti dell’economia dei lavoretti ci sembra non solo non essere in contrasto con il lavoro, ma sempre più necessario, per far tornare questo ad essere un veicolo di cittadinanza piena. Per milioni di giovani nel nostro paese, infatti, non esiste alcuna alternativa alla costante precarizzazione, al di fuori del welfare familiare, peraltro pesantemente colpito da quasi un decennio di crisi, facendo del lavoro povero un vero e proprio cancro in espansione nella nostra società. Reddito minimo garantito deve tornare a significare garantire a ciascuno la possibilità di una vita degna al di fuori del suo ruolo nel mercato, perché non tutto il lavoro è dignità, ma solo quello dignitosamente retribuito.
*Marco Marrone è dottorando all’Università di Bologna.
Elena Monticelli è dottoranda all’Università La Sapienza di Roma.
[2] I dati sul tirocini sono limitati ai tirocini post-curriculari e sono disponibili soltanto a partire dal 2012
[3] I dati sui voucher sono stati elaborati a partire dal database Inps