mercoledì 7 aprile 2021

“Sostegno a Draghi ma profonda divergenza su Conte e M5s”. Letta vede Renzi (dopo i big di centrosinistra, centrodestra e pure le Sardine).

 

I due rivali si vedono per un faccia a faccia durato 40 minuti che fonti del Nazareno definiscono "franco e cordiale". Sulle amministrative di autunno, il segretario si è limitato ad ascoltare alcune idee del leader di Italia viva. Poi ha sottolineato che considera il rapporto coi 5 stelle essenziale per costruire in prospettiva un’alternativa vincente a Fdi e Lega.

E alla fine i due rivali si sono seduti insieme. Più di sette anni dopo la monovra che lo portò a essere sfrattato da Palazzo Chigi, a quasi un mese dal suo ritorno in Italia per essere eletto segretario del Pd, Enrico Letta ha incontrato Matteo Renzi. Il leader di Italia viva è stato ricevuto nella sede di Arel, Agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta. Un faccia a faccia di 40 minuti, il cui contenuto è stato diffuso da fonti del Nazareno: i due hanno fatto un’analisi a tutto campo e convenuto sul fatto che in questo momento lo sforzo prioritario debba essere sul sostegno alla campagna vaccinale del governo e alle azioni di sostegno economiche. Letta e Renzi hanno poi ragionato sulle prospettive future trovando, spiegano ancora dal Nazareno, alcuni punti di accordo e altri disaccordo. Una è in particolare la madre di tutte le divergenze che separa Letta dall’uomo che lo cacciò da Palazzo Chigi: il rapporto Giuseppe Conte e il M5s. Rapporto che Letta considera essenziale per costruire in prospettiva un’alternativa vincente a Fdi e Lega. Renzi, invece, è il responsabile della caduta del governo Conte.

Che i due la vedessero all’opposto sui 5 stelle e sull’ex presidente del consiglio – uno dei primi big visti da Letta – era cosa nota. Sarà per questo che dal Nazareno provano a buttare acqua sul fuoco definendo l’incontro tra i due rivali come “franco e cordiale“. Sulle amministrative di autunno, invece, pare che Letta si sia limitato ad ascoltare alcune idee di Renzi. Insomma: a parlare era quello di Rignano sull’Arno, mentre il pisano ascoltava, in un incontro tutto toscano che ha animato il dibattito interno al Pd tra il 2013 e il 2014, cioè quando Renzi prima lanciò l’hashtag #enricostaisereno, per tranquillizzare l’allora premier, salvo decidere di sostituirlo a capo del governo. È per questo motivo che l’incontro tra i due era atteso sin dal ritorno di Letta in Italia. Il segretario del Pd, però, prima di Renzi ha preferito vedere praticamente tutto l’arco costituzionale. “Dulcis in fundo ha visto me? Non so quanto dulcis ma non è un problema che mi abbia visto dopo altri …il Pd ha detto che è stato un incontro franco e cordiale, io dico molto franco e molto cordiale, sono d’accordo”, ha commentato Renzi a La 7. Poi ha confermato: “Con Letta, su Conte e il M5s abbiamo opinioni diverse, questo era noto ed è stato confermato. Io non voglio stare con Salvini e Meloni a destra ma nè con i grillini e i populisti a sinistra. Letta, comprensibilmente, cerca una alleanza strategica con il M5s e Conte. Vedremo chi avrà ragione da qui ai prossimi 2 anni”. Quindi ha dato un consiglio al rivale: “Al posto di Enrico non farei accordi con i 5 Stelle”.

Prima di vedere il leader di Italia viva Letta aveva incontrato Giuseppe Conte a Roberto Speranza, cioè quelli che considera gli alleati naturali del suo partito, ad Antonio Tajani e Giorgia Meloni, le facce dell’opposizione ai dem. E pure Matteo Salvini, con il quale ha avuto modo di dialogare durante un evento in videoconferenza dell’Ispi. Poi ha incontrato Carlo Calenda, le Sardine, i Verdi, persino quelli di Demos, il network di democrazia solidale guidato da Mario Giro. Un’agenda affollata in cui il nome di Renzi sembrava non esserci mai. E infatti da Italia viva si erano lamentati: “Non ci sono stati contatti per il momento tra Letta e Renzi. Il segretario del Pd ha evitato di chiamare il leader di IV che però fa sapere di non avere alcun problema sulla questione“, avevano fatto sapere il 31 marzo. Letta si era dovuto giustificare: “Renzi? Lo incontrerò e parleremo di che tipo di futuro costruire per la Sinistra“, aveva detto a domanda diretta posta da Lilli Gruber. Che aveva chiesto: Quando intende incontrarlo? Alla fine del suo lungo giro di colloqui? “No, non è l’ultimo, devo fare ancora diversi incontri”, era stata la risposta. Che poi aveva messo le mani avanti: “Noi vogliamo costruire un’alleanza di centrosinistra con i 5 Stelle“. Renzi, invece, pare di no.

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Benedetto Figliuolo. - Marco Travaglio

 

Da ex alpino, ho il massimo rispetto per il Comm. Str. Gen. C.A. F. P. Figliuolo e soprattutto per le medaglie, le mostrine e i nastrini che gli piastrellano il lato sinistro dell’uniforme (e forse anche il retro). Ma l’altro giorno, quando ha dichiarato che ad aprile avremo 8 milioni di vaccini, dunque ne faremo 500mila al giorno, mi è venuto in mente un aforisma di Aldous Huxley: “Ci sono tre tipi d’intelligenza: l’intelligenza umana, l’intelligenza animale e l’intelligenza militare”. Ma benedetto Figliuolo: non l’ha ancora capito che il numero dei vaccini dipende dai galantuomini di Big Pharma e dai geni delle Regioni? Che, se dài i numeri a caso, la gente si ricorda e s’incazza? E che 8 milioni diviso 30 giorni fa 266mila, non 500mila? Si teme che lo sventurato generale (ma chi gliel’ha fatto fare?) sia caduto in preda della sindrome del “bugiardo sincero”: come B. che – notò Montanelli – “crede alle bugie che racconta”. Anche perché la stampa, che di solito critica i potenti aiutandoli a sbagliare meno, dacché governano i Migliori li convince di essere infallibili e li aiuta a sbagliare di più.

Il 1° marzo, quando rimpiazzarono Arcuri col Generalissimo senza spiegare perché, fu tutto un coro di “finalmente!”, “era ora!”, “arrivano i nostri!”. Ma Bersani disse in tv: “Con Arcuri siamo stati per giorni i primi nella Ue per vaccinazioni, poi col taglio delle dosi siamo rimasti alla pari dei grandi. Segnatevi i dati e rivediamoci fra un mese: se avremo fatto meglio, chapeau; se avremo fatto peggio, qualcuno dovrà spiegare”. Dopo cinque settimane, l’Italia scivola verso il fondo-classifica. Qualcuno prima o poi spiegherà perché l’ad di Invitalia, esperto in sistemi industriali, organizzazioni complesse e contratti commerciali, è stato sostituito da un esperto in guerre e ospedali da campo (quando per la logistica vaccinale l’esercito era già coinvolto). Ieri, dopo settimane passate a titolare su “cambi di passo”, “svolte”, “accelerazioni”, “sprint” sui vaccini, “500mila al giorno”, anzi “600mila”, chi offre di più, ieri i giornaloni han cominciato a parlare di “flop”. Il boomerang sta tornando indietro. Come volevasi dimostrare. Il 23 novembre 1930, infastidito dagli eccessi laudatorii della Gazzetta del Popolo diretta dal fascistissimo Ermanno Amicucci, Benito Mussolini telegrafò al prefetto di Torino: “Moderi atteggiamento ultra-demagogico della ‘Gazzetta’ che, facendo attendere i miracoli, finisce per sabotare l’opera del governo”. Non sappiamo se il dispaccio abbia sortito l’effetto sperato. Ma sappiamo cosa accadrebbe oggi se gli uffici stampa di Draghi e Figliuolo ne inviassero uno identico ai direttori dei giornaloni: questi penserebbero a un pesce d’aprile ritardatario.

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Che ridere i comici che si sfidano per far ridere: “Lol”. - Selvaggia Lucarelli

 

Sui comici girano un sacco di luoghi comuni: lontani dal palco sono tristi, sono competitivi, sono insicuri, si venderebbero la madre per una battuta. Quasi tutto vero, per giunta. Poi c’è la storia “non ridono mai, la comicità altrui li diverte poco”. E in effetti, è vero pure questo. I comici – da spettatori – conoscono i meccanismi della battuta.
Ne anticipano spesso il finale, si annoiano con facilità, hanno il filtro critico costantemente attivato perché sono interessati non tanto al risultato (la risata) quanto alla costruzione. Alla tecnica. E infatti, l’unica cosa che li diverte davvero, è quasi sempre tutto ciò che annulla ogni costruzione. Ciò che li spiazza. Solitamente, le cose più sceme: una barzelletta triste, una volgarità gratuita e inattesa, un tentativo maldestro di far ridere, quelle cose che fanno palesemente ridere solo chi le dice, il coraggio di certi comici allo sbaraglio, la comicità fanciullesca.

Bisogna partire da qui per raccontare cos’è Lol – Chi ride è fuori, lo show di Amazon Prime (ispirato a un format giapponese) in cui dieci comici devono trascorrere sei ore insieme in una stanza cercando di non ridere a battute e gag altrui. Uno show che sta avendo un clamoroso successo, forse il primo vero successo di Amazon Prime dopo qualche tentativo mal riuscito nel mondo dei reality (il disastroso Celebrity Hunter, per esempio). Il cast è formato da ElioCaterina GuzzantiLilloAngelo PintusFrank MatanoKatia FollesaCiro e Fru dei The Jackal, Michela Giraud e Luca Ravenna, i conduttori sono Fedez, con Mara Maionchi. Insomma, dagli youtuber ai teatranti, ai televisivi, fino ai mestieranti da stand up comedy, in Lol ci sono più correnti che nel Pd. Ed è questo, in definitiva, l’aspetto più interessante del programma: ognuno, per far ridere gli altri, utilizza il suo registro.

Elio, dunque, si presenta con la testa infilata in un quadro (la Gioconda) e quattro braccia, ovviamente senza un perché. Balla un interminabile, estenuante tip tap con la gonna tirata su e i calzini fino al ginocchio, ovviamente – anche in questo caso – senza un perché. Commenta con puntuale e spassosa serietà le battute altrui, giocandosi le sue carte al meglio, tra demenzialità e autorevolezza. Frank Matano, col suo oggetto-feticcio che fa ridere perché non fa ridere, adotta un sistema di raro ingegno per non scoppiare in una risata quando gli scappa: cammina senza sosta per tutta la stanza. Se non vince Lol, può comunque ambire ad un buon piazzamento nella prossima maratona delle Dolomiti. E dopo Italia’s got talent, Matano conferma di essere a suo agio in ogni contesto televisivo, riuscendo ad adattare il contenitore a sé, e non il contrario, tant’è che l’unico momento in cui manifesta insofferenza è quando gli autori gli chiedono di indossare un “abito” da lottatore di sumo: “Ho un problema con i costumi, mi fanno sentire a disagio”. Da notare: un attimo prima, senza costumi, aveva simulato l’accoppiamento di un qualche uccello in un cespuglio, perfettamente a suo agio.

Angelo Pintus è uno che fa il comico da quando Franceschini fa il ministro, cioè da sempre. Ha partecipato a tutti i programmi da “comici in batteria”, allevati come polli, della serie: poco tempo per crescere, molti muoiono dopo pochi giorni di vita. Lui è sopravvissuto più o meno a tutto, con un successo da mediano e un ego da attaccante. Per intenderci, è di quelli che chiamano gli spettacoli “50 sfumature di Pintus”, “Pintus Arena” e così via, insomma un Donald Trump che non ce l’ha fatta. Però – siamo onesti – in Lol fa la metà del lavoro: intrattiene, coinvolge, si diverte, diverte, osa. Insomma, ha mestiere e si vede. Inevitabilmente però, inciampa nel suo ego: non deve ridere delle battute degli altri e gli riesce benissimo. In compenso, ride delle sue, finendo per farsi fuori da solo.

Lillo è un fuoriclasse e, probabilmente, il più versatile: fa ridere con il costume da “Posaman”, quando racconta la barzelletta sugli asterischi, quando spiega con aria compunta i segreti della sua linea “perfetta”. Per non ridere alle sue battute ci si deve concentrare con tutte le forze su avvenimenti drammatici, tipo l’intervista della Boschi a Verissimo. Katia Follesa gioca d’astuzia: sempre seduta, in modalità ape regina, commenta molto gli altri e si espone poco, ma risulta azzeccata ed efficace. Ciro dei The Jackal fa spesso il suo cavallo da battaglia – la nonna col fischio – e lì, come direbbe qualcuno, “so’ gusti”, come forse è una questione di gusti anche la comicità di Caterina Guzzanti, che è l’esatto contrario di Frank Matano: sembra a suo agio solo dentro a un costume, imprigionata in gag teatrali e forzate. Fuori, è impassibile a qualunque stimolo comico, uditivo, visivo, tattile. Forse non è neppure lei: quello è il costume di Caterina Guzzanti e dentro c’è Francesco Borgonovo.

Sottotono Fru Ravenna, menzione speciale per Michela Giraud che riesce nel raro proposito di giocarsi la carta della volgarità gratuita (la hit “Mignottone pazzo” è già leggenda”) senza risultare volgare. Sui due conduttori, poco da dire: avrei evitato l’accoppiata Maionchi/Fedez che fa molto Sky e X Factor e toglie un po’ di identità a un prodotto nuovo e ben fatto. Mara fa Mara, Fedez si sganascia e raggiunge lo studio in monopattino, annunciando le ammonizioni/espulsioni con il carisma, appunto, di un monopattino. Ma in fondo, poco importa. Lol è un programma così spassoso e fortunato che potrebbe presentarlo chiunque: perfino Fedez.

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martedì 6 aprile 2021

Enrico “il tiepido” non riesce ancora a derenzizzare il Pd. - Andrea Scanzi

 

Come si sta comportando Enrico Letta da segretario del Pd? È presto per dare un giudizio definitivo, ma è abbastanza per farsi già un’idea. Così come la sua scelta giustificava applausi e perplessità, anche le sue prime mosse risultano ambivalenti.

Letta ha scelto Provenzano come vicesegretario del Pd, mossa dichiaratamente di sinistra e antirenziana. Bene. Ma ha dovuto subito bilanciare questo azzardo (per lui) con una seconda vicesegretaria ben meno divisiva come Tinagli. Il nuovo (?) segretario del Pd ha poi incontrato in rapida successione Conte, Fratoianni e Di Maio. Ovvero tre figure che puntano dritte verso quel “campo progressista” (cit. Bersani) che significherebbe chiudere per sempre con Renzi e con un’idea di centrosinistra poco sinistra e molto centro (tendente a destra). Tutti e tre si sono detti soddisfatti dell’incontro con Letta. Fin qui le cose buone.

Poi però ci sono le perplessità. Una delle prime è ciò che Michela Murgia ha giustamente chiamato “pink washing”, ovvero imporre due donne come capogruppo a Camera e Senato. Un maquillage imposto dall’alto e risolto alla maniera piddina: ovvero Marcucci che si oppone mestamente, per poi indicare un nome femminile (Malpezzi) che vuol dire ancora renzismo. E dunque nulla sposta in termini politici.

Enrico Letta, prima vittima illustre di quella tendenza allegramente traditrice di Renzi, sta facendo per ora pochissimo per attuare quella derenzizzazione totale di cui il Pd, per essere credibile e dunque votabile, ha bisogno come il pane. Il Partito democratico risulta ancora una forza oltremodo balcanizzata, devastata dalle correnti e atavicamente sorda a un rinnovamento reale. Per meglio dire: incapace di andare oltre quel “conservatorismo” genetico che da ormai dieci anni lo porta ad accettare qualsiasi governo “per senso dello Stato”: Monti, Alfano, Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Conte, Salvini, Draghi. Praticamente tutti. Con buona pace di un’identità personale che ai più, infatti, sfugge. Certo il buon Enrico non poteva fare miracoli in poche settimane, ma ha ragione Cacciari quando afferma deluso che non si è ancora minimamente capito quale idea di partito abbia in testa Letta.

Vi è poi un aspetto che risulta forse il più fastidioso, ovvero una sorta di spocchia che non dovrebbe attecchire in una figura seria e sobria come Letta. È naturale, per quanto fastidioso, che Letta come Zingaretti attacchino – con toni davvero eccessivi – Virginia Raggi. Il Pd ha il suo (buon) candidato a Roma, Gualtieri, ed è da sempre convinto che Raggi incarni il Maligno. Bah. Romano Prodi insegna però come le alleanze su scala locale siano totalmente diverse da quelle su scala nazionale, e dunque scannarsi su Roma non vuol certo dire non poter unirsi alle prossime elezioni politiche. Il punto è un altro, e lo ha ben sottolineato due giorni fa su queste pagine Barbara Spinelli: mentre i 5 Stelle provano a “rifondarsi” con Conte, il Pd appare tiepido. Statico. E con un’aria insopportabile di superiorità morale (de che?). Lo stesso Letta ha detto che spetterà a Conte trasformare il M5S in una forza non identica al Pd, ma meritevole di dialogare col Pd. Ecco, qui è bene intendersi: se è innegabile che il M5S debba cambiare e maturare, è altrettanto acclarato che Letta (o chi per lui) dovrà attuare una rifondazione analogamente “brutale”. Detta ancora più dritta: se il M5S dovrà meritare di allearsi col Pd, anche il Pd dovrà meritare di allearsi con il M5S. E il Pd attuale, con troppi Marcucci e Malpezzi in prima fila, non può certo dare lezioni di bellezza e democrazia agli altri.

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Il terzo tragico Fantozzi. - Marco Travaglio


È vero che il nostro è uno sporco mestiere e che le notizie si danno tutte. Però Repubblica poteva risparmiarci, almeno nel giorno di Pasqua, lo straziante grido di dolore di Antonella Camerana, “villeggiante a Portofino” e ivi “prigioniera in casa”, dopo una rocambolesca “fuga dalla tristezza” di Milano. Immaginare quel viaggio di stenti dalle favelas di via Montenapoleone alle bidonville di Portofino, dove la povera senzatetto “ha raggiunto il borgo ben prima dei divieti” con mezzi di fortuna, forse su un carro bestiame o nel cassone di un camion, ci ha funestato la letizia tipica del dì di festa. Neanche un’anima pia che l’accogliesse al suo arrivo in piazzetta, poi. Per fortuna, giunta nel nuovo lazzaretto, la sventurata ha trovato un po’ di conforto sulle pagine di Rep che, quando si tratta di soccorrere i bisognosi, non si tira mai indietro. Il cronista Massimo Minnella s’è preso cura di lei, cercando di alleviarne la solitudine: “Si è sentita ben accolta quando è arrivata?”, le domanda premuroso. E lei: “E chi mai potrebbe accogliermi? Qui non si vede nessuno, c’è il deserto”. Ma dove sono la Caritas, Sant’Egidio, i servizi sociali? E il reddito di cittadinanza, d’emergenza, d’urgenza? Niente. Non resta che rovistare nei cassonetti a caccia di un tozzo di pane raffermo. Dalla baracca di latta, la sventurata in lacrime nota “una calma innaturale”. “Una piazzetta spettrale, come non era mai accaduto prima”, rincara il cronista. Tant’è che alla fine è lei a rincuorare lui: “Ma è pur sempre Portofino, c’è il mare e poi c’è la natura”. “Ma non è certo come le altre volte”, osserva lui. Lei torna a incupirsi: “Esattamente così. Mi piace molto di più la Portofino normale, amo la gente, i bar aperti… Questo vuoto è molto deprimente. Mi alzo e non vado nemmeno in piazzetta. Non l’ho mai vista così, è incredibile, non me l’aspettavo”. Già: “a Milano tutto chiuso” e pure a Portofino, chi l’avrebbe mai detto. “Prigioniera” nello slum vista mare, la signora non ha neppure i soldi per comprare un giornale, o una tv, o una radiolina a transistor che l’avvertisse della terza ondata di Covid. Un supplizio.

Ieri, dopo aver trascorso il giorno di Pasqua a struggerci per la sua triste sorte, abbiamo appreso dal web ciò che Rep s’era scordata di dirci: la “prigioniera” è la contessa Antonella Carnelli De Micheli Camerana, seconda moglie del defunto conte Carlo Camerana (pronipote di Giovanni Agnelli fondatore della Fiat e cugino primo di Gianni, Umberto &C.) nonché azionista di Exor-Fca (ergo di Rep), che parla dalla sua villa a Portofino, forse in attesa di rimpiazzare la parigrado Pia Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare nel varo della nuova nave Repubblica: “Ri-ri-vadi, contessa! Ma un po’ più a destra!”.

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La mia lettera al direttore Massimo Giannini pubblicata questa mattina su "La Stampa" . - Giuseppe Conte

 

"Gentile Direttore,

da alcune settimane sono impegnato nel compito di rifondare il Movimento 5 Stelle, in modo da rilanciarne la carica innovativa e renderlo pienamente idoneo a interpretare una nuova stagione politica. Anche per questa ragione sto evitando di rilasciare dichiarazioni e di intervenire nell’attualità politica. Ritengo prioritario preparare al meglio una nuova agenda politica, da condividere con la massima ampiezza, che sappia esprimere un progetto di società rispondente ai bisogni più urgenti dei cittadini, ma fortemente proiettata su un modello di sviluppo che coinvolga anche le generazioni future. Ma sono costretto a intervenire per correggere alcune falsità riportate nel lungo editoriale, che Lei ha offerto ai lettori del suo giornale il giorno di Pasqua, dedicato ai vecchi e ai nuovi scenari di politica estera del nostro Paese, con particolare riguardo al conflitto libico, dal titolo “Italia e Libia. Un atlante occidentale”.

Non posso tacere perché queste notizie false, essendo attinenti alla politica estera perseguita dall’Italia negli ultimi anni, non riguardano solo la mia persona, ma anche un buon numero di nostri professionisti, della filiera diplomatica e dell’intelligence, che hanno condiviso gli sforzi e profuso grande impegno in questa direzione.

Non entro, peraltro, nel merito delle varie considerazioni da Lei formulate. Sono sue, opinabili valutazioni. Non Le scrivo per aprire una discussione sui complessi scenari di geo-politica. Ma trovo palesemente fuorviante riassumere tutte le iniziative di politica estera poste in essere dai due governi da me presieduti con l’immagine di un’“Italietta che finalmente si risveglia dalla sbornia nichilista, sovranista e anti-occidentale di questi ultimi tre anni”.

Sono rimasto colpito dall’incipit del Suo editoriale. Con un accorto espediente retorico ha messo in relazione tre notizie: la prima vera, la seconda e la terza completamente false.

La prima notizia, vera, è che “Dopodomani [oggi per chi legge, n.d.r.] Mario Draghi volerà in Libia”. Questa notizia è seguita da un suo commento, pienamente legittimo: “è una missione cruciale, non solo per la difesa del nostro interesse nazionale, ma in parte anche per la ridefinizione del nuovo Ordine Mondiale, la riaffermazione dei valori dell’Occidente, la ricostruzione del ruolo dell’Europa”.

Subito dopo ci sono due notizie false, che non riguardano solo me personalmente quanto la politica estera perseguita dall’Italia. Queste due falsità sono precedute da un suo commento molto malevolo: “Le ultime pezze a colori improvvisate da Giuseppe Conte nel Corno d’Africa e nella Penisola Arabica hanno portato più malefici che benefici”.

La prima falsità: “I due incontri ad Abu Dhabi con Mohammed bin Zayed, tra il novembre 2018 e il marzo 2019, furono talmente inutili sul dossier libico che lo sceicco emiratino diede ordine ai suoi diplomatici di non organizzargli mai più altri colloqui con l’Avvocato del Popolo”.

La seconda falsità: “Il blitz a Bengasi del 17 dicembre 2020, organizzato come uno spot di bassa propaganda solo per riportare a casa i pescatori mazaresi previa photo-opportunity con Haftar, è stato ancora più imbarazzante”.

La prima notizia è smentita dal fatto che dopo le date che Lei ricorda ho avuto ulteriori colloqui con lo sceicco Mohammed bin Zayed, che hanno confermato non solo l’eccellente rapporto personale instaurato, ma anche le ottime relazioni tra i nostri due Paesi. Mi permetta poi di sottolineare che la sua falsità suona davvero ingenua: in pratica ha tentato di convincere i Suoi lettori che lo sceicco emiratino avrebbe informato solo lei che non avrebbe più accettato colloqui con il sottoscritto, quando invece abbiamo sempre operato, anche a tutti i livelli della filiera diplomatica e di intelligence, nella reciproca consapevolezza che i nostri rapporti fossero molto buoni.

La seconda falsità è non meno sorprendente, in quanto già all’epoca dei fatti chiarii che volai in Libia non per piacere, ma perché fu l’unica condizione per ottenere il rilascio dei diciotto pescatori. L’ho fatto. Lo rifarei. Dopo un lungo negoziato e dopo avere respinto altre richieste che giudicai non accoglibili, atterrai all’aeroporto di Bengasi, dove Haftar mi accolse e firmò in mia presenza il decreto di liberazione dei diciotto pescatori. Quanto alla photo opportunity, caro Direttore, la informo che ho ricevuto più volte Haftar a Roma, anche nel pieno di quest’ultimo conflitto libico. Aggiungo che non troverà in giro nessuna mia foto con i pescatori: a loro e a tutti i cittadini di Mazara ho mandato un saluto a distanza. Ho evitato di incontrarli proprio per non dare adito a speculazioni inopportune. Ma vedo che con Lei questa premura, ancora a distanza di tempo, non è servita.

Concludo. Ci auguriamo tutti che il viaggio del premier Mario Draghi in Libia possa rivelarsi utile. Il dossier libico rimane strategico per gli interessi italiani ed europei ed è estremamente rilevante negli equilibri geo-politici mondiali. Non credo che nessuno abbia difficoltà ad aderire al suo auspicio che questa possa essere la svolta che l’intero mondo occidentale attende da anni.Ma non serve e non vale a rafforzare questi auspici la denigrazione di chi è venuto prima.

Gentile Direttore, Lei e l’intero gruppo editoriale a cui il Suo giornale fa riferimento avete abbracciato convintamente una causa. Ora, non dico che debba fidarsi di me. Ma dia retta almeno a un raffinato stratega quale Talleyrand, che ai suoi collaboratori raccomandava sempre: “𝘚𝘶𝘳𝘵𝘰𝘶𝘵 𝘱𝘢𝘴 𝘵𝘳𝘰𝘱 𝘥𝘦 𝘻𝘦̀𝘭𝘦” (“Soprattutto non troppo zelo”). Quando si eccede in fervore si rischia di servire male la causa.

Cordialmente,
Giuseppe Conte" (FB)

lunedì 5 aprile 2021

Alfano, Minniti & C. I ministri di Renzi, casta che lavora. - Lorenzo Giarelli

 

La sintesi più efficace viene da Giovanni Paglia, componente della segreteria nazionale di Sinistra Italiana: “Alfano è a capo del primo gruppo della sanità privata, Padoan si appresta a presiedere Unicredit, Minniti fa il promoter di Leonardo e ora De Vincenti va a lavorare per i Benetton. Tutti ex ministri o sottosegretari: viene quasi da pensare che il governo Renzi sia stato un ufficio di collocamento”.

La metafora funziona perché in effetti, quattro anni e mezzo dopo il referendum che mise fine all’esecutivo di Matteo Renzi, non è solo il senatore semplice di Rignano ad aver trovato fortuna fuori dai Palazzi della politica – in cui però l’ex premier tiene ancora un piede e mezzo dentro – ma anche parecchi dei suoi vecchi compagni di strada. Certo, nessun altro ha un posto come membro stipendiato di un board saudita benedetto dal principe Bin Salman, ma sono comunque tutti ben piazzati, anche grazie alle competenze e alle relazioni personali maturate durante quegli anni di governo.

Affari Banche, aerei e ospedali lombardi.

L’ultimo caso è quello di Claudio De Vincenti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Matteo poi promosso ministro alla Coesione territoriale da Paolo Gentiloni, che prenderà il posto del defunto Antonio Catricalà come presidente di Aeroporti di Roma (Adr), la società controllata dalla famiglia Benetton che gestisce gli scali di Ciampino e Fiumicino.

Nel 2018 De Vincenti aveva fallito il ritorno in Parlamento, sconfitto in malo modo nel collegio uninominale di Sassuolo, dove il centrosinistra arrivò terzo dietro sia al centrodestra che al Movimento 5 Stelle. Occupandosi di aeroporti, per l’esponente del Pd sarà anche un ritorno all’antico: quando Massimo D’Alema era a Palazzo Chigi – parliamo della fine del secolo scorso – De Vincenti coordinava il Nars, la struttura del ministero del Tesoro che regola i servizi di pubblica utilità. Tutti motivi per cui adesso potrà mettersi alle spalle l’ultima delusione elettorale, come per altro avevano già fatto altri colleghi dell’epopea renziana.

A indicare la via ci pensò Angelino Alfano. Già nel luglio 2019, l’ex ministro dell’Interno (con Gentiloni sarebbe passato agli Esteri) si fece convincere dall’allettante proposta del Gruppo San Donato, il colosso della famiglia Rotelli che domina la sanità privata lombarda e che gli offrì la presidenza della holding. Anche Alfano, come De Vincenti, era fuori da Montecitorio dal 2018, quando decise di non ricandidarsi.

La stessa cosa non si può dire per due ex ministri renziani approdati di recente ad altre carriere, scelte a scapito del posto in Parlamento. Pier Carlo Padoan ha infatti lasciato il seggio in quota Pd: a ottobre Unicredit lo ha designato componente del Consiglio di amministrazione e presto verrà formalizzata la sua nomina a presidente dell’Istituto. Un incarico per cui gli torneranno parecchio utili gli anni di esperienza da ministro dell’Economia, ben quattro tra il 2014 e il 2018, prima con Renzi e poi con Gentiloni. In Unicredit infatti potrebbe trovarsi a gestire la fusione con il Montepaschi, la banca che da ministro ha nazionalizzato nel 2017 e a cui il suo ex ministero garantirà una cospicua dote pubblica.

Allo stesso modo, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti farà tesoro del periodo al governo ora che dovrà dirigere la fondazione Med-Or, creatura del gigante della difesa e dell’aerospazio Leonardo (la ex Finmeccanica). E se di Minniti si ricordano soprattutto le fatiche nel contrasto all’immigrazione dal Nord Africa e nelle relazioni con la Libia, parte di quei temi torneranno centrali nella sua attività, dato che l’obiettivo di Med-Or è quello di costruire “un ponte” attraverso cui “far circolare idee, programmi e progetti concreti” nel settore della difesa e della tecnologia con i Paesi esteri “dal Mediterraneo allargato fin sotto il Sahara, fino al Medio ed Estremo Oriente”.

Se poi Minniti dovesse aver nostalgia degli anni al governo, potrà sempre farsi un giro nei corridoi di Leonardo, dove potrebbe incrociare una sua vecchia conoscenza dei Consigli dei ministri renziani. Da maggio 2020 infatti Federica Guidi fa parte del cda dell’azienda, dove è giunta quattro anni dopo aver lasciato lo Sviluppo Economico a causa dell’inchiesta sul progetto Tempa Rossa: non indagata, l’ex ministra fu intercettata mentre parlava con il compagno (archiviato dopo l’inchiesta) di un imminente emendamento che avrebbe riguardato anche gli interessi industriali dell’uomo. Finita l’esperienza al ministero, la Guidi ha anche potuto recuperare il posto in Ducati Energie (dove è vice-presidente esecutivo) e in Gmg Group, dove siede nel Consiglio di amministrazione.

Onu Agricoltura e scuola tra Nazioni Unite ed Europa.

Un po’ diversi, ma certo non meno prestigiosi, i percorsi di Maurizio Martina e Stefania Giannini. Il primo, dopo quattro anni trascorsi alle Politiche Agricole e uno, particolarmente travagliato, da segretario reggente del Pd, a gennaio di quest’anno è stato nominato vicedirettore generale aggiunto della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura.

E all’Onu lavora da un pezzo anche Stefania Giannini, che con Renzi fu ministra dell’Istruzione fino al 2016. Dopo una lunga carriera universitaria e gli anni al governo, oggi la Giannini è vicedirettrice dell’Unesco, la nota agenzia che promuove “la pace e la comprensione” tra le Nazioni, ente in cui l’ex ministra ha la delega all’Istruzione.

Posizione da cui, anche in virtù dei mesi fianco a fianco al governo, potrà forse dare qualche consiglio a Federica Mogherini, ministra degli Esteri con Renzi e da settembre 2020 rettrice del Collegio d’Europa, l’Istituto di alta formazione in studi europei con sede a Bruges e a Varsavia e finanziato dall’Unione.

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