lunedì 21 agosto 2017

Turisti cafoni e monnezza: anche gli alieni ci schifano. Andrea Scanzi



E’ un peccato che gli alieni non si decidano a invaderci: ci aiuterebbero oltremodo. Certo, vanno capiti. Non siamo granché appetibili ed è difficile immaginare una razza venuta peggio di quella umana. Bastano piccole cose per capirlo, anche solo farsi un giro in treno o su Twitter, tra gente che urla al telefonino coi piedi sul sedile, sgrufolatori di panini immondi che ti masticano davanti – in un abisso parossistico di orrore – e intellettuali di riferimento che scrivono cinguettii da prima elementare convinti d’esser fighi. 

Il massimo della pochezza risiede però, e probabilmente, nella cafoneria che sa raggiungere l’essere umano. Soprattutto, ma non solo, d’estate. Tralasciando per carità di patria – e di ormoni – quelli che per sentirsi vivi fanno sesso in pubblico, e a vederli hai subito voglia di astinenza orgasmica eterna, le cronache di questi giorni sono un florilegio di fenomeni allo stato brado. Una rumenta variegata e spensierata, lanciata a bomba contro la truzzeria infinita. Poveri noi: condoglianze alla decenza minima. 

Nella spiaggia rosa di Budelli, gioiello dell’Arcipelago di La Maddalena, un manipolo di furboni si è intrufolato di notte per rubare un po’ di chicchi rosa. Senz’altro, tornando a casa, quel manipolo si è sentito pure figo. Andrebbe premiato con qualche anno di galera, ma il cafone – di qualsiasi nazionalità – è così coccolato da essere quasi sempre protetto da una sostanziale impunità. 

E sono a milioni, i cafoni. A Caprera, ricordava giorni fa Nicola Pinna su La Stampa, “i vandali hanno abbattuto l’ormeggio in pietra della batteria militare di Candeo, fortezza della Seconda guerra mondiale. A colpi di mazza, cancellando un pezzo della storia militare di La Maddalena”. 
Dieci anni di prigione ascoltando Povia in filodiffusione, no? 
C’è poi chi ha svuotato un bidone intero di olio per motori all’interno della Fontana dei Tritoni di Roma, un gesto che anche solo a pensarlo andresti internato ad honorem. 

A Caserta una donna ha poi fatto il bagno seminuda nella Reggia, e dunque nella vasca di Diana e Atteone: appartiene senz’altro anche lei a quella galassia di diversamente esteti che passeggia nei centri storici vestita ancora da spiaggia. 
Costume, infradito e altri demoni. Giunti al tramonto – anzi alla putrefazione – di quel che resta dell’Occidente, non ci risulta granché dolce naufragare in questo mare di vandalismo & monnezza: è come se, in ogni suo gesto, una consistente parte di umanità dovesse ricordare a se stessa e al mondo quanto è brutta. 

E ci riesce, eh: ci riesce benissimo. Ci riesce alla grande. Ci riesce il “turista” che fa il bagno nella fontana di Trevi, e quando lo guardano è convinto che lo facciano per gli addominali (che non ha) e non per la demenza (che ha in disavanzo). E ci riescono i novelli Phelps che, con plasticità non pervenuta, si tuffano a Venezia dal ponte di Calatrava. A ogni loro respiro, siffatti eroi contemporanei intendono dar torto alle teorie evoluzionistiche di Darwin, pur non sapendo minimamente – va da sé – chi sia mai stato ‘sto Darwin. 
Solidarietà poi a Villamare nel Cilento, così bella e certo non meritevole della condanna biblica di quei “turisti” entrati in Chiesa in costume e infradito. Meritorio pure chi, ogni anno, fa puntualmente la foto di rito in Piazza del Popolo a Roma a cavallo dei leoni. Risulta poi epica e meritevole di solenne encomio la scienziata che, a Porto Pino in Sardegna, ha sciacquato la scatoletta di tonno in mare. E nel farlo si è sentita normale. Crede davvero che una cosa così sia normale. Ed è tutto lì il dramma. Ed è proprio per questo che, a invaderci, gli alieni non ci pensano proprio. (Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2017)

http://www.andreascanzi.it/?p=5079

sabato 19 agosto 2017

A Barcellona manca solo un idraulico moldavo, poi il cast è al completo. Ma il segnale è arrivato. - Mauro Bottarelli

C’è una sola cosa che mi sento di dirvi senza timore di smentita: anche dopo la peggior notte di bisboccia, il mattino dopo ho sempre fornito versioni dell’accaduto più lineari e credibili di quelle degli inquirenti spagnoli. Sempre. Magari sbiascicando ma mai inondando di cazzate il mio interlocutore come il fiume in piena di non-sense che arriva a getto continuo dalla Catalogna. Riassumo, per quanto sia riuscito a capirci qualcosa, per sommi capi. Attorno alle 5 del pomeriggio di ieri, un furgone entra nella rambla all’altezza di Plaza de Catalunya e falcia 13 persone, lasciandone ferite sul selciato oltre un centinaio. Schiantatosi contro un chiosco, dal van esce una persona con una camicia bianca a righe azzurre, qualcuno dice che stia ridendo e si dilegua.
Prima certezza. chi guidava il furgoncino della strage, l’esecutore materiale, è sparito. In compenso, fioccano i comprimari come in un film di Woody Allen: prima è un solo complice, con il quale il guidatore fuggitivo si sarebbe asserragliato in un ristorante turco con alcuni ostaggi, pare il personale. Balla. Poi, gli attentatori diventano quattro: uno in fuga, due arrestati e un morto. Poi, altro colpo di scena: nella migliore tradizione, dentro il furgone viene trovato un passaporto, spagnolo ma con identità araba: si tratterebbe di un cittadino di origine maghrebina ma residente a Marsiglia. Et voilà, compare all’orizzonte la pista del radicalismo francese. Il titolare della carta, però, vistosi tirato in ballo, va dalla polizia a dire che non c’entra un cazzo e che gli hanno rubato i documenti, poi utilizzati per noleggiare il van della strage. Sarebbe stato il fratello.
Nel frattempo, a Barcellona è caccia all’uomo. Anzi, agli uomini. Anzi, no, perché alle 20 la polizia autorizza tutti a uscire dai luoghi pubblici in cui avevano trovato rifugio durante l’emergenza, la rambla parzialmente riapre. E l’autista? E il presunto complice del ristorante? Sa il cazzo, spariti. Comincia la danza macabra della contabilità di morti e feriti, cominciano le dichiarazioni ufficiali di solidarietà dal mondo intero, si spegne la Torre Eiffel. Insomma, la solita menata. Si va a dormire con il computo fermo a 13 morti e oltre 100 feriti, 15 dei quali gravi. Ma, colpo di scena, attorno all’una di notte scatta una seconda parte del presunto piano terroristico, questa volta a un centinaio di chilometri da Barcellona, a Cambrils, di fatto la Pinarella di Cervia di Tarragona: chi non va a immolarsi lì per trovare gloria eterna, santo cielo!
I morti sarebbero 5, tutti terroristi che avrebbero cercato di emulare il commando di Barcellona, facendo però solo 7 feriti, tre dei quali pare poliziotti. Tre sono anche le versioni che danno altrettanti quotidiani spagnoli dell’accaduto: due terroristi sarebbero stati ammazzati in uno scontro a fuoco e tre all’interno del van; tutti e cinque uccisi all’interno del van; quattro morti, di cui due per ferite di armi da taglio e uno in fuga. Anche qui, chiarezza assoluta. In compenso la notte folle di Cambrils ha un elemento in comune: i cinque terroristi avrebbero tutti indossato cinture da kamikaze. Finte, ovviamente.
Ora, capite da soli che mancano solo un trapezista uzbeko e un odontotecnico macedone e il quadro di questa caccia all’uomo pare completo. C’è tutto: il furgone-killer, l’autista in fuga, il passaporto, lo scambio di persona, il secondo commando e i kamikaze annientati. Roman Polanski pagherebbe oro per l’esclusiva. Ovviamente, l’Isis ha rivendicato l’atto come opera di suoi soldati. Lo ha fatto un po’ alla cazzo, però, tipo conferenza stampa per l’addio al calcio di Antonio Cassano: prima sì, poi no, poi la versione ufficiale. Ormai anche SITE di Rita Katz fatica a credere alle cazzate che spara e tende a scordarsi le rivendicazioni, salvo metterci pezze ben peggiori del buco. Insomma, abbiamo un clamoroso caso di violazione di una zona interdetta da parte di un furgone killer e poi una serie di eventi che definire quantomeno poco chiari è dir poco.
Ci sono i morti e i feriti, per carità: lungi da me mettere in campo tesi tipo quelle dei figuranti pagati o dei manichini con il succo di pomodoro addosso. Resta il fatto che lasciar fare a un mezzo squinternato – come al solito, noto alla polizia – equivale a non aver fatto il proprio dovere: non credo minimamente al fatto che la polizia catalana sia precipitata in un vortice di errori e incapacità tali. A meno che, stante l’approssimarsi del referendum sull’indipendenza da Madrid e il rischio di nuove elezioni anticipate, qualcuno non si sia divertito a far fare loro una bella figura di merda in mondovisione, dimostrando inconsciamente come sia necessario stare uniti per vincere la minaccia terroristica. La quale era pressoché sparita, dopo un paio di colpi di coda tutti da ridere in Francia (tipo l’attentatore in retromarcia che arriva indisturbato davanti alla sede dell’antiterrorismo), salvo ora ritornare in grande stile.
Ah, dimenticavo: uno dei fermati/latitanti – visto che non si capisce un cazzo, inserisco entrambe i ruoli – sarebbe di Medilla, una delle due enclave spagnole in Marocco sotto assedio dalla nuova tratta dei migranti, la quale dopo mesi e mesi di fedeltà al Mediterraneo, ha stranamente deciso di cambiare rotta nelle ultime due settimane, scegliendo la penisola iberica come meta dei viaggi di fine stagione. Nel caso a Ceuta e Medilla, nelle prossime settimane, servisse usare il pugno duro – magari anche con scafisti e ONG – chi potrebbe dire nulla, a fronte di un sospettato e 13 morti sul marciapiedi?
E poi, culmine dei culmini, ecco che due mesi fa la CIA avrebbe avvisato le autorità catalane proprio del forte rischio di un attentato sulle Ramblas durante l’estate. E i catalani? Niente, duri come il muro: e adesso si piangono vittime e inseguono fantasmi in camicia bianca a righe azzurre. Incredibilmente, l’avviso della CIA è stata la seconda notizia giunta ieri da Barcellona, dopo quella del camion sulla folla: che tempismo, trattandosi di materiale d’intelligence, non vi pare? D’altronde, ultimamente con il tempismo e i servizi gli americani ci vanno forte, basti vedere il caso Regeni, riesploso dalla sera alla mattina nella noia sudaticcia di Ferragosto. Ma attenzione, perché come ci mostra questo video tratta dalla diretta,della CNN di ieri pomeriggio
spesso anche le cose raffazzonate, possono risultare utili: soprattutto quando una delle principali tv del mondo scende così in basso da mettere in relazione diretta quanto accaduto a Charlottesville e sta grigliando il presidente USA fra le critiche con l’attacco a Barcellona, dicendo che i perpetratori di quest’ultimo avrebbero forse preso esempio dai suprematisti in azione in Virginia. Insomma, in prime time, l’americano medio, il quale non sa nemmeno dove stia Barcellona, viene indottrinato sul rischio che quanto sta accadendo in America attorno ai monumenti confederati possa addirittura ispirare gli atti di terrore dell’Isis. E tranquilli, nessuno – di fronte a quei corpi sul marciapiedi – si chiederà come mai, di colpo, i miliziani dello Stato islamico abbiano deciso di venir meno a una delle loro regole numero uno, ovvero applicare il martirio a ogni loro azione. A Barcellona, nessuno era intenzionato a morire.
Two things corporate media consistently does.
1) Scare people
2) Convince them to give up liberties to fight the enemy du jour.
Anche perché, al netto delle chiacchiere dei presunti “esperti anti-terrorismo” che parlano di un reticolo di contatti e cellule ben radicate nel territorio, a Barcellona sono morti solo civili: l’autista è in fuga e gli altri presunti membri del commando non si sa bene quale fine abbiano fatto. Né, se esistano. I cinque di Cambrils, poi, se è andata come dicono, più che terroristi erano partecipanti a un addio al celibato con sorpresa, finito male. Occorreva dare un po’ di adrenalina da paura all’Europa, adagiatasi troppo sulla sua ritrovata serenità post-elezioni francesi? Serve aprire un fronte spagnolo del timore radicalista e dei foreign fighters? Bisogna minare alla radice il referendum sull’indipendenza di Barcellona da Madrid? Bisogna tenere vivo lo spaventa-folle chiamato Isis in Europa, dopo le debacle sul campo in Siria e Iraq?

O magari fiaccare lo spirito che in febbraio ha portato in piazza, proprio a Barcellona, 200mila persone per dire sì all’arrivo di migranti, in nome dell’accoglienza e della solidarietà? E non perché i migranti non siano un problema, anzi ma perché occorre creare nell’opinione pubblica un clima particolare proprio in certe roccaforti dell’immaginario collettivo liberale, quale Barcellona è. Chissà, può essere tutto e può essere nulla. Ma quando si parla senza il minimo dubbio di reticolati di contatti e commando jihadisti sul territorio a fronte di un autista-killer sparito nel nulla, il dubbio che quelle lacrime e quei volti straziati dalla paura siano strumentali a qualcosa, sorge davvero spontaneo. E si staglia nitido. Come un documento nella cabina di un van. Perché ricordatevi che la paura deve essere il vostro unico Dio.

I figli dei preti.

boston-globe

Il team "Spotlight" del Boston Globe – quello del film – ha pubblicato la sua ultima inchiesta: sul celibato nella Chiesa cattolica e sui sacerdoti diventati padri.

Il Boston Globe, storico quotidiano di Boston fondato nel 1872, ha pubblicato ieri l’ultima inchiesta di “Spotlight”, il suo team di giornalismo investigativo, uno dei più famosi al mondo. L’inchiesta, divisa in due parti (qui e qui), riguarda i figli dei sacerdoti cattolici, figli “illegittimi” visto che da nove secoli la Chiesa cattolica impone il celibato ai suoi sacerdoti: racconta la storia di alcuni di loro, di come sono venuti a sapere nel corso della loro vita di essere figli di preti, delle difficoltà e problemi che hanno dovuto affrontare e delle risposte che la Chiesa ha dato sul tema negli ultimi anni. L’inchiesta è stata molto ripresa anche per la notorietà ottenuta dal team investigativo del Boston Globe dopo l’uscita del film Il caso Spotlight, nel febbraio 2016, che tra le altre cose ha vinto l’Oscar come miglior film.
Michael Rezendes, autore dei due articoli del Boston Globe e membro del team Spotlight (nel film Spotlight è il giornalista interpretato da Mark Ruffalo), ha raccontato alla trasmissione CBS This Morning di avere cominciato l’inchiesta dopo essere venuto a conoscenza della storia di uno dei molti figli di sacerdoti negli Stati Uniti, Jim Graham, e di avere capito che non era un episodio isolato – un’eccezione, come sostiene la Chiesa da molti anni – ma di una situazione che probabilmente coinvolge migliaia di persone in tutto il mondo: «Capii che era una cosa sistematica e meritava tutta la mia attenzione», ha detto Rezendes. Gli articoli del team Spotlight partono da qui, dalla storia di Graham e dalle sue ricerche – iniziate ormai più di vent’anni fa – per scoprire qualcosa di più sul suo padre biologico.
Graham, ha raccontato il Boston Globe, passò la sua giovinezza e parte della sua vita adulta a chiedersi come mai quello che credeva essere suo padre – John Graham, proprietario di una pompa di benzina a Buffalo, nello stato di New York – lo detestasse così tanto. Nel 1993, quando i suoi genitori erano già morti, Graham tornò a Buffalo, dove incontrò i suoi zii per sapere la verità sul suo passato. Sua zia Kathryn tirò fuori una lettera di un ordine religioso cattolico: mise il dito sulla fotografia che ritraeva un uomo calvo, con lo sguardo triste, che indossava il collarino ecclesiastico, il collarino bianco dei preti: «Solo i tuoi genitori lo sanno per certo, ma quest’uomo potrebbe essere tuo padre». Quell’uomo era il reverendo Thomas Sullivan, che si era laureato al Boston College e che poi aveva studiato da sacerdote a Tewksbury, in Massachusetts. Tempo dopo Graham venne a sapere che quello che aveva creduto per molto tempo essere suo padre, John Graham, aveva scoperto che sua moglie lo aveva tradito con Sullivan, e per questo voleva il divorzio: «Assomigliavo così tanto a mio padre [a Sullivan], devo essere stato [per John Graham] un costante ricordo dell’uomo che gli aveva portato via la moglie».
Oggi Graham sta ancora aspettando la conferma ufficiale che suo padre fosse Sullivan.
Un’alta storia molto intensa raccontata dal Boston Globe è quella di Chiara Villar, una donna di 36 anni che vive nella periferia di Toronto, in Canada. Villar sa di essere figlia di un prete da quando era molto piccola, ma sua madre le ha sempre detto di riferirsi a lui solo come a uno zio: «Mi chiedevo perché non poteva essere mio padre, così ho cominciato a sentirmi in colpa». La madre di Villar, Maria Mercedes Douglas, incontrò Anthony Inneo all’inizio degli anni Settanta a Buffalo. Douglas non sapeva che Inneo era un sacerdote; quando l’aveva conosciuto non indossava il collarino bianco. Dopo essere tornata a Madrid per un periodo, Douglas andò di nuovo a Buffalo, dove aveva degli amici, e iniziò una relazione con Inneo. Quando Inneo le disse di essere un sacerdote, Douglas non ci poteva credere: «Sembrava uno scherzo di cattivo gusto», ha raccontato al Boston Globe. I due continuarono comunque la loro relazione e Inneo le promise che avrebbe lasciato presto il sacerdozio. Poi, un giorno, lei scoprì di essere incinta: «Fu uno shock. Non sapevo cosa fare». Lo disse a Inneo, ma lui rispose che non era ancora pronto a lasciare la sua vita religiosa. Lei cominciò a credere che non l’avrebbe mai fatto.
Fin da quando era piccola, Chiara Villar – la figlia di Douglas e Inneo – sapeva la verità sul padre, ma non poteva dirla a nessuno: «Non penso che loro [i miei genitori] capissero il trauma psicologico che mi avrebbe provocato il fatto di dirmi che dovevo mentire», ha raccontato Villar. Negli anni successivi Inneo andò regolarmente a vedere sua figlia, con la quale aveva un ottimo rapporto, ma Villar era costretta a continuare a mentire: «In privato lui era mio padre, ma in un attimo, quando uscivamo dalla macchina di mia madre, era una cosa tipo, “Ok, Chiara, che Dio ti benedica”. Era tutto un Dr. Jekyll e Mr. Hyde». Quando fu più grande, Villar cominciò a sentirsi in colpa e a considerarsi non meritevole dell’amore di suo padre: cominciò a farsi regolarmente dei tagli sul corpo. Villar non ebbe mai la possibilità di avere una relazione normale e pubblica con suo padre: dopo che Inneo si ammalò di Alzheimer, la sua famiglia lo mise in una casa di cura senza dirle niente. Lei trovò l’indirizzo e andò a trovarlo, ma la malattia era già in fase avanzata e lui non la riconobbe: «Mi ha nascosto tutta la sua vita e poi si è ammalato di Alzheimer, e mi ha dimenticata», ha raccontato Villar al Boston Globe.
Il Boston Globe ha scritto che probabilmente ci sono migliaia di figli di sacerdoti in tutto il mondo: Irlanda, Messico, Polonia, Paraguay, Stati Uniti e molti altri paesi, dovunque ci sia la Chiesa cattolica (quindi ovviamente anche in Italia). Il numero esatto non si può sapere, ma negli ultimi anni molti di loro sono entrati in contatto grazie a un sito internet creato da Vincent Doyle, figlio di un prete cattolico irlandese che ha scoperto la verità sulla sua famiglia quando aveva 28 anni. Grazie al sito, che si chiama Coping International, Doyle ha conosciuto decine di figli di preti, tra cui molte persone che a causa della loro storia – a volte perché costrette a mentire, altre per la mancanza di un sostegno finanziario da parte del padre biologico – hanno avuto problemi psicologici ed economici. Doyle ha anche cercato di rivolgersi direttamente al papa. Nel giugno 2014 andò a San Pietro per assistere alla messa della domenica: quando papa Francesco passò davanti a lui, gli baciò l’anello e gli diede una lettera tradotta in spagnolo che parlava della situazione dei figli dei sacerdoti. A Doyle sembrò che il papa leggesse il primo paragrafo della lettera: «Aveva uno guardo sincero e profondo sul suo viso. Poi strinse la lettera vicino al cuore e disse: “Sì, sì, la leggerò”». Doyle però non ricevette mai una risposta. Nel frattempo la Chiesa cattolica continuò a trattare i figli dei sacerdoti come situazioni negative ma “eccezionali”, minimizzando la dimensione del fenomeno.
Il diritto canonico, il sistema di leggi, regole e principi che la Chiesa usa per governare il mondo cattolico, non spiega come dovrebbe comportarsi la Chiesa nel caso in cui un sacerdote faccia dei figli. Il contributo economico alla madre del bambino dipende dalla generosità del sacerdote, non esiste nessun obbligo:
«Alcuni sacerdoti nei casi analizzati dal Globe hanno preso le loro responsabilità seriamente. Sono padri devoti, anche se in privato. Alcuni hanno promesso alle donne madri dei loro figli che avrebbero lasciato il sacerdozio, ma pochi l’hanno fatto; altri le hanno confortate dicendo che sarebbe stato solo questione di tempo prima che la Chiesa abbandonasse l’obbligo del celibato, decisione che però papa dopo papa, compreso papa Francesco, non è mai stata presa.»
In molti casi i sacerdoti non hanno assunto la responsabilità finanziaria o legale per i loro figli. Dei 10 casi analizzati approfonditamente dal Boston Globe, solo due madri hanno deciso di rivolgersi a un tribunale per ottenere un qualche tipo di sostegno per i loro figli, mentre tutte le altre hanno lasciato che fosse il padre a decidere quanto dare ed essere presente. In altri casi, ha scritto il Boston Globe, non c’è stato nemmeno bisogno che il sacerdote chiedesse segretezza: le madri profondamente cattoliche lo considerano non solo come il padre dei loro figli, ma anche come un rappresentante di Dio. Questo ha fatto sì che le donne vittime di abusi sessuali siano state riluttanti a riportare alle autorità quello che era successo, perché si assumevano spesso la colpa della violenza.
Negli ultimi anni sono stati pochi i leader della Chiesa cattolica che hanno parlato della situazione dei sacerdoti con figli. Uno di loro è stato l’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, che tra le altre cose ha aiutato Doyle a lanciare il suo sito, Coping International. Martin ha detto: «Un bambino ha il diritto di conoscere suo padre e ogni padre ha obblighi fondamentali nei confronti di suo figlio o sua figlia». Di recente la Conferenza episcopale dei vescovi irlandesi ha approvato delle linee guida che chiedono a ogni sacerdote con figli di «affrontare le proprie responsabilità personali, legali, morali e finanziarie», ma non chiedono la rinuncia al sacerdozio. Doyle sperava che una decisione simile fosse presa anche dal Vaticano, ma le cose sono andate diversamente. Il cardinale Sean O’Malley, importante consigliere di papa Francesco e capo della Commissione pontificia per la protezione dei minori, ha scritto un breve comunicatosulla questione in risposta all’inchiesta del Boston Globe. In un passaggio si legge che ciascun sacerdote che ha fatto un figlio ha «un obbligo morale di farsi da parte dal sacerdozio e provvedere alla cura e ai bisogni della madre e del figlio». O’Malley ha aggiunto che la commissione che guida non si occuperò di queste situazioni, perché andrebbero oltre il suo mandato.
Tre anni fa, la commissione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino ha parlato dei casi in cui sacerdoti cattolici avevano costretto le donne incinte dei loro figli a rimanere in silenzio per evitare lo scandalo, in cambio di sostegno finanziario. La commissione aveva chiesto al Vaticano di dire quanti fossero il numero dei bambini figli di sacerdoti, aveva chiesto di scoprire chi fossero e di prendere tutte le misure necessarie per assicurare che i diritti di questi bambini venissero garantiti. Il Vaticano dovrà farlo entro l’1 di settembre di quest’anno.

In Tennessee si offrivano sconti di pena ai detenuti in cambio della loro sterilizzazione.

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Christel Ward, una delle donne che avevano accettato di farsi impiantare un contraccettivo a lungo termine in cambio di una riduzione della propria pena in un carcere del Tennessee, fuori dal tribunale federale di Nashville, il 17 agosto 2017 (AP Photo/Jonathan Mattise)

Un giudice e uno sceriffo credevano potesse impedire la nascita di bambini con dipendenze da droga, e ora sono sotto processo.

Negli Stati Uniti è cominciata una causa contro un giudice, uno sceriffo e una vicesceriffa del Tennessee che lo scorso maggio offrirono a un gruppo di detenuti un breve sconto di pena se si fossero sottoposti a procedure di sterilizzazione. Gli interventi sarebbero stati definitivi nel caso degli uomini, con una vasectomia, e temporanei ma a lungo termine nel caso delle donne, con il Nexplanon, un impianto contraccettivo ormonale sottocutaneo: un bastoncino di plastica che viene inserito sotto la pelle e rilascia ormoni che per circa tre anni inibiscono l’ovulazione.
Secondo il suo ideatore, il giudice Sam Benningfield, l’iniziativa sarebbe stata proposta per combattere il problema del consumo di droghe, in particolare di farmaci a base di oppiacei, il cui abuso è uno dei più gravi problemi sociali degli Stati Uniti contemporanei. Benningfield sperava di impedire che le donne e gli uomini tossicodipendenti, che una volta usciti di prigione in molti casi tornano a consumare droghe, potessero generare figli a loro volta con dipendenze.
Il 27 luglio Benningfield aveva cancellato l’iniziativa, dopo che i giornali nazionali ne avevano parlato, attirando sul giudice e sull’ufficio dello sceriffo della White County molte critiche e accuse di aver introdotto una pratica di eugenetica. Benningfield aveva in realtà detto di aver cancellato l’iniziativa solo perché il dipartimento della Sanità dello stato del Tennessee si era rifiutato di pagare per le vasectomie dei detenuti e l’impianto dei Nexplanon per le detenute. Molti dei 221 detenuti della prigione di White County avevano comunque accettato lo scambio: a 32 donne sono stati impiantati i Nexplanon, mentre non c’era stato tempo per effettuare le vasectomie ai 38 uomini prima che l’iniziativa venisse cancellata. Lo sconto di pena promesso dal giudice era di 30 giorni.
Nella White County vivono circa 26mila persone, bianche per il 90 per cento, di orientamento politico principalmente conservatore e perlopiù cristiane. In media ogni anno vengono commessi 1.500 crimini, soprattutto furti e reati connessi alle droghe. Le persone che finiscono nel tribunale di Benningfield hanno commesso reati minori, come possesso di droga, guida in stato di ebbrezza, furti per un valore minore di 1.000 dollari o mancati pagamenti degli alimenti per un figlio: la pena massima che il giudice può imporre è di 11 mesi e 29 giorni.
La causa è stata intentata per conto di Christel Ward, una delle donne a cui era stato impiantato il Nexplanon, e di altri 15 detenuti. Ward chiede che l’iniziativa del giudice Benningfield sia dichiarata incostituzionale e che le sia rimosso gratuitamente il Nexplanon che le è stato impiantato; se dovesse pagarsi da sé la rimozione dell’impianto dovrebbe spendere 250 dollari, circa 210 euro. Gli avvocati di Ward e degli altri detenuti ritengono che il vero ideatore dello scambio offerto ai detenuti però non sia Benningfield, ma lo sceriffo della White County Oddie Shoupe e il suo ufficio.
Un’altra delle detenute che si è fatta impiantare il Nexplanon in cambio di uno sconto di pena di trenta giorni è Kristi Seibers, che non aveva precedenti legati alle droghe. È stata intervistata in un lungo articolo di BBC, in cui ha raccontato che il Nexplanon le ha causato una serie di spiacevoli effetti collaterali, tra cui mestruazioni lunghe due mesi, un’infezione vaginale, crampi, aumento del peso e calo del desiderio sessuale, cosa di cui si è accorta dopo essere stata liberata e essere tornata a vivere con il proprio compagno. Inoltre, dopo che l’iniziativa è stata cancellata, sia Seibers che Ward non hanno ottenuto lo sconto di pena promesso: si è scoperto che le loro condanne non prevedevano questa possibilità, cosa che ha messo ulteriormente in discussione lo scambio. Seibers e altre detenute che si sono fatte impiantare il Nexplanon non avevano problemi di consumo di droghe, e per questo molti critici di Benningfield lo hanno accusato di voler semplicemente impedire che detenuti avessero dei figli in generale, e non soltanto dei figli con dipendenze.
L’American Civil Liberties Union del Tennessee ha criticato l’iniziativa dicendo che «una scelta tra la sterilizzazione o i metodi contraccettivi e uno sconto di pena non è una vera scelta», soprattutto perché per molti dei detenuti stare in prigione anche solo per alcuni giorni può portare alla perdita della custodia dei figli, del lavoro o del proprio alloggio. In propria difesa Benningfield e l’ufficio dello sceriffo locale hanno detto che nessuno dei detenuti è stato costretto ad accettare lo scambio.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di sterilizzazioni forzate degli indigenti, delle persone affette da patologie psichiatriche (al tempo in cui l’omosessualità era ritenuta una malattia) e delle minoranze etniche. In totale 32 stati hanno avuto un programma di sterilizzazioni finanziate dal governo federale nelle proprie prigioni o nei propri manicomi, e in alcuni casi la sterilizzazione era una condizione per essere rilasciati dalle prigioni.
Alcune di queste pratiche sono state portate avanti fino agli anni Ottanta. Nel 2014 il governatore della California ha espressamente vietato le sterilizzazioni nelle prigioni dopo che decine di donne si erano fatte chiudere le tube in carcere senza aver dato un consenso informato legittimo.

Attentato a Barcellona, perché dopo 13 anni la Spagna è tornata nel mirino. - Alberto Negri

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L’attentato sulle Ramblas di Barcellona , una delle più celebri arterie metropolitane del mondo, il cuore della vita e della movida catalana, è sconvolgente ma non imprevedibile. Soprattutto se, come la rivendicazione dell’Isis fa pensare, venisse accreditata la matrice jihadista.

A parte gli avvertimenti veri o presunti della Cia alle autorità spagnole sulle possibilità di un attentato a Barcellona, la Spagna è da lungo tempo nel mirino. In Spagna sono stati arrestati 636 jihadisti dopo gli attentati ferroviari alla stazione di Madrid del marzo 2004 in cui rimasero uccise circa duecento persone e più duemila ferite. Al Qaeda e lo Stato Islamico hanno una rete di propaganda diffusa e penetrante con cui hanno reclutato diversi jihadisti per andare a combattere in Siria e in Iraq. Un recente studio dell’Instituto Elcano ha rilevato che dei 150 jihadisti arrestati in Spagna negli ultimi quattro anni 124 (l’81,6%) erano collegati allo Stato islamico e 26 (il 18,4%) ad Al Qaeda.

Non bisogna mai dimenticare che cosa significa la penisola iberica nell’immaginario del mondo musulmano su cui puntano le organizzazioni terroristiche di matrice islamica: questo è Al Andalus, il nome che gli arabi hanno dato a quei territori della Spagna, del Portogallo e della Francia occupati dai conquistatori musulmani (conosciuti anche come Mori) dal 711 al 1492. Molti musulmani credono che i territori islamici perduti durante la riconquista cristiana della Spagna appartengano ancora al regno dell’Islam e i più radicali sostengono che la legge islamica dia loro il diritto di ristabilirvi la dominazione musulmana.
Un concetto che emerge in maniera molto chiara nei materiali di propaganda dell’Isis. «Riconquisteremo Al Andalus, col volere di Allah. O carissimo al-Andalus! Pensavi che ti avessimo dimenticato ma quale musulmano potrebbe dimenticare Cordoba e Toledo», si afferma in un video dello Stato islamico. In un opuscolo diffuso dallo Stato islamico si legge che dalla creazione dell’Inquisizione spagnola nel 1478, la Spagna «ha fatto di tutto per distruggere il Corano». Si dice poi che la Spagna ha torturato i musulmani e li ha bruciati vivi. Pertanto, secondo i jihadisti, «la Spagna è uno Stato criminale che usurpa la nostra terra». Il testo esorta esplicitamente i militanti al terrorismo e a «perlustrare rotte aeree e ferroviarie per compiere attentati».

Che un attentato fosse nell’aria lo confermano anche i recenti arresti in Spagna di jihadisti di origine marocchina, una cellula dell’Isis che agiva tra Palma di Maiorca, Madrid, la Gran Bretagna e la Germania. Uno degli arrestati si era recato in varie occasioni a Palma di Maiorca per avviare la struttura terroristica che avrebbe dovuto seminare il terrore nell’isola delle Baleari. Tre dei membri della cellula inoltre sono protagonisti come attori di un video di propaganda, pubblicato su un canale con oltre 12mila sottoscrittori, che mostra il processo di radicalizzazione di un giovane musulmano in Spagna che decide di andare a combattere in Siria. Ma questo non è stato certo l’unico caso. In primavera proprio a Barcellona erano stati arrestati alcuni jihadisti marocchini che erano presenti il 22 marzo 2016 a Bruxelles, nel giorno del duplice attentato dell’Isis all’aeroporto Zaventem e alla metro.


La Spagna tra l’altro è considerata dai gruppi jihadisti uno degli alleati degli americani nella lotta al terrorismo: presenti in Medio Oriente con le truppe in Iraq e in Libano, gli spagnoli hanno il loro fronte più vulnerabile nel Maghreb per la vicinanza geografica al Marocco e le enclave di Ceuta e Melilla, proprio nel territorio del regno alauita. Le statistiche sono abbastanza esplicite: oltre il 45% di tutti i jihadisti arrestati in Spagna è nato in Marocco, il 39% in Spagna e solo il 15% in altri Paesi. Consapevole della centralità della lotta al terrorismo il governo spagnolo nel 2014 ha persino avviato un’applicazione per smartphone, AlertCops, per coinvolgere i cittadini nella segnalazione alla polizia di sospetti jihadisti. Ma restano tutte le difficoltà da parte dei servizi di sicurezza di prevenire un attacco terroristico da parte di piccole cellule o di “lupi solitari”, come hanno dimostrato gli eventi di Parigi, Londra, Manchester, Nizza, Colonia, Berlino, Stoccolma. E ora la ferita del terrore insanguina Barcellona, su quella Rambla, lunga più di un chilometro, che collega Plaça de Catalunya al vecchio porto. Rambla, un nome che deriva proprio dall’arabo e che in queste ore segna un tragico destino.

venerdì 18 agosto 2017

Ecco chi finanzia la cassaforte di Renzi: 2 milioni in un anno. - Stefano Feltri e Carlo Tecce



(il fatto quotidiano) – Per vincere il referendum Matteo Renzi aveva avviato una raccolta fondi senza precedenti: la sua fondazione Open nel 2016 ha quadruplicato il bilancio, i contributi incassati sono passati da 487.635 a 1,9 milioni di euro, più dell’intero Pd che di donazioni ha raccolto soltanto un milione e mezzo. Sono i conti dello scorso anno che la fondazione Open guidata dall’avvocato Alberto Bianchi (che grazie al governo Renzi siede, tra l’altro, nel cda Enel) ha approvato poche settimana fa e che il Fatto ha esaminato.
Per la partita decisiva –poi persa – Renzi aveva scatenato i suoi fundraiser. E alla chiamata molti grandi finanziatori hanno risposto: 48 “persone giuridiche”, cioè aziende e associazioni, hanno versato un milione di euro e 63 persone fisiche 909 mila euro. Poi ci sono 5.800 euro arrivati tramite Pay Pal, contributi classificati come “non identificabili”. Ma i donatori che accettano di essere identificabili sono pochi. E oltre la metà delle risorse raccolte da Open nel 2016 arriva da finanziatori che vogliono restare anonimi. Per non essere collegati a Renzi, si suppone.
LA PARTE della lista conosciuta comprende, tra gli altri, l’armatore Vincenzo Onorato, che versa 50.000 euro a titolo personale e 100.000 euro con la sua Moby. Non solo un atto di generosità: Onorato, negli ultimi due anni, ha lanciato un’offensiva di lobby per imporre sulle navi battenti bandiera italiana solo marittimi italiani (una mossa contro i concorrenti di Grimaldi). La battaglia ha trovato una sponda molto collaborativa tra i deputati renziani. Facile da intuire anche la contropartita per il Gruppo Getra che versa ben 150.000 euro in due tranche: l’11 giugno 2016, Renzi è andato a visitare gli stabilimenti dell’azienda produttrice di trasformatori elettrici (100 milioni di fatturato) a Marcianise. E il presidente Marco Zigon ha dichiarato che “l’ampliamento degli stabilimenti è stato reso possibile dalla virtuosa collaborazione tra azienda, istituzioni e Invitalia”.
Non manca la Alicros, l’azienda del Campari, che sostiene Renzi con 30.000 euro come altri anni. Pagano il loro obolo anche i poteri forti (o quasi) toscani. I fratelli Fratini con Renzi a Firenze hanno buoni rapporti da sempre, nel 2013 hanno perfino venduto palazzo della Gherardesca per 150 milioni di euro all’emiro Al-Thani del Qatar, padre di quello che sarebbe poi diventato assiduo interlocutore dell’ex premier. Dalla loro Fingen arrivano 100.000 euro.
Poi c’è la Karat dei fratelli Bassilichi che ci mette 50.000 euro, e la Corporacion America Italia dell’argentino Eduardo Eurnekian che, forte del suo investimento in Toscana Aeroporti, contribuisce alla causa con altri 50.000 euro. La Big Spaces srl partecipa con 30.000 euro: è una società di Andrea Baccuini che si occupa di eventi ma anche e soprattutto di locali in montagna, a Courmayeur, dove Renzi ha trascorso il capodanno 2015. Ci sono versamenti più misteriosi, come quello da 75.000 euro che arriva dalla “Associazione culturale Azimut”. Esiste a Torino un ente con quel nome che promuove giovani artisti emergenti ma, contattato dal Fatto, non ha risposto.
Sono soltanto due le persone fisiche che scelgono di apparire con nome e cognome, a parte l’armatore Onorato: Dario Parrini, deputato del Pd e segretario del partito in Toscana, che versa giusto una cifra simbolica, 1.050 euro, e Ernesto Carbone, altro onorevole dem che per Renzi tiene i rapporti con molte lobby importanti (lui è più generoso e paga 7.200 euro).
La fondazione Open ha speso questi denari per le attività tipiche di un partito politico, perché Open non ha altra missione che sostenere le iniziative politiche di Renzi, dentro il Pd ma non solo. Nel 2016 Open ha speso ben 126.176 euro per servizi fotografici e ricerche video, poi 243.487 per l’organizzazione di eventi, 503.162 euro per “consulenze tecniche di comunicazione, sondaggi, servizi e social network”, il grosso però è andato per le “campagne promozionali”, ben 872.580 euro. Per le spese telefoniche se ne sono andati 37.768 euro, altri 48.878 per affittare sale, parchi e teatri, 60.000 per le licenze per i software.
Fino al 2015 la fondazione Open non aveva dipendenti. Nel 2016 invece stipula 26 contratti a progetto – una delle forme di precariato che il Job Act renziano aveva promesso di abolire – per la fase più calda della campagna referendaria: dal 20 ottobre al 10 dicembre 2016. Spesa complessiva per il personale: 52.859 euro. Che significa 2000 euro di media a testa, nell’ipotesi che questi siano stati gli unici collaboratori che Open ha pagato nel 2016 (i vertici della fondazione non prendono gettoni per esercitare le proprie cariche).
ALLA FINE dello scorso anno, dopo la sconfitta referendaria, le casse della fondazione Open sono quasi vuote: il bilancio si chiude con una perdita di 165.967 euro e sui conti correnti sono rimasti soltanto 76.511 euro dei 373.396 che c’erano a gennaio. Ripetere gli stessi successi di raccolta tra i finanziatori che dal 2012 appoggiano Renzi sarà ora molto più difficile, visto che la prospettiva del ritorno a Palazzo Chigi dei renziani è assai più remota di quanto poteva sembrare possibile un anno fa la vittoria del “Sì” nel referendum.

mercoledì 16 agosto 2017

Giulio Regeni, Nyt: “Da governo Usa a quello di Renzi prove sul ruolo dei servizi egiziani”. P.Chigi: “Nessun elemento di fatto”.

Giulio Regeni, Nyt: “Da governo Usa a quello di Renzi prove sul ruolo dei servizi egiziani”. P.Chigi: “Nessun elemento di fatto”

Secondo il quotidiano statunitense "informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto sul fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso il ricercatore italiano" furono girate dallo staff di Obama all'esecutivo di Roma. La guerra dei servizi, il ruolo dell'Eni e i timori dell'allora ambasciatore italiano. Fonti dell'esecutivo Gentiloni: "Nessuna prova esplosiva". La madre: "Sempre più a lutto".

“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dall’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che, nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’assassinio del ricercatore, non furono mai trasmessi “elementi di fatto”, come ricorda lo stesso giornalista del New York Times, né “tantomeno prove esplosive”.
Il corpo di Regeni fu ritrovato il 3 febbraio del 2016. Secondo la ricostruzione del New York Times, gli Stati Uniti acquisirono delle “informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: prove del fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso” il ricercatore italiano e, “su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono queste conclusioni al governo Renzi”. In un lungo articolo il giornalista Declan Walsh cita come fonti tre ex funzionari dell’amministrazione Obama. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana” e “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. “Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa.
“Quello che gli americani sapevano per certo l’hanno detto agli italiani, cioè che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni”, scrive il giornale statunitense, citando poi altri virgolettati: “Non avevamo dubbi che questo fosse noto molto in alto”, dice uno dei funzionari dell’amministrazione Obama, aggiungendo che “non so se fossero responsabili. Ma sapevano. Loro sapevano”. Secondo l’articolo, alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.
Fra i retroscena ricostruiti dal New York Times Magazine, inoltre, uno parla di screzi interni allo Stato italiano. “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni“, che nell’agosto 2015 “aveva annunciato la scoperta del giacimento di gas di Zohr 120 miglia a nord della costa egiziana”, “si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. Del resto, ricorda l’articolo, “nel 2014 Renzi definì Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, estera e di intelligence”.
Ma “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”. Al punto che un funzionario italiano citato avrebbe detto: “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani“. Per il giornale americano, inoltre, “i diplomatici sospettavano che le spie italiane, nel tentativo di chiudere il caso, avessero mediato per l’intervista fatta dal quotidiano La Repubblica ad Al Sisi il 16 marzo 2016, sei settimane dopo la morte di Regeni (il direttore Mario Calabresi, autore dell’intervista, afferma che la richiesta è partita dal giornale)”. In quella intervista il presidente egiziano aveva promesso “la verità” sulla morte. Otto giorni dopo furono uccisi cinque egiziani con precedenti penali e la polizia locale sostenne di aver trovato prove che li legavano all’omicidio Regeni. Compreso il passaporto del ricercatore, rinvenuto in un appartamento di uno dei membri della gang. Presto però la narrazione ufficiale fu smentita e lo scorso autunno il procuratore capo egiziano fece sapere che due ufficiali di polizia erano stati accusati di omicidio per aver sparato a sangue freddo ai cinque.
L’inchiesta dà conto anche dei timori dell’allora ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, che dopo la morte di Regeni “iniziò a preoccuparsi della sicurezza dell’ambasciata” e “smise di usare email e telefono per argomenti sensibili, ripiegando, per inviare messaggi a Roma, su una vecchia macchina per la crittografia. I rappresentati italiani temevano che gli egiziani che lavoravano in ambasciata passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane. Notarono che le luci erano sempre spente in un appartamento davanti all’ambasciata, un buon posto dove piazzare un microfono direzionale. Massari, traumatizzato dalla memoria delle ferite sul corpo di Regeni, era diventato un recluso e evitava incontri con gli altri diplomatici”. Nell’aprile 2016 l’ambasciatore fu richiamato a Roma. 
“Fiumicello, 15 agosto 2017, sempre più lutto!”, ha scritto su Facebook la sera di Ferragosto la madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi. Il post è accompagnato dalle foto di una bandiera italiana a lutto, che Deffendi ha anche impostato l’immagine come foto del profilo.
Il governo Usa mi fa paura, sa tutto di tutti, vuole essere l'unico a possedere armi nucleari (è anche l'unico ad averle usate), vuole imporre la "sua" democrazia a tutti i popoli della terra.
Non è che sia affetto di protagonismo acuto?
Non è che gli Usa vogliano predominare, essere egemoni?
Oltretutto ci sono le basi per dubitare fortemente di ciò che l'amministrazione Usa afferma, visti i precedenti dei casi eclatanti di prove costruite ad hoc dai servizi segreti americani. 
Mi pare di aver sentito parlare anche di Mi6 britannica invischiata nella faccenda: http://www.marcogregoretti.it/cronaca-misteri/lombra-dell-mi6-lintelligence-britannica-sulla-morte-di-giulio-regeni/