martedì 31 luglio 2012

Caso Margherita, Cassazione annulla conferma arresto per ex tesoriere Lusi.

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Lo ha stabilito la seconda sezione feriale degli ermellini, che ha annullato il provvedimento del Riesame che confermava quello emesso dal gip del tribunale di Roma. "Siamo molto emozionati - hanno detto gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono, difensori di Lusi - per questa decisione in favore del nostro assistito. Abbiamo ottenuto una prima ragione".

La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame che confermava l’ordinanza emessa dal gip di Roma per l’ex tesoriere della Margerita Luigi Lusi. Ora gli atti sono stati rinviati al Tribunale del Riesame per una nuova valutazione. Lusi comunque rimane in carcere. Lo ha stabilito la seconda sezione feriale degli ermellini, che ha annullato il provvedimento emesso dal gip del tribunale di Roma per carenza di motivazione. “Siamo molto emozionati – hanno detto gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono, difensori di Lusi – per questa decisione in favore del nostro assistito. Abbiamo ottenuto una prima ragione”. I legali chiederanno la scarcerazione. L’ordinanza annullata con è il provvedimento emesso dal tribunale del Riesame di Roma il 24 maggio scorso, che confermò la misura cautelare in carcere per Lusi disposta dal gip Simonetta D’Alessandro il 3 maggio 2012, per l’ipotesi di reato di associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita. 
Il giudice per le indagini preliminari di Roma,Simonetta d’Alessandro nel suo provvedimento aveva parlato di “un‘associazione a delinquere votata alla spoliazione, non solo al saccheggio di soldi pubblici, ma alla delegittimazione di un partito”. Precisamente la misura cautelare era stata disposta per pericolo di inquinamento delle prove, per l’ex tesoriere accusato di aver “rubato” oltre 22 milioni di euro. Per il gip il senatore era stato arrestato non solo perché ha rubato, mentito, ma anche perché ha prodotto un effetto “devastante” sulla democrazia con il suo comportamento, avvantaggiato dalla moglie, dai collaboratori, dai commercialisti. “‘Lo spoglio è stato operato dal Lusi in un quadro associativo, e – argomenta il giudice nell’ordine di cattura – non poteva essere diversamente, attesa l’entità delle somme e l’intuibile necessarietà di complicità interne, anche tecniche. Quadro associativo che non si identifica nel partito, ma che ha operato in danno del partito”. 
Lusi è nel carcere di Rebibbia dal 22 giugno scorso dopo che il Senato aveva dato l’ok al suo arresto. E’ accusato di di associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita di fondi dalle casse del partito del quale era tesoriere. Il 9 luglio scorso la moglie, Giovanna Petricone era stata scarcerata dal gip di Roma. Si trovava agli arresti domiciliari dal 3 maggio. L’ex tesoriere della Margherita non lascerà il carcere: l’annullamento della Cassazione, infatti, non fa venir meno al momento le esigenze cautelari, che dovranno essere vagliate di nuovo dal Riesame. Entro un mese le motivazioni dei giudici della sezione feriale saranno depositate: a quelle il Riesame della capitale dovrà attenersi per rivalutare il caso. ”Dopo l’annullamento da parte della Cassazione dell’ordinanza a carico del senatore Lusi, che ha rilevato una mancanza di motivazioni, solleciteremo presto il gip per rimettere in libertà Lusi” annuncia l’avvocato Luca Petrucci. 

L’Italia civile contro il regime. - Paolo Flores d'Arcais




Il regime continua. Formigoni, governatore berlusconiano, di fronte a indagini che svelano ciclopici “do ut des” con faccendieri in galera dichiara “tutto qua?”, ufficializzando l’indigenza assoluta della fibra morale di un intero ceto politico. Nicolò Zanon, membro berlusconiano del Csm, propone il procedimento disciplinare contro Roberto Scarpinato che ha ricordato una verità nota anche ai sassi: nelle commemorazioni per Borsellino si vedono “talora nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità” per i quali Borsellino ha sacrificato la vita. 

Due gesti impensabili in ogni altro paese europeo, da noi di ordinaria tracotanza partitocratica. Lo spread istituzionale, politico, morale, è tutto in questi due episodi, e nella “banalità del male” con cui ogni giorno le nomenklature ne compiono di analoghi.

La vedova di Paolo Borsellino, Agnese, con i figli Rita e Salvatore, ha reagito facendo propria “ogni parola della lettera emozionante con la quale Roberto Scarpinato si è rivolto a Paolo lo scorso 19 luglio in via D’Amelio”. E’ evidente che di Borsellino si vuole ormai uccidere la memoria. L’Italia civile ha cominciato a reagire, e speriamo che nei prossimi giorni insorga moralmente con i suoi “intellettuali pubblici” di recente troppo spesso afoni. 

Formigoni e Zanon non fanno scandalo. La partitocrazia oscilla tra compiacimento, omertoso silenzio o polemica “specchio per le allodole”. Qualche lettore ci accusa talvolta di non distinguere tra le forze politiche, cadendo nel qualunquismo. Ma se anche in casi del genere non sanno distinguersi tra loro come il bianco dal nero, è colpa nostra? Pd e berlusconiani si stanno accordando su una legge elettorale peggio della “porcata”, e se non ci riusciranno è solo perché l’ometto di Arcore vuole ancora di più e non sa bene cosa.

Ma di fronte alla debacle dei partiti, è ormai acclarato anche il fallimento dei “tecnici” liberisti. Tutte le loro misure (che tolgono ai poveri e impoveriscano i ceti medi, lasciando a evasori, ladri e banchieri ogni privilegio) falliscono, perché solo una redistribuzione delle ricchezze in chiave neo-keynesiana può invertire la deriva. Partitocrazia e “tecnici” di Monti sono ormai la padella e la brace.

Se ne esce solo con una classe dirigente del tutto nuova, da selezionare nella società civile. Il Terzo Stato sarà capace di esprimerla? O subirà il monopolio di un establishment politico-finanziario ammanicato che ci sta portando alla rovina?



http://temi.repubblica.it/micromega-online/litalia-civile-contro-il-regime/

Autostrade siciliane, Benetton in corsa per la privatizzazione. - Loredana Ales



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L’ultima polemica alla vigilia dell’addio alla presidenza della Regione siciliana di Raffaele Lombardo riguarda il Cas (Consorzio autostrade siciliane) costituito nel 1997 dalla unificazione dei tre distinti Consorzi concessionari Anas operanti in Sicilia per la costruzione e gestione delle autostrade Messina-Catania-Siracusa, Messina-Palermo e Siracusa-Gela.
Ieri, infatti, nell’ultima corsa alle nomine era stata avanzata la proposta di mettere a capo del consorzio Nino Gazzara un fedelissimo del governatore ex Pdl e ora all’Mpa che avrebbe posto fine al commissariamento della società. Che la gestione dell’enorme patrimonio del Cas, pari a 36 milioni di euro, faccia gola è dimostrato dal fatto che anche il gruppo Benetton starebbe trattando per concorrere alla privatizzazione delle autostrade siciliane.
L’azienda veneta, che fa capo ad Alessandro Benetton, avrebbe già pronto un capitale finanziario da investire nel campo delle infrastrutture, con azioni che punterebbero ad aeroporti, porti (per le autostrade del mare) ma anche al sistema stradale. Da qui l’interesse per la rete viaria che appartiene al Consorzio siciliano, dove qualche tempo fa Benetton ha incrementato la presenza della catena Autogrill e dove ora medita di mettere radici anche sull’asfalto.
Sulla privatizzazione del consorzio delle autostrade siciliane è in corso da tempo un dibattito accesso: si cerca di monetizzare il valore del patrimonio autostradale dell’ente a partecipazione regionale che comprende i 181 chilometri della Messina-Palermo, i 76 della Messina-Catania e i 41 della Siracusa-Rosolini che dovrebbe arrivare fino a Gela.
Il Cas succede in tutti i rapporti giuridici posti in essere dai tre diversi Consorzi autostradali Messina-Palermo, Messina-Catania-Siracusa e Siracusa-Gela. Attualmente, la sua natura giuridica è di ente pubblico regionale non economico sottoposto al controllo della Regione Siciliana.

Ironizzando...



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Buio sul gigante. Se l'India va in panne. - Federico Rampini


Buio sul gigante Se l'India va in panne

Milioni di persone sono rimaste al buio a causa della "madre di tutti i blackout". Interruzioni della corrente elettrica affliggono il subcontinente da anni, A far deragliare il miracolo economico nella seconda nazione più popolosa al mondo è l'amministrazione pubblica: inerte e corrotta. Per far fronte al rischio di una crisi, il Paese si affida al premier.
Trecentosessanta milioni immersi nell'oscurità, senz'acqua e senza luce, paralizzati sui treni e sui metrò, negli ingorghi del traffico impazzito senza semafori, nel calore soffocante senza il sollievo di aria condizionata o ventilatori. "La madre di tutti i blackout" ha colpito ieri. Non poteva che accadere in India. Dalla capitale New Delhi agli Stati del Rajasthan, Punjab, Uttar Pradesh, Kashmir e altri ancora: quasi un terzo della popolazione indiana, l'equivalente di tutta l'Unione europea è rimasta senza elettricità. Un evento clamoroso da qualsiasi altra parte del mondo, eppure in India non ha quasi suscitato sorpresa. È dal 1951 che l'India fallisce regolarmente negli obiettivi che si fissa per la produzione di energia. È uno dei paradossi di un Paese che ha compiuto tanti miracoli eppure continua ad arrendersi davanti al suo avversario più feroce e implacabile: la sua stessa amministrazione pubblica.

"La burocrazia indiana: l'unica potenza ad avere sconfitto James Bond". La battuta amara circola a New Delhi da quando la produzione dell'ultimo film di 007 ha dovuto rinunciare alle riprese sui treni.

Un burocrate locale si era incaponito a negare il permesso. Per riuscire (forse) a superare l'ostacolo ci sarebbero voluti dei mesi: troppo per i tempi del cinema. L'agente segreto di Sua Maestà è l'ennesima vittima illustre di un flagello che può far deragliare il miracolo economico nella seconda nazione più popolosa del mondo. Almeno la disavventura di James Bond fa notizia. Invece un miliardo di cittadini indiani "ostaggi" della loro pubblica amministrazione non hanno nemmeno questa piccola compensazione morale. Eppure ci sono fra loro, insieme ai più poveri che subiscono le angherìe peggiori, tante vittime "eccellenti" nelle professioni del ceto medioalto che rappresentano il volto più avanzato della nazione. Per esempio i residenti di Gurgaon: un milione e mezzo di persone, in una "neopoli" o New City sorta alla periferia di Delhi con la vocazione di ospitare multinazionali, centri informatici, colossi del software. A Gurgaon hanno la loro sede indiana Google e American Express.

La città è stata oggetto di una protesta singolare: ancora prima della "madre di tutti i blackout", gli abitanti erano scesi in piazza all'inizio di luglio, "solo" per chiedere la corrente elettrica. Nonostante la sua modernità, Gurgaon è afflitta dalla stessa sventura che in altre aree del paese non fa neppure notizia: i blackout a singhiozzo, a tutte le ore del giorno. A Gurgaon le multinazionali debbono dotarsi di gruppi elettrogeni, per garantire che le loro banche dati non siano paralizzate dai blackout. Ma quando i loro ingegneri informatici rientrano a casa, con 40 gradi all'ombra, vorrebbero trovare il frigo funzionante. "I monsoni sono in ritardo, quindi è basso il corso dei fiumi che alimentano i bacini delle dighe idroelettriche. E poi questa è la stagione della semina, la priorità nell'erogazione di corrente va data ai contadini". Questa è la spiegazione ufficiale, fornita da Sanjiv Chopra che dirige la utility elettrica Dhbvn. Lascia attoniti: una superpotenza economica che è la sede di colossi hi-tech come Infosys e Tata, ancora dipende dai monsoni per accendere la luce. 

Lo spaventoso ritardo nelle infrastrutture (l'energia è solo un esempio, autostrade, ferrovie e aeroporti non stanno meglio) si può ricondurre in buona parte allo stesso problema: una pubblica amministrazione inerte, scassata e corrotta. "La peggiore di tutta l'Asia": così la definisce uno studio autorevole, la classifica redatta dalla Political and Economic Risk Consultancy con sede a Hong Kong, per confrontare le nazionidel"miracolod'Oriente". L'India è ultima: peggio di Vietnam, Indonesia, Filippine, Cina. Riuscirà il mitico Babu  -  come viene chiamato familiarmente lo statale di New Delhi  -  a far deragliare il boom dell'India? I segnali di crisi ci sono. La crescita è rallentata. Dopo un periodo in cui il Pil aumentava regolarmente dell'8% all'anno, l'anno scorso è cresciuto del 6,5% e quest'anno potrebbe chiudersi con un +5%. Sono ritmi di sviluppo irraggiungibili per qualsiasi nazione occidentale; ma per l'elefante indiano rappresentano una frenata. 

A questo si aggiungono altri segnali d'allarme. Standard&Poor's ha minacciato di declassare i titoli di Stato indiani fino al rango infimo di "junkbond", spazzatura. La solvibilità di New Delhi si starebbe deteriorando sotto il duplice impatto del rallentamento nella crescita e dell'aumento del deficit pubblico. Veerapp Moily, ministro dell'Industria, ha definito questi giudizi "inaccettabili". Lo sdegno ha qualche giustificazione: a sinistra, molti sono convinti che il mondo della finanza globale voglia castigare il governo indiano per le sue azioni contro la speculazione. Per esempio la messa al bando dei futures sulle materie prime agricole. Poi un analogo divieto di speculare sui futures della rupia. Infine una proposta di "tassa retroattiva" sulle multinazionali straniere. Tutte decisioni che fanno dell'India una pioniera del "neo-protezionismo progressista", un trend che l'accomuna al Brasile, e certo non piace ai Signori dei Rating né ad altri rappresentanti del capitalismo occidentale.

Il risultato di queste tensioni lo si vede sul fronte monetario. La rupia negli ultimi 12 mesi ha perso il 20% nei confronti del dollaro. L'indebolimento della valuta coincide con una fuga di capitali speculativi. Gli investitori stranieri hanno ritirato 350 milioni di dollari dalla Borsa di Mumbai in tre mesi, mentre nello stesso periodo dell'anno precedente vi avevano investito 1,15 miliardi di dollari. Forse si sta sgonfiando la "bolla" indiana, dopo un decennio di euforìa: tra il 2001 e il 2011 l'aumento dei prezzi immobiliari a Delhi e Mumbai aveva raggiunto il 284%, di che far impallidire anche il boom cinese, russo, brasiliano. "Ora molte imprese multinazionali cominciano ad avere dei ripensamenti  -  dice il banchiere Deepakh Parekh della Hdfc  -  sulla cosiddetta "opportunità da un miliardo" (cioè l'opportunità di conquistare un miliardo di clienti indiani), perché l'India si sta penalizzando da sola". 

Per ora, segnali di una fuga delle multinazionali non ci sono. Ikea e Coca Cola hanno annunciato nuovi progetti d'investimento che da soli valgono 5 miliardi di dollari. Di recente un'indagine Onu ha individuato nell'India la terza destinazione favorita per gli investimenti esteri diretti, dopo Cina e Stati Uniti. E tuttavia proprio quell'indagine, della United Nations Economic and Social Commission for Asia, rivela un paradosso. L'India si piazza terza quando si rilevano le intenzioni d'investimento. Ma nella realtà, fino all'anno scorso gli investimenti erano ben più consistenti negli altri Bric: 124 miliardi di dollari in Cina, 67 in Brasile, 53 in Russia, contro i 32 miliardi affluiti in India. È come se ci fosse un divario permanente tra il sogno indiano, le opportunità potenziali, e ciò che si può fare davvero. La chiave, ancora una volta, sta nella "dittatura dei Babu", la cappa opprimente di divieti, ostacoli, intralci frapposti dai burocrati a chiunque voglia investire.

Di fronte al rischio che arrivi una crisi vera  -  come quella che nel 1991 portò l'India sull'orlo della bancarotta, a corto di valuta per pagare le importazioni di petrolio  -  il paese rivolge le sue speranze allo stesso uomo che la salvò allora. È Manmohan Singh, primo ministro che ha appena assunto ad interim anche il dicastero delle Finanze. Singh  -  all'origine un economista con dottorato a Oxford, un "tecnico" cooptato al potere da Sonia Gandhi che dirige il partito del Congresso  -  fu l'uomo delle grandi riforme che nel 1991 segnarono l'ingresso dell'India nell'economia globale. Fu lui a volere un primo ridimensionamento della burocrazia, smantellando il"raj", una ragnatela di permessi amministrativi che paralizzava l'attività imprenditoriale. Quel cantiere di riforme è incompiuto. Ora Singh ci riprova, ma con 80 anni sulle spalle, e una fama logorata dalla lunga permanenza al governo. Che sia lui il Superman capace di piegare l'esercito dei Babu, non lo crede certo Anna Hazare, il leader del più vasto movimento contro la corruzione che abbia mai agitato l'India, il "nuovo Gandhi" secondo i suoi seguaci. Per Hazare la prepotenza della pubblica amministrazione indiana non sarà piegata da chi fa parte dell'establishment.



http://www.repubblica.it/esteri/2012/07/31/news/rampini-40067490/

Fuoriserie e vacanze in Messico senza un euro di tasse. Arrestato.


Fermato al volante della sua Ferrari Paolo Sartori, 44enne di Noale. Coordinava una rete veneta di evasori, con fatture false per oltre 40 milioni di euro.

VENEZIA - Faceva una vita da nababbo, al volante di Ferrari F40 cabrio, in hotel di lusso, ma dal 2006 si era «dimenticato» di fare la denuncia dei redditi e dichiarare fatture emesse per 8 milioni di euro: per questo Paolo Sartori, 44 anni, di Noale (Venezia) è stato arrestato.
Paolo Sartori (Pattaro/Vision)Paolo Sartori (Pattaro/Vision)
Oltre che in Ferrari, Sartori viaggiava in Bmw X6, Porsche Cheyenne, viveva in dimore da favola all'interno di ville venete o golf club, portava abiti e scarpe griffate, faceva spesso viaggi in Messico e soggiornava in hotel di lusso o prestigiosi centri termali, trascorreva serate in locali di tendenza del Veneziano o del Padovano con accompagnatrici piacenti ordinando champagne e vini costosi. A tradirlo il suo andirivieni nel Miranese con un'autovettura supersportiva targata Repubblica di San Marino che ha solleticato la curiosità dei finanzieri.
Le Fiamme gialle hanno così appurato che quello che appariva un benestante, era in realtà un accanito evasore totale e che era stato al centro di indagini per aver emesso da un decennio false fatturazioni rivolte a compiacenti e insospettabili imprenditori veneti interessati a diminuire i redditi ed a versare minori imposte, utilizzando a tal fine anche altre quattro imprese intestate ad altrettanti prestanome. Gli accertamenti dei finanzieri, coordinati dal pm veneziano Stefano Ancilotto, hanno permesso di superare anche l'ostacolo derivante dall'occultamento delle fatture emesse e delle scritture contabili di tutte le imprese gestite da tale soggetto.
Sono stati esaminati oltre una novantina di conti correnti per un volume di transazioni di circa 40 milioni di euro, scoprendo un vasto e radicato sistema illecito evasivo e di frode fiscale operati da Sartori. L'uomo è molto noto nel Miranese per essere stato nel passato titolare di una grossa azienda che si occupava della produzione di capi di abbigliamento ora fallita. Almeno una trentina le imprese coinvolte nella maxi evasione con altrettante persone, tra amministratori e titolari di partita Iva, coinvolte nell'inchiesta a vario titolo per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti.
Dall'indagini è emerso l'emissione per 40 milioni di euro di fatture false dal 2002 al 2011, di cui 9,6 milioni di euro già acquisite all'indagine attraverso i controlli incrociati effettuati presso i rispettivi clienti. E ancora 1,6 milioni di euro di Iva evasa, 2 milioni di euro di elementi positivi di reddito non dichiarati quale provento della frode fiscale. Sarebbe stata distrutta tutta la documentazione contabile di 6 aziende riconducibili a Sartori. La Guardia di Finanza ha proposto il sequestro per l'equivalente di quote di immobili e di disponibilità bancarie possedute da Sartori per garantire l'effettivo recupero del credito dovuto all'Erario ed allo Stato. (Ansa)

Spen Ding Reviù. - Massimo Gramellini




Diffidare delle parole inglesi che fioriscono sulla bocca degli italiani, please. C’è stato un tempo, e c’è ancora, in cui per estrometterti da una poltroncina di responsabilità e sostituirti con uno più affidabile, cioè più opaco e obbediente di te, tiravano in ballo problemi di «governance». Questa invece, nei ministeri e negli uffici, è l’estate della spending review. Tagli sanguinosi (bloody cuts) sembrerebbe espressione più sincera, ma suona male. Revisione della spesa è concetto sfumato e dall’esito aperto: una spesa è rivedibile anche al rialzo, volendo e soprattutto potendo. Il guaio è che non si può più. In questa crisi al buio chi non muore si rivede, ma solo al ribasso.

Spen Ding Reviù: la formula magica ha una sua morbidezza di vaselina, indispensabile quando la verità fa paura. Chi osa dire ai cittadini elettori che lo Stato Sociale novecentesco non è più sostenibile e che oltre agli sprechi bisognerà rivedere anche i diritti? Arriva il tempo delle scelte dure, persino etiche: è sano che uno studente fuoricorso non lavoratore si sovvenzioni da solo la propria pigrizia. Ma se la spending review asciuga ingiustizie, ne crea anche di nuove. La si usa indifferentemente per togliere un privilegio e per tagliare un precario. Una cosa è certa: gli italiani assistono a quest’ultima ossessione del potere con aria da esperti. Loro la spending review l’hanno già sperimentata in casa, rinunciando a quasi tutto il rinunciabile. Soltanto l’hanno chiamata in altro modo: tirare la cinghia. Se preferite: tighten your belt.



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