lunedì 10 giugno 2019

Italia, potenza scomoda: dovevamo morire, ecco come. - Galloni x Messora

CiampiAndreottiAgnelliAndreatta
DraghiMerkel e MontiXi Jinping, nuovo leader cineseNino Galloni
In ordine: Ciampi, Andreotti, Agnelli, Andreatta, Draghi, Merkel, Monti, Xi Jimping, Galloni.

Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il Nino Galloniblog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”.  Andreotti Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».

Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana Ciampi avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».

Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più Agnelli facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca  Andreatta Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di Draghidollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Merkel e Monti Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.

Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».

Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello Xi Jinping, nuovo leader cinesedella trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».

https://www.libreidee.org/2013/05/italia-potenza-scomoda-dovevamo-morire-ecco-come/?fbclid=IwAR0vCbv1i_bCZw3M43_zumRD6dTNGT4BB8tsjDUh3BU_eNHaAls_CGfirAk

#Enricostaisereno, nuovo scontro Renzi-Letta. “Nel 2014 andò a casa per risultati devastanti”. “Volti pagina, si sta meglio”.

#Enricostaisereno, nuovo scontro Renzi-Letta. “Nel 2014 andò a casa per risultati devastanti”. “Volti pagina, si sta meglio”

Nel corso della sua intervista a Repubblica delle Idee a Bologna l'ex sindaco di Firenze è tornato sull'hashtag che lanciò appena un mese prima di prendere il posto a Palazzo Chigi. La replica: "Mi permetto un consiglio sulla base della mia personale esperienza; volti pagina, guardi avanti".

L’imbarazzo, gli occhi bassi, gli sguardi che si incrociano appena al momento del passaggio della campanella avevano fatto presagire, il 22 febbraio 2014, che difficilmente tra i due sarebbe mai più corso buon sangue. Ma era difficile immaginare che a distanza di cinque anni Matteo Renzi ed Enrico Letta si affrontassero nell’ennesimo diverbio a distanza sulle vicende che portarono al passaggio di consegne.
A cominciare è stato l’ex sindaco di Firenze nel corso della sua intervista a Repubblica delle Idee a Bologna. “Enrico Letta è andato a casa, su richiesta di Roberto Speranza, capogruppo del Pd, perché i risultati economici di quel governo erano devastanti“, ha detto Renzi. Per poi aggiungere: “Con Letta il Pil era a -1,7%, le riforme erano bloccate, il Parlamento fermo e quindi ci assumemmo la responsabilità di un cambio”. “La vicenda con Letta – ha sostenuto ancora – è falsata dalla mitica discussione sullo ‘stai sereno'”. Il riferimento è ovviamente a quel famoso hashtag, #enricostaisereno, che Renzi lanciò da Daria Bignardi alle Invasioni Barbariche il 17 gennaio 2014 per smentire il fatto che avrebbe preso il suo posto a Palazzo Chigi. Passò poco più di un mese ed era a fare premier.
Renzi ha commentato anche la notizia che Letta sia in corso per un ruolo importante in Europa. “Se Francia e Germania lo avessero voluto a capo della commissione ce lo avrei portato io, ma Enrico Letta è molto forte nelle redazioni dei giornali e poco nelle cancellerie“, ha detto. Su Twitter è arrivata la replica: “Leggo Matteo Renzi prendersela ancora con me – si legge – rimestando sulle stranote vicende del 2014 (5 anni fa… una vita). Mi permetto un consiglio sulla base della mia personale esperienza; volti pagina, guardi avanti. Si fanno cose interessanti e si sta anche meglio“.

sabato 8 giugno 2019

Graziano Mesina scarcerato: sentenza di condanna a 30 anni non depositata.

Graziano Mesina scarcerato: sentenza di condanna a 30 anni non depositata

Mesina, conosciuto anche con il soprannome di Grazianeddu, era finito in carcere sei anni fa perché ritenuto a capo dell'organizzazione che si occupa di traffico internazionale di droga.

Scarcerato per decorrenza dei termini. Così è tornato in libertà Graziano Mesina, uno dei più importanti esponenti del banditismo sardo in carcere a Nuoro per traffico internazionale di droga. La scadenza è dovuta al fatto che le motivazioni della sentenza d’appello non sono state ancora depositate, facendo così decadere la misura cautelare. Mesina risulta già uscito dal carcere di Badu ‘e Carros accompagnato dalle sue avvocate, Maria Luisa Venier e Beatrice Goddi, ed è ora atteso nella stazione dei Carabinieri di Orgosolo.
“Finalmente respiro l’aria del mio paese. Sono felicissimo, non me lo aspettavo”, ha dichiarato Mesina al suo arrivo a Orgosolo, intorno alle 17.30, insieme all’avvocato Goddi. “È tutto cambiato in sei anni. Stavo andando alla vecchia caserma, anche quella è nuova”, ha detto sorridendo prima di entrare nella nuova sede che ospita la stazione dei Carabinieri. Mesina avrà l’obbligo di firma giornaliero e non potrà uscire dalla propria abitazione dalle 22 alle 6.
“Dal giorno del suo arresto nel giugno del 2013 ad oggi sono sei anni esatti e Graziano Mesina è ancora in attesa di giudizio – ha dichiarato il suo legale, Maria Luisa Venier – Deve uscire dal carcere per decorrenza dei termini della custodia cautelare. La legge dice che un cittadino in Italia non può essere detenuto più di sei anni in condizione di misura cautelare. Mesina è ancora in attesa di giudizio. La sentenza della Corte d’appello di Cagliari con le motivazioni non è stata ancora depositata. Per cui la Corte d’appello ha disposto la scarcerazione. Ora resta libero fino alla sentenza definitiva della Cassazione”, ha concluso l’avvocato.
Mesina, 77 anni, conosciuto anche con il soprannome di Grazianeddu, era finito in carcere sei anni fa perché ritenuto a capo dell’organizzazione che si occupa di traffico internazionale di droga. Era stato processato e con sentenza d’appello a Cagliari, nel 2018, e condannato a 30 anni di reclusione. L’arresto del 2016 aveva provocato anche la revoca della grazia chiesta nel 2003 e ottenuta nel 2004 su autorizzazione dell’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Nato a Orgosolo nel 1942, Mesina è stato uno dei principali esponenti del banditismo sardo nel Novecento, coinvolto in numerosi crimini che gli erano costati l’ergastolo e protagonista anche di innumerevoli evasioni. Al processo d’appello a Cagliari aveva rilasciato alcune dichiarazioni nelle quali si era dichiarato innocente. “Quando ho commesso reati – aveva detto davanti alla Corte – me ne sono sempre fatto carico e non sono mai stato capo neppure negli anni Sessanta. Ma dopo la grazia non ho mai fatto nulla di ciò di cui vengo accusato”.

venerdì 7 giugno 2019

Giudice firma la sua assoluzione, Renzi la promozione a capo della Corte dei Conti. - Thomas Mackinson | 26 Febbraio 2015

Giudice firma la sua assoluzione, Renzi la promozione a capo della Corte dei Conti

Martino Colella, classe 1945, magistrato napoletano di lungo corso a un passo dalla pensione (che scatterà il 31 dicembre) giura: "Nessun collegamento tra le due vicende".

Il giudice firma la sua assoluzione in appello, Renzi la sua nomina a capo della Corte dei Conti. Sei giorni dopo la pubblicazione della sentenza che ha definitivamente assolto il Presidente del Consiglio per la vicenda dei portaborse assunti in Provincia il Governo, su proposta dello stesso Renzi e per decreto, ha ratificato la nomina del magistrato che presiedeva il collegio giudicante a Procuratore Generale della Corte dei Conti.

Si tratta di Martino Colella, classe 1945, magistrato napoletano di lungo corso a un passo dalla pensione. La sua promozione è arrivata neanche una settimana dopo il deposito della sentenza della I Sezione centrale d’appello di Roma, avvenuto il 4 febbraio, che sollevava il premier da ogni responsabilità sulla vicenda degli incarichi dirigenziali conferiti senza concorso né laurea al personale di staff della sua segreteria che era costata a Renzi due condanne per danno erariale. Non è un dettaglio. Proprio Colella ha firmato, insieme a quattro magistrati, l’assoluzione che il 7 febbraio ha provocato l’esultanza del diretto interessato (“La verità è ristabilita”) e non poche perplessità nel mondo del diritto, giacché le motivazioni sono ricondotte al fatto che era un “non addetto ai lavori” e quindi poteva non percepire l’illegittimità degli atti che autorizzava. Singolare non è solo la pronuncia che, come rilevato da più parti, rischia di spalancare le porte a un sistema diffuso di elusione della responsabilità erariale, mandando assolti i tanti politici “non addetti ai lavori”.

Il punto è che il giudice che presiedeva il collegio che a metà dicembre, in camera di consiglio, ha deciso il proscioglimento dell’imputato Renzi è lo stesso che un mese e mezzo dopo il presidente Renzi ha nominato PG della Corte, cioè capo di coloro che debbono indagare se sussistono ipotesi di danno erariale. La sentenza è stata depositata il 4 febbraio e la nomina è stata ratificata il 10, a margine del Cdm numero 49. “Su proposta del Presidente del Consiglio Matteo Renzi”, si legge nei documenti della riunione, vengono nominati un presidente aggiunto e il capo della Procura Generale della Corte dei Conti, con decorrenza a partire dal 25 marzo 2015. Il primo è Arturo Martucci di Scarfizzi. Il secondo è, appunto, Martino Colella. L’indicazione era stata avanzata il 13 gennaio dal Consiglio di presidenza della Corte dei Conti che ha deliberato all’unanimità e trasmesso i nominativi a Palazzo Chigi.

L’interessato, contattato dal Fatto, si dice certo che le due vicende siano distinte. “La Presidenza del Consiglio riceve la delibera e la formalizza”, spiega Colella che rivendica un cv di prima grandezza sugli altri sei presidenti di sezione in corsa: “Sono stato il più giovane vincitore del concorso per l’Avvocatura di Stato, ho vinto quello d’ingresso alla Corte a soli 26 anni. Dopo il terremoto dell’Aquila ho ricostruito e riorganizzato la sezione, sono presidente d’appello da oltre due anni e nel 2014 ho redatto e sottoscritto 115 sentenze (una è quella che ha assolto Renzi, ndr). Renzi non l’ho mai visto né sentito”. Di più, Colella giura di non aver ricevuto affatto regali dall’attuale Governo, anzi: “L’incarico che mi danno, grazie a questo governo, non comporta alcun guadagno aggiuntivo perché il mio stipendio è già al tetto dei 240mila euro lordi l’anno. Dovrò anzi restituirne 20mila. Sempre grazie a questo governo, poi, andrò in pensione il 31 dicembre prossimo rinunciando ai migliori anni della carriera”. Proprio così, l’altro aspetto curioso della vicenda è che il nuovo incarico durerà soltanto nove mesi e mezzo. Non è ancora partito, e già si parla del successore.

Sia come sia, le domande restano tutte: tra 600 magistrati contabili, possibile che sia stato scelto proprio quello che ha presieduto il collegio che un mese e mezzo prima ha mandato assolto il premier? Potevano ignorarlo i consiglieri della Corte? Proviamo dall’altra parte: poteva non sapere Renzi che stava ratificando la nomina del suo giudice a Berlino? Proprio alla luce delle motivazioni della sentenza vergate dal collegio di Colella si direbbe che sì, tutto è possibile. Così come non si era accorto di aver firmato delle nomine illegittime di portaborse, perché in fondo non era un addetto ai lavori, è possibile che non si sia accorto di aver promosso il giudice che lo ha assolto. Renzi, presidente di Provincia e del Consiglio. Ma sempre a sua insaputa.
Dal Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2015.
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. 
Nomina del Procuratore Generale, precisazione su articolo di stampa.
Relativamente a quanto riportato in un articolo di stampa nel quale sono contenute alcune illazioni particolarmente gravi e prive di ogni fondamento nei confronti della Corte dei conti, l’Ufficio stampa precisa quanto segue.La nomina del Procuratore Generale della Corte dei conti è disposta dal Consiglio di presidenza – a seguito di un’apposita procedura concorsuale – e formalizzata con un Decreto del Presidente della Repubblica, controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Nello specifico, alla procedura concorsuale bandita dal Consiglio di presidenza il 17 dicembre 2014, hanno partecipato sette Presidenti di Sezione della Corte dei conti. All’esito delle audizioni personali degli interessati e valutati i fascicoli e i curricula dei singoli candidati, il Consiglio di presidenza, nell’adunanza del 13-14 gennaio 2015, ha nominato, all’unanimità, Procuratore Generale della Corte dei conti il Presidente di Sezione dott. Martino Colella, peraltro già primo nella graduatoria parziale elaborata sulla base dell’anzianità di servizio e della professionalità specifica, in considerazione dell’elevatissimo spessore professionale e dell’indiscusso prestigio dello stesso.
Corte dei conti – Ufficio stampa
LA REPLICA DELL’AUTORE. 
Riceviamo la nota e volentieri pubblichiamo. Rileviamo che la ricostruzione dell’articolo e della nota sono sostanzialmente identici nella definizione delle date e delle procedure che hanno portato il presidente Colella a capo della Procura Generale della Corte dal prossimo 25 di marzo. Proprio per fornire una ricostruzione esatta dei fatti e anche una spiegazione delle circostanze con cui è avvenuta la procedura abbiamo provveduto a contattare il presidente Collela dando ampio spazio alla sua posizione in merito. Aggiungiamo, per completezza, quello che la nota non dice. E cioé che a sei giorni dal deposito della sentenza, avvenuto il 4 febbraio, il Presidente del Consiglio ha formalizzato la delibera di nomina del magistrato che a metà dicembre ha presieduto il collegio che l’ha mandato assolto.
T.M.

giovedì 6 giugno 2019

Noa.

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Dover ascoltare i vescovi che disquisiscono sul caso Noa, stuprata da bambina e morta a causa dei disturbi provocati dallo stupro, è insopportabile!
Molti bambini restano profondamente turbati dalle porcate che commettono proprio i ministri della chiesa nei loro confronti. Che facciano un mea culpa e tacciano.

Cetta.

Fucilati dai giornali, un prezzo che i Cinque Stelle pagano caro. Mai vista tanta stampa ostile. - Paolo Di Mizio



Il M5S non ha organi di stampa amici, se si eccettuano un paio di testate non ostili (tra le quali questa), e tanto meno televisioni amiche. È evidente che fin dalla campagna elettorale dell’anno scorso, e anche prima, è stato il M5S, non la Lega, l’oggetto principale dell’aggressione da parte dei giornaloni (tutti pro-Pd) e dell’apparato mediatico nel suo insieme.
Perché? Perché la Lega è omologata al sistema politico preesistente, quello del pre-grillismo per intenderci. Quindi la Lega è un avversario (del Pd e dei giornaloni), ma un avversario “naturale”: si muove nello stesso ring, fa parte dello stesso universo, rientra in una funzione antitetica (tesi-antitesi, sinistra-destra), fisiologica in un sistema di potere. Invece i 5 Stelle sono un corpo estraneo e, perciò, potenzialmente, una minaccia mortale. Sono i barbari che invadono la Cristianità e non hanno rispetto per la Croce.
Il potere economico, che controlla l’editoria, lo ha capito subito. Tutta l’artiglieria è stata subito puntata ad alzo zero contro i grillini. Non solo i giornaloni amici del Pd (Corriere della SeraLa StampaLa RepubblicaIl Sole 24 OreL’Espresso), ma anche tutti gli altri giornali di complemento (Il MessaggeroIl GiornoIl Resto del CarlinoLa NazioneIl Secolo XIXIl GazzettinoIl Mattino di NapoliLa Gazzetta del MezzogiornoIl Giornale di Sicilia, ecc., che per altro fanno capo a tre o quattro editori soltanto).
Anche le batterie della Lega e del centrodestra hanno sparato ad alzo zero: LiberoIl GiornaleIl Tempo di Roma e, pur con ammirevole moderazione, La Verità di Belpietro. Lo stesso dicasi per tutte le reti televisive Rai, Mediaset, Sky e La7, sia nei telegiornali sia negli spazi di dibattito e approfondimento (rassegne stampa e talk show, anche qui con poche eccezioni, come la trasmissione Coffee Break di Andrea Pancani, che da tempi non sospetti ha cercato un equilibrio tra tutte le parti politiche, invitando per questo molto spesso il direttore de La NotiziaGaetano Pedullà).
La grande ingenuità dei grillini è stata quella di credere che, dopo aver occupato la roccaforte del potere politico, e quindi economico, ossia il governo, questa potesse essere detenuta stabilmente senza impossessarsi dei cannoni, ossia di una quota adeguata dei mezzi di comunicazione. Immaginavano che sarebbe bastata la cavalleria leggera dei social media. Ma il risultato si è visto alle elezioni europee: come nella carica di Balaclava, l’artiglieria pesante ha falcidiato la cavalleria leggera: morti e feriti, sei milioni di elettori. Non è stato il solo errore del M5S, ma probabilmente l’unico davvero fatale.
La strada da seguire sarebbe stata ben diversa. Non trasudare disprezzo per i giornali, ma al contrario attuare una strategia dell’attenzione. Far balenare agli editori che dall’ostilità avrebbero avuto qualcosa da perdere (legge sul conflitto d’interessi, per esempio). Non lasciare le leve della Rai nelle mani delle vecchie stratificazioni partitiche. E nel contempo, coltivare un sistema editoriale di area, capace di elaborare e fare “cultura”, ossia di fornire una narrazione diversa. Insomma, sarebbe servita una riflessione più profonda sul tema. Se così fosse stato, oggi il Movimento Cinque Stelle non sarebbe disarmato di fronte al ritorno dei vecchi poteri forti.

“LA NUOVA PD 2” - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 6 giugno 2019



Apprendiamo sgomenti che lo scandalo che investe il Csm è “come quello della P2”. Parola di Giuseppe Cascini, leader della corrente progressista Area, che ringrazia il presidente Sergio Mattarella e il vicepresidente David Ermini per averci salvati dalla nuova P2, spingendo fuori chi ne era stato infettato.
In effetti era dal 1981, cioè dalla pubblicazione delle liste di Licio Gelli, che non rotolavano tante teste al Csm: al momento cinque consiglieri, uno dimissionario perché indagato e quattro autosospesi per aver discusso del nuovo procuratore di Roma con Luca Lotti, Cosimo Ferri e Luca Palamara. Cioè con due deputati del Pd e col leader della corrente Unicost. Dei tre, gli intrusi erano i primi due: Palamara faceva il suo sporco mestiere di capocorrente, come tutti i capicorrente da che mondo è mondo e Csm è Csm. Almeno finché le correnti non verranno stroncate con l’unica riforma in grado di neutralizzarle: il sorteggio dei membri togati e la cancellazione della quota parlamentare, che porta nel Csm gl’interessi dei partiti.
Ma torniamo alla “nuova P2”. Se, come dice Cascini, esiste ed è stata respinta con la ritirata delle toghe in contatto con Lotti e Ferri, non si scappa: la “nuova P2” sono Lotti e Ferri. B. e i gialloverdi non c’entrano nulla: c’entra solo il Pd. Eppure del Pd non si parla e il Pd non parla (i possibili motivi del silenzio li spiega Lillo a pag. 4). Se quattro membri del Csm si autosospendono senz’aver commesso reati, ma solo per aver parlato con Lotti e/o Ferri, possibile che il Pd non dica nulla su Lotti e Ferri? Che Zingaretti non chieda loro di dimettersi? E che nessun giornalone associ la “nuova P2” al Pd e chieda al segretario di disinfettarlo dai neopiduisti?
Lotti e Ferri non sono due marziani insospettabili, che nessuno immaginerebbe a impicciarsi in nomine togate. Lotti, lo spicciafaccende di Renzi, è imputato per rivelazione di segreti e favoreggiamento nel processo Consip e ciononostante, o forse proprio per questo, fu promosso da Gentiloni e Mattarella ministro dello Sport (quand’era già indagato) e ricandidato in un posto sicuro alle elezioni del 2018.
Ferri, figlio del ministro dei 110 all’ora, magistrato, ras di Magistratura indipendente, presenza fissa nelle intercettazioni di gravi scandali (P3, Calciopoli, i traffici di B. e Agcom contro Annozero), divenne sottosegretario alla Giustizia in quota B. nel governo Letta, poi restò lì in quota Verdini nei governi Renzi e Gentiloni, infine Renzi lo impose come candidato sicuro alle elezioni del 2018. Eppure lo stesso Renzi l’aveva definito “indifendibile” per un altro scandalo.
Nel 2014 Ferri era stato beccato a inviare centinaia di lettere agli ex colleghi in toga per invitarli, da sottosegretario, a votare al Csm due Carneadi di MI suoi amici, puntualmente eletti. Di Lotti e di Ferri, dunque, si sapeva tutto: due personaggi al di sotto di ogni sospetto. Il Fatto li inserì nella lista degli impresentabili alle elezioni del 4 marzo, ovviamente in beata solitudine: quelli che oggi menano scandalo tacevano e acconsentivano.
Ora indovinate un po’: chi tirò i fili, nel settembre scorso, dell’elezione a vicepresidente del Csm del deputato renziano Ermini, che ora ci avrebbe salvati dalla “nuova P2”? La “nuova P2”. Cioè Lotti e il suo Pd, Ferri e la sua MI, Palamara e la sua Unicost. Il Plenum doveva scegliere fra Alberto Maria Benedetti, un docente mai iscritto a partiti, indicato come laico dai 5Stelle.
Finì 13 a 11: per Ermini votarono il Pd (cioè lui), i 10 togati di MI e Unicost e i due capi della Cassazione (Mammone di MI e Fuzio di Unicost); per Benedetti, i laici di M5S e Lega, i togati di Area e di AeI (Davigo e Ardita).
Fu così che, col plauso dei giornaloni, fra un vicepresidente apolitico e un deputato renziano come Ermini, la maggioranza del Csm preferì il secondo. Quello che aveva passato gli ultimi due anni ad attaccare i magistrati che avevano osato indagare sul padre e i compari di Renzi coinvolti nello scandalo Consip (“Notizie di una gravità inaudita. Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?”, “Scafarto non può aver fatto tutto da solo… vogliamo i mandanti”, “Inchiesta inquietante per colpire l’allora presidente del Consiglio Renzi”, “Un atto gravissimo, una caccia all’uomo per attaccare un organo dello Stato”). E oggi viene spacciato per il salvatore della patria dalla “nuova P2”, cioè dagli amici che l’hanno fatto eleggere appena otto mesi fa.
Ieri, mentre Zingaretti pigolava “chiedo chiarezza”, solo l’ex procuratore antimafia Franco Roberti, ora eurodeputato indipendente del Pd, ha squarciato il muro dell’omertà e dell’ipocrisia, chiedendo la condanna politica di Lotti e Ferri e ricordando gli effetti devastanti della “riforma” Renzi che prepensionò per decreto centinaia di magistrati per impossessarsi delle Procure-chiave. Se l’indagine su Palamara fosse scattata mesi o anni fa, durante la nomina dei dirigenti di altri uffici giudiziari, avrebbe squadernato le stesse contiguità e complicità fra magistrati e politici, e magari pure le interferenze del Quirinale. Che, ai tempi di Napolitano, interferiva addirittura in pubblico, con lettere e comunicati (dal caso De Magistris allo scontro Robledo-Bruti Liberati allo scandaloso stop al voto sul procuratore di Palermo perché – anche allora – il Csm intendeva bocciare Lo Voi e votare il più titolato Lo Forte): figurarsi in privato.
Ps. Ieri, su Repubblica, Carlo Bonini è tornato a calunniare il Fatto (“macchina del fango”) perché abbiamo dato notizie che lui preferisce occultare. È lo stesso giornale che il 23 maggio, per questa partita scandalosa tutta targata Pd, titolava, restando serio: “Destra e gialloverdi alla conquista della Procura di Roma”.
Vergogniamoci per loro.