lunedì 27 settembre 2021

Ricostruito il Dna degli Etruschi. - Paola Catani

 

Ricostruito il Dna degli Etruschi (fonti: in primo piano particolare di un affresco etrusco del 510 a.C, diDave & Margie Hill/Kleerup; sullo sfondo la doppia elica del Dna, di Christoph Bock, Max Planck Institute

Erano cugini degli Italici, ma la loro lingua resta un mistero.

Etruschi cugini degli Italici, lo svela il Dna antico, ma la lingua parlata da questo popolo rimane un mistero. A provare la stretta parentela uno studio genomico definito il più grande mai realizzato sugli Etruschi, condotto da un team di studiosi internazionali, coordinato da Cosimo Posth, del dipartimento di Archeogenetica dell'Istituto tedesco Max Planck per la storia delle Scienze umane a Jena e condotto con le università di Firenze, Tubinga e Jena. Per l'Italia hanno contribuito anche le università di Siena, Napoli Federico II, Ferrara e Padova. Pubblicata sulla rivista Science Advances, la ricerca ha esaminato il Dna di 82 individui vissuti in Italia nell'arco di quasi 2000 anni, dall'800 a.C. al 1.000 d.C, in dodici siti, tra Toscana e Alto Lazio.

I risultati? Gli Etruschi "condividono il profilo genetico dei Latini della vicina Roma e gran parte del loro genoma derivi da antenati provenienti dalla steppa Eurasiatica durante l'età del bronzo". Lo studio, a cui hanno preso parte ricercatori degli Atenei di Firenze, Siena, Ferrara e del Museo della Civiltà di Roma, di Germania, Stati Uniti, Danimarca e Regno Unito, risolve così, si spiega, "l'enigma sulle origini di questa cultura altamente avanzata e ancora poco conosciuta", fiorita durante l'età del ferro nell'Italia centrale, e che ha incuriosito gli studiosi per millenni, coivolgendo storici illustri già dai tempi del greco Erodoto.

Per quest'ultimo discendevano da gruppi migratori anatolici o egei. Per gli archeologici invece hanno avuto un'origine locale, ipotesi suffragata in passato da alcune ricerche su Dna antico. E ora confermata da questa ricerca che fornisce "risposte definitive" sulle origini degli Etruschi. Resta però il mistero della loro lingua, non indoeuropea, estinta, solo in parte compresa. Se "i gruppi legati alla steppa Eurasiatica furono probabilmente responsabili della diffusione delle lingue indoeuropee, ora parlate in tutto il mondo da milioni di persone, la persistenza di una lingua etrusca non indoeuropea in Etruria è un fenomeno intrigante - si spiega - che richiederà un'ulteriore indagine".

"Questa persistenza linguistica, combinata con un ricambio genetico, sfida la tesi che i geni siano uguali alle lingue - afferma David Caramelli, docente di antropologia all'Università di Firenze - e suggerisce uno scenario più complesso che potrebbe aver coinvolto l'assimilazione dei primi popoli italici da parte della comunità linguistica etrusca, forse durante un periodo prolungato di mescolanza nel secondo millennio a.C."

Lo studio ha anche rivelato "importanti trasformazioni genetiche associate a successivi eventi storici" con riferimento sempre all'Italia centrale: una, durante il periodo imperiale romano, legata alla commistione con le popolazioni del Mediterraneo orientale che probabilmente includevano schiavi e soldati trasferiti attraverso l'Impero Romano; l'altra nell'Alto medioevo, identificata con la diffusione di antenati dell'Europa settentrionale nella penisola in seguito al crollo dell'Impero romano d'Occidente.

"Questo cambiamento genetico - afferma Johannes Krause, direttore del Max Planck Institute per l'evoluzione antropologica - descrive chiaramente il ruolo dell'Impero Romano nello spostamento delle persone su larga scala in un momento di maggiore mobilità socioeconomica e geografica". "L'Impero Romano - afferma Cosimo Posth, docente all'Università di Tubinga e Centro Senckenberg per l'evoluzione umana e il paleoambiente - sembra aver lasciato un contributo duraturo al profilo genetico degli europei meridionali, colmando il divario tra le popolazioni europee e del Mediterraneo orientale sulla mappa genetica dell'Eurasia occidentale"

ANSA

Continua l'eruzione alle Canarie, sepolte altre case.

 

Continua l'eruzione vulcanica iniziata il 19 settembre sull'isola di La Palma (Canarie): nelle ultime ore, autorità ed esperti di vulcanologia hanno osservato che il flusso di lava espulsa verso la costa si è ravvivato e ieri sera la colata era già arrivata a 1,6 chilometri dalla costa, dopo aver travolto diverse case della località di Todoque. Secondo Efe, tra gli edifici distrutti dalla lava ci sono la chiesa del paese e il centro sanitario locale.

Da inizio eruzione, oltre 500 edifici sono stati sepolti dalla lava. Le autorità locali hanno ordinato alla popolazione di alcuni nuclei urbani situati sulla costa di rimanere in casa.

Ora si riapre la possibilità che la lava raggiunga il mare, fenomeno che provocherebbe "colonne di vapore d'acqua cariche di acido cloridrico" che potrebbero rappresentare un "pericolo locale" per persone che si trovino lì vicino, secondo quanto spiegato dall'Istituto di Vulcanologia delle Canarie. Di fronte a questa possibilità, per precauzione le autorità locali hanno ordinato alla popolazione di alcuni nuclei urbani situati sulla costa ovest di La Palma di rimanere in casa.
Attualmente l'aeroporto di La Palma è operativo, ma ma rimangono possibili ritardi o cancellazioni di voli. 

ANSA

domenica 26 settembre 2021

Processi somari. - Marco Travaglio

 

Credevo di aver visto tutto, l’altra sera a Otto e mezzo, quando Sallusti è riuscito a dire nel giro di mezz’ora che: la trattativa Stato-mafia non c’è stata; non è reato quindi chissenefrega se c’è stata o non c’è stata; c’è stata e i carabinieri han fatto benissimo a trattare. Avevo anche apprezzato il paragone fra i Ros che trattano con Riina e Provenzano tramite Ciancimino e Cinà, e i poliziotti che trattano coi rapinatori di una banca per liberare gli ostaggi: purtroppo non si sono mai visti dei poliziotti trattare coi rapinatori di una banca, lasciarli scappare, avvertire la Questura che bisogna dargli qualcosa in cambio sennò rapinano altre banche e infine nominarli direttori della banca per evitare che la svaligino di nuovo. Ecco, dopo quell’esperienza psichedelica, pensavo di non divertirmi mai più così. Poi ho letto su La Stampa la sapiente analisi di Mattia Feltri: l’inchiesta sulla trattativa dipende dal fatto che “il grillismo arrivò molto prima di Grillo”, infatti “per 30 anni abbiamo raccontato la storia del nostro Paese come una storia criminale e le nostre istituzioni come istituzioni criminali”. Invece profumavano di verbena. Sì, è vero, siamo l’unico Paese occidentale che, da Portella della Ginestra a oggi, ha avuto decine di stragi politiche – nere, rosse, mafiose, multicolori – e non è riuscito quasi mai a scoprirne e/o a condannarne i colpevoli grazie ai sistematici depistaggi di politici, servizi segreti (tutt’altro che deviati: deviato in Italia è chi cerca la verità), forze dell’ordine, magistrati; un ex premier (Andreotti) colpevole di associazione mafiosa fino al 1980 e altri tre (Craxi, Forlani e B., più uno stuolo di ministri e parlamentari) condannati per gravissimi reati. Però sospettare una storia criminale è “terrapiattismo politico” di “populisti, demagoghi e arlecchini”.

Pensavo a quel punto che nessun comico avrebbe potuto fare meglio, quando sono incappato, sul Domani, nel commento dell’ex lottatore continuo Enrico Deaglio: viva il presidente della Corte d’appello che “ha assolto i rimanenti imputati di una messa in scena durata 12 anni, o meglio quasi 30” (massì, abbondiamo) e “messo uno stop a tutta questa schifezza”, “oscura nebulosa”, “mattana” (l’indagine, non la trattativa). E lo sapete perché la Procura di Palermo e poi la Corte d’Assise hanno imbastito quella “messa in scena” con la loro “insipienza investigativa rara”? Ce lo rivela, posato il fiasco, lo stesso Deaglio: per garantire “il successo del partito di Grillo e del giornalista Travaglio” e “la candidatura di Ingroia”, ma anche per trasformare “il giudice Di Matteo (che è un pm, ma fa niente, ndr) in un eroe nazionale, protetto con il bomb jammer”.

Il tutto, con la scusa che “era stato condannato a morte dal vecchio Riina in carcere, minacce addirittura trasmesse in tv” (quindi se l’era fatte da solo). Così si è “costruito il famoso ‘pensiero unico’ fatto di niente”: tutti i giornali e le tv, com’è noto, non fanno che parlare di trattativa da 12 anni, o meglio quasi 30. E il povero Deaglio, vox clamantis in deserto, a gridare la verità. Infatti è costretto alla clandestinità sul Domani, perché nessun altro quotidiano osa contraddire il “famoso pensiero unico” sulla trattativa. Eppure lui l’aveva sempre detto ciò che quei dementi di Ingroia, Di Matteo, Scarpinato e giudici d’Assise “ci hanno messo 30 anni a capire: le bombe le avevano messe i fratelli Graviano”. Ma va? Il fatto che questo processo non dovesse decidere chi mise le bombe (l’han deciso da mo’ le Corti di Caltanissetta e Firenze), ma chi trattò con la mafia e se fu reato, non importa: sottigliezze. Lui va a braccio, a spanne, anzi alla cieca, tant’è che ricorda “le intercettazioni tra Napolitano e Mancino che si scambiavano gli auguri di Capodanno” (così, a capocchia: una è del 31 dicembre 2011, ma le altre tre sono del 24 dicembre 2011, del 13 gennaio e del 6 febbraio 2012, quindi i due si scordavano di essersi già fatti gli auguri e se li rifacevano ogni due settimane). E “le accuse a Dell’Utri”, ovviamente “risibili”: in effetti, tirare in ballo per i suoi incontri con Mangano il creatore di FI pregiudicato per mafia che nel novembre ’93 aveva nell’agenda due incontri con Mangano, è pura follia.
Nella fretta, il nostro Sherlock Holmes si scorda di spiegare come mai il suo amato giudice, “persona seria, schietta, riservata” ha condannato Cinà e Bagarella e dichiarato colpevole ma prescritto Brusca: il primo per aver trattato con Ciancimino e col Ros e minacciato con loro lo Stato; gli altri due per averci riprovato con Dell’Utri. Anzi, non se n’è proprio accorto, sennò non scriverebbe che l’amata Corte “ha assolto i rimanenti imputati”: perché, fra i rimanenti imputati, tre sono risultati colpevoli. Se mai dovesse scoprirlo, gli verrebbe un’ernia al cervello. Poi però ci spiegherebbe che, nella trattativa Stato-mafia, c’era solo la mafia. Perché lui i gialli li risolve sempre 12, o meglio quasi 30 anni prima, o almeno così crede. Nel 2006 scrisse un libro (Il broglio) e un film (Uccidete la democrazia!) sui brogli elettorali anti-Prodi, purtroppo rivelatisi una bufala: la democrazia sopravvisse. Gli andò meglio nel 1989 quando la moglie di Sofri lo avvisò in America che avevano appena arrestato il marito per il delitto Calabresi e lui, senza sapere nulla, rispose a botta sicura: “È Marino quello che ha parlato?”. E, almeno quella volta, ci azzeccò. Non che sapesse qualcosa, questo mai: semplici intuizioni.

ILFQ

sabato 25 settembre 2021

Giorgetti “caccia” Morisi e conta le truppe al Nord. - Giacomo Salvini

 

La “bestia” - Numeri social crollati con Draghi.

Di vittime, politicamente, ne hanno già mietute due. Entrambe eccellenti. Prima Claudio Durigon scaricato con un’alzata di spalle da Giancarlo Giorgetti (“Al governo bisogna stare attenti a quando si parla”) e dal silenzio dei governatori. E adesso Luca Morisi, spin doctor di Matteo Salvini e ideatore della “Bestia” social della Lega. Dietro l’addio del 48enne guru social del Carroccio ci sono sicuramente motivazioni personali (questa è la versione ufficiale) ma anche di più: un certo disagio sull’ambiguità della linea “di lotta e di governo” del Carroccio, ma soprattutto l’ostracismo dell’ala governista che non sopportava più i modi di fare e la comunicazione da populista della porta accanto di Morisi. “Quando si sta al governo non si può comunicare tutto e subito come all’opposizione”, spiega un parlamentare vicino a Giorgetti.

Che Morisi fosse finito in mezzo anche allo scontro tra Salvini e Giorgetti lo si era capito anche nelle ultime settimane. Raccontano che, durante i primi Consigli dei ministri dell’èra Draghi, 4-5 membri della squadra della comunicazione di Morisi si spostassero al ministero dello Sviluppo economico mentre Giorgetti partecipava alle riunioni a Palazzo Chigi. Un modo per coordinare la comunicazione leghista durante i Cdm e far uscire sulle agenzie, sui siti e sui social cosa stava succedendo in chiave leghista. A marzo e aprile, alla vigilia dei Consigli dei ministri, il Mise diventava una succursale di via Bellerio: i funzionari del ministero in diverse occasioni si sono visti arrivare Salvini spesso accompagnato dai suoi fedelissimi tra cui Durigon, in quel momento di casa al Tesoro. Quando però ad agosto, tra Salvini e i ministri si è rotto qualcosa sui primi decreti Green pass, con la sconfessione della linea del segretario, tutto si è fermato: Giorgetti ha imposto che in via Veneto non entrasse più nessuno della squadra di Morisi e della comunicazione della Lega. Secondo qualcuno, nelle ultime settimane, c’erano state anche delle frizioni tra Salvini e Morisi: il guru lamentava di non essere “più ascoltato” dal segretario. Di certo c’è che i numeri della “Bestia” – un sistema editoriale in grado di automatizzare i contenuti delle pagine “Matteo Salvini”, “Lega” e “Noi con Salvini” – negli ultimi sei mesi avevano risentito dell’effetto Draghi. La macchina si era inceppata e i numeri sono crollati: in quanto a crescita dei follower, Salvini è stato superato da Giuseppe Conte (più un milione contro i 700 mila del leghista) e tallonato da Giorgia Meloni a 600 mila. Le interazioni settimanali si sono dimezzate passando da 10 milioni a 5 mentre è stato sorpassato dalla leader di FdI sull’engagement (3,5 a 7,6%) e sulle interazioni per post (0,3 a 1,2%). Tutto questo nonostante in due anni la “Bestia” sia costata 400 mila euro al partito.

E così, dopo Durigon e Morisi, l’ala governista guidata da Giorgetti e dai governatori – Zaia, Fontana e Fedriga – può rivendicare un altro successo. Ma non si fermerà qui ed è già pronta a chiedere i congressi dopo le Comunali. Un primo assaggio arriverà oggi da Varese, feudo del ministro dello Sviluppo economico, dove si terranno gli “Stati Generali” della Lega Lombarda. Un appuntamento pre-elettorale, ma anche un modo per organizzare le truppe del nord Italia: oltre a Giorgetti ci sarà Fontana, Garavaglia, Centinaio e Locatelli. Ai 200 sindaci leghisti lombardi spiegheranno cosa sta facendo il governo nazionale. Un modo per iniziare a contarsi e rivendicare che la linea della Lega non è quella di Salvini, ma la loro. Il leader non ci sarà e manderà solo un saluto. Intanto anche Luca Zaia manda segnali: i suoi uomini stanno mettendo all’indice i 10 salviniani veneti che nei giorni scorsi non hanno votato in aula sul Green pass. Una frattura che difficilmente si ricomporrà.

ILFQ

Due grandi uomini.

 

Straziante, ma vero...
Queste due persone sono morte per difendere la giustizia.
Ma le leggi fatte da uomini senza alcuna dignità hanno reso inutili le loro morti e hanno ucciso anche la Giustizia.
cetta

Il “fatto” sussiste. - Marco Travaglio

 

I nove decimi dei giornali e dei tg raccontano la sentenza d’appello sulla Trattativa senz’avere la più pallida idea di cosa dica. Infatti le fanno dire che la trattativa Stato-mafia non è mai esistita. Magari: almeno si spiegherebbero le assoluzioni dei tre carabinieri del Ros e di Dell’Utri. Invece non è così: infatti sono stati condannati il boss Bagarella e il medico mafioso Cinà. Le motivazioni sono lunghe e per capirle bisogna almeno leggerle: troppa fatica per i mafiologi della mutua. Ma i dispositivi sono brevissimi: questo è di due pagine. E lo capisce anche uno scemo: se “il fatto non sussiste”, vuol dire che non è successo niente (ma questa formula, nella sentenza, non compare mai); se “il fatto non costituisce reato” (com’è per Mori, Subranni e De Donno), vuol dire che il fatto è vero, ma non è illecito; se si legge “non aver commesso il fatto” (com’è per Dell’Utri), vuol dire che il fatto è vero, ma l’ha commesso qualcun altro.

Qual era il “fatto” alla base dell’accusa di “minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè ai governi Amato, Ciampi e B.? Questo: i boss, i tre carabinieri e Dell’Utri, con altri morti nel frattempo o rimasti ignoti, “usavano minaccia – consistita nel prospettare… stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni – a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Vediamo il ruolo dei quattro assolti. Il “fatto” addebitato ai tre ufficiali del Ros e confermato dalla sentenza è di aver “contattato, su incarico di esponenti politici e di governo, uomini collegati a Cosa Nostra (in particolare, Ciancimino… nella veste di tramite con uomini di vertice della predetta organizzazione mafiosa e ‘ambasciatore’ delle loro richieste)” per “sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia omicidiaria e stragista”; poi di aver “favorito lo sviluppo di una ‘trattativa’ fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall’altra, all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato”; infine di aver “assicurato il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano, principale referente mafioso della ‘trattativa’” ; così “agevolavano la ricezione presso i destinatari ultimi della minaccia di prosecuzione della strategia stragista” e “rafforzavano i mafiosi nel proposito criminoso di rinnovare la minaccia”. Il “fatto” contestato a Dell’Utri è di essersi “proposto e attivato”, subito dopo l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo ’92) “e in luogo di quest’ultimo, come interlocutore” del “vertice di Cosa Nostra per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”.

Non solo: Dell’Utri avrebbe “successivamente rinnovato tale interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di Ciancimino e di Riina, così agevolando il progredire della ‘trattativa’ Stato-mafia… quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista; agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia (portata da Mangano su mandato di Bagarella e Brusca, nda) presso alcuni destinatari e… favorendone la ricezione da Berlusconi” appena insediato a Palazzo Chigi. Quest’ultimo passaggio è l’unico “fatto” che la Corte ritiene non provato: è certo che i mafiosi gli fecero sapere quali favori pretendevano dal governo B. per mantenere la pax mafiosa, ma non che Dell’Utri ne avvertì B. Il quale quindi li favorì non perché fosse sotto ricatto, ma sua sponte.

I fatti che raccontiamo da anni sono dunque veri. E bastano e avanzano per un giudizio, se non penale, almeno politico, istituzionale e professionale non tanto su Dell’Utri (pregiudicato per mafia), quanto sui tre “servitori dello Stato” che trattarono con Cosa Nostra anziché combatterla. Non era reato? È la tesi della Corte. Ma che trattarono non c’è dubbio: infatti nel ’97, appena Brusca svelò la trattativa, anche Mori e De Donno la chiamarono così. Ora si dice che finsero di trattare in un’astuta operazione di infiltrazione per raccogliere informazioni e catturare Riina. E allora perché non avvertirono i pm né il vertice dell’Arma, non verbalizzarono e non pedinarono Cinà (il postino che portò a Riina i loro messaggi affidati a Ciancimino sr. e tornò indietro col papello) né Ciancimino jr. (il postino del padre)? Perché non perquisirono il covo di Riina? Perché non arrestarono Santapaola, scovato da un collega a Terme di Vigliatore? Perché non catturarono Provenzano, consegnato da un pentito a Mezzojuso? Buon per loro che siano stati assolti. Ma quei “fatti” restano: qualcuno vuole scoprirne il perché? Erano dei fessi incapaci o degli agenti deviati? La trattativa incoraggiò Cosa Nostra a uccidere Borsellino, la sua scorta e tanti altri innocenti nel ’93. La loro brillante attività investigativa produsse una catastrofe senza pari. Data anche l’età, nessuno vuol mandarli in galera. Ma, se passa l’idea che trattare con la mafia è lecito, o financo doveroso, perché mai un giudice dovrebbe condannare un mafioso a rischio della vita, anziché mettersi d’accordo? Perché un ufficiale dovrebbe catturare i mafiosi giocandosi la pelle, anziché lasciarli andare? Perché un negoziante dovrebbe rifiutare il pizzo ai mafiosi rischiando rappresaglie, anziché farci amicizia?

ILFQ

“Trattativa Stato-mafia, ma senza un reato”. Inchiesta “boiata”? Ecco quello che non torna. E cosa fecero governi di destra e di sinistra. - Giuseppe Pipitone

 

Per i quotidiani l’inchiesta di Palermo è stata una “boiata”. Ma la sentenza di ieri ha confermato quei rapporti tra ex Ros e boss. Nel caso degli agenti però non è un delitto, lo è solo per i mafiosi. Tutti i dubbi.

Una farsa. Anzi: una bufala. Di più: un teorema. Nel day after della sentenza di secondo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia i titoli di quasi tutti i giornali del Paese tradiscono una venatura di soddisfazione. Un sentimento che diventa palese nei commenti entusiasti di alcuni politici del centrodestra. In un dibattito mediatico estremizzato da vent’anni di veleni, spesso alimentati in palese malafede, le decisioni della corte d’Assise d’Appello sono diventate un assist perfetto per provare a radere al suolo qualsiasi pezzetto di verità giudiziaria precedentemente accertata. E che la stessa corte presieduta da Angelo Pellino, nonostante le assoluzioni, sembra confermare. Ma andiamo con ordine.

Per alcuni quotidiani, tipo La Verità, la sentenza di Palermo vuol che la Trattativa non esiste. E invece la decisione della corte d’Assise d’Appello di assolvere Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno perché il fatto non costituisce reato, vuol dire esattamente l’opposto: il fatto è stato commesso e il fatto è appunto aver interloquito con i mafiosi.

Bisognerà aspettare le motivazioni per capire se i carabinieri siano stati assolti perché nelle loro azioni non c’era dolo, e quindi non c’era la consapevolezza di trasmettere la minaccia di Cosa nostra allo Stato, innescando in Totò Riina la convinzione che le stragi fossero una strategia che pagava.

L’unico imputato che si è visto confermare integralmente la condanna di primo grado è Antonino Cinà, il mafioso accusato di aver fatto da “postino” del papello con le richieste di Totò Riina per far cessare le stragi. Secondo la maggior parte dei quotidiani la condanna di Cinà sommata alle assoluzione di Mori, De Donno e Subranni vuol dire semplicemente che trattare con la mafia non solo era una decisione lecita e legittima, ma addirittura auspicabile. Su questo punto sarà particolarmente interessante leggere le motivazioni, visto che i giudici del processo di primo grado avevano chiaramente scritto nero su bianco come non potesse “ritenersi lecita, in via generale, una trattativa da parte di rappresentanti delle Istituzioni con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa”.

Intanto, dopo mesi di religioso silenzio, ieri è tornato a parlare Marcello Dell’Utri, che a Repubblica è arrivato a dichiarare: “Nel governo di Berlusconi ci sono state solo leggi contro i mafiosi”. Ora: dall’assoluzione di giovedì s’intuisce che per la corte d’Assise d’Appello non c’è alcuna prova che l’ex senatore abbia trasmesso la minaccia mafiosa – stop alle stragi in cambio di leggi favorevoli a Cosa nostra – al governo del suo amico Silvio. In più a Leoluca Bagarella (condannato ieri a 27 anni), mandante di quella richiesta estorsiva tramite Vittorio Mangano, è stato derubricato il reato: da minaccia al governo Berlusconi a tentata minaccia.

Quindi per i giudici la richiesta estorsiva della mafia al primo esecutivo di Forza Italia non si è concretizzata. Resta da capire, dunque, per quale motivo il 13 luglio del 1994 il governo Berlusconi decise di varare il decreto Biondi, noto anche come “Salvaladri”: fece molto scalpore soprattutto perché venne considerato un provvedimento per salvare gli inquisiti di Tangentopoli e tra le polemiche decadde. Al suo interno, però, c’era pure una norma di cui non si accorse quasi nessuno: obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole.

Nell’agosto del 1995 sarà il governo tecnico di Lamberto Dini a varare un nuovo ddl, con i voti bipartisan di centrodestra e centrosinistra (contrari solo Verdi e Lega): tra le altre cose rendeva la custodia cautelare più breve e più difficile da applicare, l’arresto per reati di mafia da obbligatorio diventava facoltativo, la norma che prevedeva l’arresto in flagranza per testimoni reticenti veniva abolita. Insomma non esattamente “leggi contro i mafiosi”. Ma non solo. Perché le leggi pro mafia negli anni successivi alle stragi le hanno fatte tutti: la destra ma pure la sinistra. E a volte sono norme che somigliano molto a quelle del papello.

Nel 1996 al governo arriva l’Ulivo e Forza Italia va all’opposizione: ad agosto alcuni senatori del Ccd presentano un disegno di legge per consentire la dissociazione dei mafiosi. È uno dei passaggi del famoso papello di Riina, consegnato da Cinà. In quel pezzo di carta c’è anche un’altra richiesta: la chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara.

Desiderio esaudito nel 1997 dall’allora guardasigilli Giovanni Maria Flick. Alla fine della legislatura, siamo nel febbraio del 2001, il centrosinistra fa in tempo ad approvare la legge Fassino-Napolitano che riduce i benefici e gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, e impone loro di raccontare tutto quello che sanno entro sei mesi: non è l’abolizione dei pentiti, come chiedeva sempre Riina col papello, ma poco ci manca.

Il ritorno di Forza Italia al governo, è segnato poi dalla riforma del 41bis, che a dicembre si trasforma da misura straordinaria e provvisoria a stabile. Sembra una legge più severa e invece una volta stabilizzato il regime del carcere duro per mafiosi è pure più semplice da revocare. E negli anni successivi molti boss usciranno dal 41bis: tutto questo senza più sparare un colpo.

ILFQ