sabato 24 novembre 2018

Carmelo Patti in affari con la mafia Sequestro e confisca da 1,5 miliardi. - Riccardo Lo Verso

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La Dia e la scalata del cavaliere, deceduto, al Gruppo Valtur. La replica della difesa.

PALERMO - Un patrimonio che vale un miliardo e mezzo di euro. Il decreto di sequestro e confisca che colpisce l'impero economico di Carmelo Patti entra nella storia giudiziaria italiana come uno dei più pesanti di sempre.

È stato emesso dalla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Trapani, presieduta da Piero Grillo, su proposta del direttore nazionale della Direzione investigativa antimafia, Giuseppe Governale. Il provvedimento colpisce gli eredi di Patti, deceduto nel 2016, quando la parabola della sua fortunata carriera era ormai in declino. Una carriera marchiata, secondo l'accusa, dal patto con la mafia. In particolare, con la famiglia mafiosa di Castelvetrano, guidata dall'eterno latitante Matteo Messina Denaro.

I BENI OGGETTO DEL PROVVEDIMENTO/1

I BENI OGGETTO DEL PROVVEDIMENTO/2

Nel paese in provincia di Trapani Carmelo Patti era nato in una famiglia povera. Faceva il venditore ambulante di vestiti assieme al padre. Nel lontano 1962 furono dichiarati falliti. Poi, passo dopo passo, un'ascesa vertiginosa. Fondò innanzitutto la Cablelettra, a Robbio (Pavia) che si alimentava con le commesse della Fiat. Quindi la scalata al gruppo Valtur, acquisito per 300 miliardi di lire, e la realizzazione di una ventina di villaggi turistici e golf resort in giro per la Sicilia e l'Italia.

Il maxi provvedimento riguarda partecipazioni societarie in campo industriale, ma anche uno sterminato elenco di immobili in Italia, Marocco, Costa d’Avorio e Tunisia. I villaggi Punta Fanfalo a Favignana, Isola Capo Rizzuto a Crotone, Kamarina a Ragusa, il Golf Club Castelgandolfo. C'è pure una barca da crociera, la Valtur Bahia, registrata a Londra e ormeggiata a Mazara.

Tra i primi a parlare dei rapporti di Patti con la mafia è stato il pentito Angelo Siino. Uno che di affari se intendeva tanto da meritarsi l'appellativo di “ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”. Dell'ex patron Valtur Siino raccontò la vicinanza al cassiere della mafia mazarese Francesco Messina. “Mastro Ciccio - spiegava il collaboratore di giustizia - aveva tra le mani Patti, tanto che Bernardo Provenzano ci scherzava su, dicendogli che lui non aveva problemi a passare le vacanze alla Valtur”. Sempre Siino disse di avere assistito ad un incontro fra il cavaliere Patti e Francesco Messina Denaro, il padre del latitante.

Quando nel 1998 andò all'asta la vendita del villaggio turistico di Punta Fanfalo, a Favignana, arrivarono due offerte. Una era di Emma Marcegaglia, che qualche anno dopo sarebbe diventata leader di Confindustria, e l'altra di una ragazza sconosciuta di soli 21 anni. Fu quest'ultima ad aggiudicarsela. Sarebbe rimasta proprietaria per poco tempo della struttura. A lei subentrò Carmelo Patti.

Poi arrivarono gli scandali, le inchieste e la crisi. La Valtur passò in amministrazione straordinaria per far fronte a un indebitamento enorme e furono vendute alcune strutture turistiche.

La Dia ormai da sei anni indagava sugli affari dell'imprenditore. Indagini che oggi sfociano nel sequestro e nella confisca agli eredi.

AGGIORNAMENTO ore 16.41L'amministratore delegato del 'Kamarina Resort', Den Dekker Dionysius "esclude il coinvolgimento della struttura alberghiera nel Ragusano quale presunto oggetto di sequestro penale eseguito, su ordine della Dia di Palermo, in danno di soggetti diversi che nulla hanno a che vedere con la società che rappresento, né oggi né in passato". La srl Kamarina Resort è una società detenuta per la maggioranza dalla famiglia olandese Den Dekker che ha il 78% del capitale, mentre, il 22 per cento è detenuto dall'imprenditrice siciliana Valentina La Vecchia. In una nota l'amministratore delegato Den Dekker Dionysius "diffida a pubblicare e diffondere notizie ed immagini che riguarda la propria struttura alberghiera che non ha nulla a che spartire col sequestro operato nei confronti della famiglia dell'imprenditore Carmelo Patti".

I difensori degli eredi di Carmelo Patti - Francesco Bertorotta, Angelo Mangione e Luciano Infelisi - in una nota annunciano che ricorreranno "subito in appello, ed in ogni altra sede, compresa la Corte europea dei diritti dell'uomo, per chiedere l'annullamento del decreto del Tribunale di Trapani. Secondo i legali il provvedimento "rappresenta un vero e proprio cortocircuito della giustizia, in quanto emesso in violazione di tutti i principi che regolano le misure di prevenzione", Clicca qui per leggere il comunicato del collegio difensivo


Fonte: livesicilia del 24 nov. 2018

giovedì 22 novembre 2018

Manovra, la procedura di infrazione Ue nasce dall’eccesso di debito lasciato in eredità da Padoan.

Manovra, la procedura di infrazione Ue nasce dall’eccesso di debito lasciato in eredità da Padoan

La "grave inosservanza" della legge di Bilancio per quanto riguarda il deficit ha fatto sì che Bruxelles riaprisse il giudizio sul 2017, sospeso lo scorso 23 maggio. Quando la Commissione aveva avvertito della necessità di una correzione di oltre 5 miliardi già nel 2018 e di più di 10 per il 2019. Ora non sono più ritenute valide le scusanti riconosciute al governo Gentiloni.

La procedura di infrazione a cui l’Italia va incontro nei prossimi mesi scatterà perché la manovra per il 2019 firmata da Giovanni Tria viola in modo “particolarmente grave” le raccomandazioni europee sulla riduzione del disavanzo strutturale. Cioè la differenza tra le spese e le entrate dello Stato al netto dei fattori eccezionali. Ma, a ben guardare, questa inosservanza è solo il presupposto in base al quale Bruxelles ha alzato il cartellino giallo per una violazione del passato: il mancato rispetto del criterio del debito nel 2017. Nel mirino c’è dunque l’eredità del precedente titolare del Tesoro, Pier Carlo Padoanche andandosene da via XX Settembre ha lasciato un debito/pil al 131,2% e un “conto” da oltre 10 miliardi. La Commissione all’epoca aveva deciso di soprassedere: Roma stava portando avanti riforme in grado di migliorare la sostenibilità dei conti e aveva ottenuto flessibilità per eventi eccezionali, dal terremoto alla crisi dei rifugiati. Ora però, davanti alla scelta del governo gialloverde di presentare una finanziaria dichiaratamente non in linea con il Patto di stabilità, il giudizio è stato riaperto e il verdetto dei commissari (l’ultima parola spetta all’Ecofin) è stato di condanna.
A fine maggio la promozione con riserva – E’ lo stesso esecutivo comunitario a ricostruire tutte le tappe in maniera dettagliata nel rapporto pubblicato mercoledì. La premessa è che dopo l’uscita dalla precedente procedura per disavanzi eccessivi, nel 2013, l’Italia è stata graziata per tre anni dal rispetto del criterio del debito che impone, al netto di sconti legati a un ciclo economico negativo, di ridurre di un ventesimo all’anno la quota eccedente il 60% del pil. Il parametro è diventato applicabile nel 2016 e già quell’anno (governo Renzi) è stato registrato uno scostamento pari al 5,2% del pil. Che nel 2017 (Gentiloni) è salito al 6,6 per cento.
Il 23 maggio 2018, presentando il “pacchetto di primavera”, la Commissione ha rilevato che a prima vista l’Italia risultava “non conforme con il parametro per la riduzione del debito nel 2016 e nel 2017″. Quel giorno, una settimana prima dell’insediamento del governo Conte, Bruxelles spiegò che la relazione preparata ad hoc portava a concludere che il criterio dovesse “considerarsi soddisfatto tenuto conto di “tutti i fattori significativi e, in particolare, il rispetto da parte dell’Italia del braccio preventivo del patto”.
L’eredità di Padoan: buco da 5 miliardi nel 2018 e 10 miliardi nel 2019 – Tuttavia sottolineò anche che lo sforzo sui conti pubblici previsto dall’ultima manovra di Gentiloni e Padoan era “inadeguato”, che già nel 2018 era necessario “uno sforzo strutturale di bilancio pari almeno allo 0,3% del pil” e per il 2019 era richiesta una correzione pari allo 0,6% del pil, oltre 10 miliardi. Il giudizio definitivo fu rinviato. “In Italia è in corso il processo di formazione del governo, parleremo con il nuovo governo al momento giusto”, spiegò il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici.






      “Marcia indietro sulle riforme e aumento del disavanzo: riapriamo il giudizio” – Da maggio a oggi, però, il quadro è cambiato: “L’inosservanza particolarmente grave rilevata dalla Commissione della raccomandazione indirizzata all’Italia dal Consiglio il 13 luglio 2018”, riassume il rapporto, “rappresenta una modifica sostanziale dei fattori significativi analizzati il 23 maggio 2018, che impone un riesame del giudizio della Commissione”. Tra i fattori significativi di cui Bruxelles tiene conto nel preparare le sue pagelle ci sono infatti l’impegno a raggiungere “l’obiettivo di medio termine” (cioè a ridurre il deficit strutturale), le sempreverdi “riforme strutturali” che aumentano la sostenibilità del debito e le eventuali “condizioni macroeconomiche sfavorevoli”, in particolare la bassa inflazione, che possono ostacolare la riduzione del debito/pil e rendere particolarmente difficile il rispetto del patto di stabilità. Su tutti e tre i fronti l’Italia, agli occhi di Bruxelles, non ha scuse. Le condizioni macroeconomiche, vista la “crescita del pil nominale superiore al 2% dal 2016″, non sono più una attenuante. La legge di Bilancio “fa marcia indietro rispetto alle riforme strutturali attuate in passato, rischia di scoraggiare il rispetto degli obblighi fiscaliaumenta la pressione fiscale sulle imprese a livello aggregato e potrebbe ridurre l’offerta di credito a causa di condizioni di finanziamento più sfavorevoli per le banche dovute ai maggiori rendimenti del debito sovrano”.
Infine, per quanto riguarda il 2018 l’aggiustamento di bilancio risulta “non adeguato” visto che il nuovo governo non ha fatto la manovra correttiva dello 0,3% ritenuta necessaria sei mesi fa per rimediare al buco lasciato da Padoan. E per il 2019 come è noto è stata rilevata una “inosservanza particolarmente grave” visto che la manovra, oltre a non contenere misure “efficaci per affrontare né la fiacca crescita potenziale dell’Italia, né la persistente stagnazione della produttività, “prevede un deterioramento del saldo strutturale (ricalcolato) dell’Italia pari allo 0,9 % del pil”. Conclusione che resterebbe invariata anche se “si sottraesse l’incidenza sul bilancio (circa 0,2% del pil) del programma di manutenzione straordinaria della rete viaria e di collegamenti successivo al crollo del ponte Morandi di Genova e di un piano di prevenzione volto a limitare i rischi idrogeologici a seguito di condizioni meteorologiche avverse”.
La procedura per la violazione sul 2017 e gli altri rischi – Per tutti questi motivi il giudizio finale sul rispetto del criterio del debito nel 2017 viene rivisto e la Commissione ora raccomanda una procedura per disavanzo eccessivo. Aggiungendo peraltro che si tratta solo del primo passo perché “sulla base sia dei piani del governo che delle previsioni d’autunno 2018, è da prevedere che l’Italia non riuscirà a rispettare il parametro di riferimento per la riduzione del debito né nel 2018 (scostamento rispettivamente del 3,7% del pil) né nel 2019 (scostamento rispettivamente del 3,6% del pil)”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 22 nov. 2018

Stangati per colpa di Renzi e Gentiloni. - Franco Bechis

Stangati per colpa di Renzi e Gentiloni

L'Ue avvia per l'Italia la procedura di infrazione per eccesso di debito pubblico. Ma contesta i risultati degli anni 2016 e 2017, quando governava il Pd. E accusa i nuovi di non fare meglio.

L’Italia è ufficialmente nei guai, perché ieri la commissione europea ha dato il via alla procedura per debito eccessivo. Lo ha fatto scrivendo un report di 21 pagine, che contiene una sorpresa: la base formale della contestazione ha poco o nulla a che vedere con la manovra del governo guidato da Giuseppe Conte, perché è relativa al risultato del debito pubblico negli anni 2016 e 2017. A mettere l'Italia nei guai quindi sono stati Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. 

La procedura di infrazione è l'ultimo meraviglioso regalo del Pd agli italiani. Ecco il passaggio chiave di quel documento: «Sulla base dei dati notificati e delle previsioni dell'autunno 2018 della Commissione, l'Italia non ha rispettato il parametro di riduzione del debito nel 2016 (gap del 5,2% del PIL) o nel 2017 (gap del 6,6% del PIL)». E ancora: «Complessivamente, la mancanza di conformità dell'Italia con il parametro di riduzione del debito nel 2017 fornisce la prova dell'esistenza prima facie di un disavanzo eccessivo ai sensi del patto di stabilità e crescita, considerando tutti i fattori come di seguito esposti. Inoltre, in base ai piani governativi e alle previsioni dell'autunno 2018 della Commissione, l'Italia non dovrebbe rispettare il parametro di riduzione del debito nel 2018 o nel 2019». Le parole sono chiare, anche se quel che è accaduto ieri è piuttosto fumoso e difficile da spiegare se non ricorrendo ai gargarismi della euroburocrazia.

Che l'Italia non vada tanto d'accordo con l'attuale gruppo di comando a Bruxelles è un dato di fatto, e che non sia stata usata molta diplomazia per evitare lo scontro è vero. Di fronte alla bocciatura già da giorni vaticinata negli ambienti della commissione però mi chiedevo: come fanno ad aprire per l'Italia una procedura per avere sfondato il rapporto deficit/pil oltre il 3% se la manovra di bilancio per il 2019 prevede un rapporto del 2,4% quindi ben inferiore a quella soglia? La risposta degli azzeccagarbugli era questa: vero che l'Italia non ha sfondato il 3% ma la procedura per deficit eccessivo nella normativa dell'area dell'euro si può contestare anche ai paesi che non rispettano la regola del debito, che non potrebbe superare il 60% del Pil. Ed è questa la scelta, ma è un po' come avere scoperto l'acqua calda: da quando esiste l'euro l'Italia non è mai stata in regola sul debito, sempre ampiamente sopra il 100% del Pil.
Dopo avere chiuso un occhio per venti anni sembra curioso che la commissione Ue li apra tutti e due solo ora. Ed è anche un pizzico rischioso, perché secondo le previsioni per il 2019 il debito medio dei paesi dell'area dell'euro sarà pari all'85% del loro Pil. Sette paesi (oltre all'Italia anche Grecia, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio e Cipro) hanno e avranno il debito sopra il 100% del loro Pil, e altri 3 fra il 60 e il 90% del loro Pil: dieci paesi violerebbero quindi la regola, e solo l'Italia verrebbe punita. Per dare quello schiaffone però era necessario posarsi su fatti concreti e non solo su previsioni future. Per questo la contestazione Ue poggia sulla deviazione robusta e sicura dell'Italia dalla regola del debito per due anni consecutivi: il 2016 e il 2017, aggiungendo che secondo le previsioni il rientro dal debito sarà nullo o comunque molto inferiore a quel che era previsto sia nel 2018 che nel 2019, per cui però non ci sono ancora dati certi. Hanno quindi poco da stracciarsi le vesti e da fare appelli struggenti alla coscienza di Conte o di Matteo Salvini e Luigi Di Maio i vari Renzi, Gentiloni e Piercarlo Padoan: perché ad avere creato il danno che la Ue ci contesta sono stati proprio loro...
Fonte: iltempo del 22 nov. 2018

L’UE vuole sanzionare l’Italia perché i vecchi governi non hanno ridotto il debito. Ma perché solo oggi? - Roversi MG.

L’UE vuole sanzionare l’Italia perché i vecchi governi non hanno ridotto il debito. Ma perché solo oggi?

La manovra italiana è Ok. Quindi perché veniamo sanzionati?

La sconvolgente realtà dietro la manovra economica bocciata dalla commissione UE è che la manovra italiana rispetta le normative UE. Non si tratta di un dato opinabile: la manovra e economica si mantiene sotto il rapporto deficit/PIL del 3%, a differenza delle ‘vecchie’ manovre del 2016 e del 2017. La manovra di bilancio del Governo Conte per il 2019 prevede un rapporto del 2,4%: inferiore, se la matematica non è divenuta un’opinione, alla regola del 3%. 

Qual è quindi il motivo per cui adesso la Commissione vuole cominciare una procedura di infrazione verso l’Italia? In sostanza, se è vero che l’Italia non ha sforato il 3%, la procedura per deficit eccessivo può essere comunque aperta se non viene rispettata la regola per cui il debito non deve superare il 60% del PIL. Qual è il problema? Il problema è che l’Italia non ha mai rispettato questa regola. In sostanza ci sono stati anni in cui l’Italia è rimasta con un debito sopra il 100% del PIL. Nessuno le ha mai contestato niente per anni. Adesso, stranamente, saltano fuori gli altarini. 
Strano anche perché per il 2019 saranno molti altri i Paesi con un PIL superiore all’85%, secondo le previsioni (Grecia, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio e Cipro). Ma perché solo l’Italia viene punita? 

L’Italia punita per i governi precedenti? 

Insomma, la Commissione Europea, dando il via alla procedura per debito eccessivo dell’Italia con un report di 21 pagine, contesta non all’Italia di Conte di aver prodotto un eccessivo debito pubblico, ma ai governi precedenti. In pratica, quelli del 2016 e 2017, guidati rispettivamente da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. 
“Sulla base dei dati notificati e delle previsioni dell’autunno 2018 della Commissione, l’Italia non ha rispettato il parametro di riduzione del debito nel 2016 (gap del 5,2% del PIL) o nel 2017 (gap del 6,6% del PIL)” si legge nel documento. Ma si tratta dei vecchi governi, evidentemente. 

Leggasi: l’Italia di oggi viene sanzionata non per una questione attinente all’odierna manovra, ma per le manovre precedenti. Inoltre “in base ai piani governativi e alle previsioni dell’autunno 2018 della Commissione, l’Italia non dovrebbe rispettare il parametro di riduzione del debito nel 2018 o nel 2019” si legge nel documento. Come ben pochi altri Paesi nell’area UE. Ma viene sanzionata solo l’Italia. Sanzioni economiche… o sanzioni politiche? 


Fonte: newnotizie del 22.11.2018

mercoledì 21 novembre 2018

I voltagabbana.

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

Quando sarà varata una legge che impedisca agli eletti in un partito di dissociarsi in corso d'opera ed entrare a far parte di un altro partito?
Se un tizio è stato scelto ed eletto perchè inserito in una lista elettorale, non può cambiare partito tradendo, così, la fiducia di chi lo ha scelto; va espulso in aeternum dalla carica di parlamentare, impedendogli, al contempo, di ripresentarsi ad eventuali future elezioni.
Siamo stanchi di furbetti voltagabbana che intraprendono la "carriera" di parlamentari esclusivamente per interesse personale. 
Il governo di un paese richiede etica e specchiata pulizia mentale; la fiducia si deve guadagnare, non viene conquistata ed elargita con i bollini del supermercato.

Cetta.

Anticorruzione, la Lega salva i suoi imputati e condannati: il governo battuto con il voto segreto sul peculato.

Anticorruzione, la Lega salva i suoi imputati e condannati: il governo battuto con il voto segreto sul peculato

Passa con 284 sì e 239 no il colpo di spugna per accusati di peculato: come i leghisti Rixi, Tiramani e Molinari. Che dice: "Non siamo stati noi". Beffa M5s: testo è dell’ex Vitiello, espulso perché massone. Rimpallo di responsabilità nel Carroccio. Iezzi: "Sono stati i fichiani". Salvini: "Voto sbagliato, linea la do io". Poi aggiunge: "Un incidente di percorso che avrà come conseguenza quella di approvare il dl sicurezza ancora più in fretta". Un deputato: "Segnale ai pentastellati". Il capogruppo dei 5 stelle D'Uva: " Fatto gravissimo. Così non si va avanti".


Onestà, onestà“. Un grido che per una volta non arriva dai banchi del Movimento 5 stelle, ma da quelli di Forza Italia. Una provocazione quella dei berlusconiani visto che per la seconda volta in sette giorni il governo è stato battuto in Parlamento. E questa volta non è successo in commissione al Senato, su un emendamento al dl Genova, ma nell’aula della Camera che stava esaminando quello che è un provvedimento bandiera del M5s: il ddl Anticorruzione. E la maggioranza è stata battuta con il voto segreto. Una beffa doppia per il movimento di Luigi Di Maio: intanto perché l’emendamento in questione è firmato da Catello Vitiello, ex M5S eletto quand’era già stato espulso per la sua appartenenza alla massoneria e ora nel gruppo misto. Ma soprattutto perché quella modifica introduce un colpo di spugna per chi è accusato di peculatoin pratica la stessa norma presentata dalla Lega in commissione e poi ritirata tra le polemiche. Ora è ricomparsa in Aula dove è stata approvata con 284 voti a favore e 239 contrari. Tra i banchi si è scatenato il caso e la seduta è sospesa: l’esame del provvedimento è stato rinviato a domani alle 11.
D’Uva (M5s): “Gravissimo”. Salvini: “Voto sbagliato” – Nel frattempo si sono scatenate le reazioni politiche. “Quello che è accaduto oggi in Aula è un fatto gravissimo. Così non si va avanti”, dice il capogruppo del M5s, Francesco D’Uva. “Noi – aggiunge – non salviamo i furbetti dalla galera. Chi ha votato Sì a un emendamento che va a favore dei delinquenti si sta assumendo una responsabilità enorme agli occhi dei cittadini”. Alla maggioranza mancano 106 voti: la Lega ha 121 deputati, 9 erano assenti, altri 9 del M5s non c’erano. Già quando c’erano da votare gli emendamenti precedenti – con il governo che si era salvato con 15 preferenze di scarto  – si notavano vistosi buchi sui banchi del Carroccio. “Che dire: si è mandato un segnale al Movimento 5 stelle”, dice un deputato della Lega alle agenzie. “Non è vero. Sono i fichiani che hanno votato a favore per mandare un segnale. Cercano una scusa per non votare il decreto sicurezza”, lo corregge Igor Iezzi, capogruppo della Lega in commissione Affari Costituzionali, autore di una serie di emendamenti quasi provocatori al ddl Anticorruzione e fidatissimo di Matteo Salvini. E infatti dopo poco arriva il commento del leader: “Voto in aula assolutamente sbagliato. La posizione della Lega la stabilisce il segretario. Il provvedimento arriverà alla fine come concordato dalla maggioranza“, dice il ministro dell’Interno. Che poi, dopo un vertice con Di Maio e Conte al termine del Consiglio dei ministri, aggiunge: “Un incidente di percorso che avrà come conseguenza quella di approvare il dl sicurezza ancora più in fretta”. Il leader del Carroccio, inoltre, non ha escluso che il governo ricorra al voto di fiducia. Resta un fatto, almeno a interpretare le parole del titolare del Viminale: il numero uno del Carroccio non era informato del voto dei suoi stessi deputati. Che però smentiscono di aver votato contro la maggioranza. “Non siamo stati noi”, dice il capogruppo della Lega a Montecitorio Riccardo Molinari. Si tratta dello stesso Molinari che ha addirittura una condanna in appello a undici mesi per peculato. In tarda serata poi è arrivata la scontata precisazione dei grillini: “Nessuno del Movimento ha votato a favore dell’emendamento. Questo è sicuro” hanno sottolineato fonti parlamentari M5S alle agenzie di stampa. Il vicepremier Luigi Di Maio, poi, ha convocato alle 9 un’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari, che servirà anche a fare il punto sul dl sicurezza e sull’anticorruzione. La situazione, almeno a sentire alcune fonti parlamentari che hanno parlato con l’agenzia Ansa, non sarebbe fluida come quella descritta da Salvini: gli esponenti grillini hanno sottolineato che si torna tutti a casa se il ddl anticorruzione non torna così com’era prima dell’approvazione dell’emendamento. Secondo le stesse fonti, alcuni esponenti del M5S sospettano che il “blitz” sull’emendamento di Catello Vitiello sia opera del capogruppo Riccardo Molinari, perché toccato dal ddl anticorruzione. Per gli stessi esponenti quanto accaduto darebbe prova che il leader della Lega Matteo Salvini non controlla i suoi.
L’emendamento salva peculato dell’ex M5s – Il nome di Molinari, del resto, insieme a quello di alcuni altri esponenti del Carroccio, era tra quelli citati quando la stessa Lega aveva depositato – e poi accantonato – in commissione una norma molto simile a quella approvata stasera. L’emendamento 1.272 di Vitiello, però, alleggerisce non solo il peculato, ma anche l’abuso d’ufficio. La norma in pratica modifica l’articolo 314 e il 323 del codice penale. Il primo disciplina il peculato e si trasformerebbe in questo modo:  “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo, per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o, comunque, la autonoma disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, salvo che tale distrazione si verifichi nell’ambito di procedimento normato da legge o regolamento e appartenga alla sua competenza, è punito con la reclusione da 4 anni a 10 anni e 6 mesi“. Il secondo disciplina l’abuso d’ufficio e si trasformerebbe in questo modo: “La pena non può essere inferiore a due anni se il fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio consiste nella appropriazione mediante distrazione di somme di denaro o di altra cosa mobile altrui delle quali ha il possesso o comunque la autonoma disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, nell’ambito di un procedimento disciplinato da legge o regolamento che appartenga alla sua competenza”.
I big leghisti salvati dalla norma – Che cosa vuol dire? Semplice: attualmente è colpevole di peculato il pubblico ufficiale che utilizza denaro pubblico destinato al suo ufficio. Con l’emendamento della Lega viene punito solo il pubblico ufficiale che maneggia denaro pubblico destinato al suo ufficio ma il cui uso non sia regolato da norme interne. Un esempio? Il capogruppo di un partito in Regione o comune, che gestisce i fondi pubblici destinati al funzionamento del gruppo. Siccome si tratta di soldi il cui utilizzo è normatizzato da un regolamento interno, nel caso in cui dovesse usare quel denaro per scopi diversi da quelli previsti dalla legge non sarebbe colpevole di peculato. In pratica non sarebbe più possibile contestare il reato tipico di tutte le inchieste sulle “spese pazze” dei gruppi politici. Insomma quell’emendamento è un vero e proprio “salvaladri”.
Da Rixi a Cota – E che farebbe comodo a molti amministratori locali nei guai della giustizia. Compresi molti leghisti: come il viceministro ai Trasporti Edoardo Rixi, imputato per le “spese pazze” in Regione Liguria nel 2012: per lui l’accusa ha chiesto una condanna a tre anni e quattro mesi. O il deputato Paolo Tiramani, condannato a un anno e 5 mesi nell’inchiesta sulla  Rimborsopoli in Piemonte. La stessa vicenda in cui l’ex governatore Roberto Cota ha una condanna in secondo grado a un anno e sette mesi: l’emedamento approvato dalla Camera, insomma, salva anche chi con soldi pubblici ha comprato mutande verdi.
Le opposizione esultano. E Forza Italia grida: “Onestà, onestà” – Scatenate, ovviamente, le opposizioni. “Voto segreto alla Camera e la maggioranza si rompe: così si salvano dalle condanne per peculato alcuni leghisti. Altro che onestà. Questi bisticciano tutti i giorni. E intanto il Paese scivola verso la recessione”, scrive l’ex premier Matteo Renzi su Twitter. Il capogruppo dem Graziano Delrio parla di “una maggioranza divisa e pasticciona boccia il provvedimento bandiera del movimento 5 stelle. Il governo sfiduciato dai suoi deputati risulta sempre più debole e confuso”.”I rancori e le contraddizioni in maggioranza non reggono alla prova del voto segreto in Aula. Evidentemente si tratta di un governo ad orologeria che imploderà prima di quanto ci si possa aspettare”, dice il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida. Esulta Forza Italia con Mariastella Gelmini che parla di “giustizialismo manettaro”. “Ha pensato di essere il padrone dell’Italia, se oggi quest’Aula si è espressa a favore del garantismo è nell’interesse degli italiani e noi rispettiamo il voto di tutti”, dice la capogruppo dei berlusconiani. Che alla fine si sono messi a urlare. Prima “onestà, onestà”, per sfottere i 5 stelle. Poi “libertà, libertà“: l’emendamento approvato, in fondo, garantisce meno possibilità di finire in galera per chi è accusato di peculato.
Fonte: ilfattoquotidiano del 20.11.2018

Spero che la Consulta intervenga a dichiarare anticostituzionale questa legge che, contrariamente a quanto sancito dalla Costituzione, all'art. 3, crea delle disparità di trattamento tra i cittadini. Se un qualsiasi cittadino viene condannato per peculato, deve esserlo nella stessa misura il "capogruppo di un partito in Regione o comune, che gestisce i fondi pubblici destinati al funzionamento del gruppo" e chiunque altro abbia commesso lo stesso reato.
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
***
A Delrio, alleato di Berlusconi - di destra - rispondo che non meraviglia la sua osservazione, anche se suona un po' egodistonica, perchè detta da chi varava, in perfetta armonia e sintonia con la destra, leggi sfavorevoli per cittadini e favorevoli alle banche...
Cetta.

martedì 20 novembre 2018

Caso-Ghosn: case di lusso in tutto il mondo pagate da Nissan. - Stefano Carrer

(Ap)

Case di lusso in quattro Paesi del mondo pagate dall’azienda, anche dove gli interessi di business erano inesistenti. Sono di questo tipo, secondo indiscrezioni filtrate oggi, 20 novembre, gli abusi nell’utilizzo di fondi aziendali e le ripetute manifestazioni di cattiva condotta che Nissan addebita al suo presidente Carlos Ghosn, arrestato ieri a Tokyo assieme al dirigente americano che supervisionava le sue spese, Greg Kelly. Sarebbero 4 le abitazioni nel mirino, ma in particolare spiccano due casi: a Rio de Janeiro e a Beirut. Una società di diritto olandese creata nel 2010 a scopo di investimenti in start-up e finanziata da Nissan con 6 miliardi di yen (circa 54 milioni di dollari) ha pagato 17,8 milioni di dollari per un appartamento di lusso carioca e per una villa nella capitale libanese, dove Ghosn ha fatto le scuole (è nato in Brasile, ma ha origini libanesi). In Libano Nissan non ha attività. Inoltre le spese di mantenimento e gestione delle abitazioni a disposizione personale di Ghosn avrebbero superato i 2 miliardi di yen.

Il top manager della seconda casa automobilistica giapponese è finito in carcere con l’accusa di non aver riportato compensi per 5 miliardi di yen nell’arco di 5 anni nelle comunicazioni alle autorità finanziarie. È stata l’azienda a scaricarlo, chiarendo di aver informato la procura dopo i risultati di una indagine interna durata molti mesi e avviata in seguito a una soffiata. Giovedì Ghosn dovrebbe essere dimissionato da ogni carica ai vertici sia di Nissan sia di Mitsubishi Motors. Per il momento resta però presidente e Ceo di Renault, il cui titolo ieri ha perso l'8,4%. Il titolo Nissan ha chiuso oggi in calo del 5,4%. Lo scandalo mette in dubbio la solidità e il futuro della ventennale alleanza franco-giapponese.

Fonte: ilsole24ore del 20.11.2013