martedì 23 luglio 2019

Raffaele Cantone lascia l'Autorità anti-corruzione: "Voglio rientrare in magistratura in questo momento così difficile".

Raffaele Cantone lascia l'Autorità anti-corruzione: "Voglio rientrare in magistratura in questo momento così difficile"

L'addio anticipato in una lettera: "Non posso più restare spettatore. In questi anni fatti grandi passi avanti, l'Anac è un patrimonio per il Paese ma la corruzione non è debellata".

ROMA - Raffaele Cantone lascia l'Anac. Dopo oltre cinque anni alla presidenza dell'Anticorruzione, lo annuncia lui stesso in una lettera sul sito dell'Autorità. "Sento che un ciclo - si legge nel testo - si è definitivamente concluso, anche per il manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell'Anac e del suo ruolo". Cantone ha fatto richiesta per rientrare in magistratura, "che ho sempre considerato la mia casa".

La magistratura vive una fase "difficile", che "mi impedisce di restare spettatore passivo", aggiunge Cantone nella lettera in cui annuncia che lascia l'Anac e rientra in magistratura. "È una decisione meditata e sofferta" ma "credo sia giusto rientrare in ruolo in un momento così difficile per la vita della magistratura".

"Tornerò all'Ufficio del massimario presso la Cassazione", annuncia nella lettera, in cui ricorda come nei mesi scorsi avesse già presentato al Csm la candidatura per un incarico direttivo presso tre uffici giudiziari. Ma "nelle ultime settimane le dolorose vicende da cui il Csm è stato investito hanno comportato una dilazione dei tempi tale da rendere non più procrastinabile una decisione". Per questo, annuncia, stamattina, "con alcuni mesi di anticipo, ho avanzato formale richiesta di rientrare nei ruoli della magistratura: un atto che implica la conclusione del mio mandato di Presidente dell'Anac, che diverrà effettiva appena l'istanza sarà ratificata dal plenum del Csm".

Quanto all'Autorità anticorruzione, scrive il magistrato, "istituita sull'onda di scandali ed emergenze, rappresenta oggi un patrimonio del Paese. Sono circostanze che dovrebbero rappresentare motivo di orgoglio per l'Italia, invece sono spesso poco riconosciute come meriterebbero". E conclude spiegando che lascia la presidenza "con la consapevolezza che dal 2014 il nostro Paese ha compiuto grandi passi avanti nel campo della prevenzione della corruzione, tanto da essere divenuta un modello di riferimento all'estero".

"Naturalmente - rimarca Cantone - la corruzione è tutt'altro che debellata ma sarebbe ingeneroso non prendere atto dei progressi, evidenziati anche dagli innumerevoli e nient'affatto scontati riconoscimenti ricevuti in questi anni dalle organizzazioni internazionali (Commissione europea, Consiglio d'Europa, Ocse, Osce, Fondo monetario) e dal significativo miglioramento nelle classifiche di settore".


https://www.repubblica.it/cronaca/2019/07/23/news/raffaele_cantone_lascia_l_autorita_anti-corruzione_mutato_l_approccio_verso_l_anac_-231818183/


La sua carica fu istituita ex novo dal governo Renzi, quindi lui presiede l'ANAC da circa sei anni. Durante il suo mandato non credo che sia stato fatto molto contro la corruzione...ma perchè ora vuol lasciare? 
Lì potrebbe fare tantissimo, se solo lo volesse.
C'è qualcosa che mi sfugge?
c.

Quei falsi contratti agli amici pagati coi soldi dei migranti. - Michel Dessì



Non solo case e feste: Lucano assumeva parenti e compagni "bisognosi" con i soldi per lo Sprar. Ecco le carte dell'inchiesta.

Riace, un’isola felice nel mare torbido e agitato della Calabria. Lì, gli amici di Mimmo Lucano, l’ex sindaco dei migranti, oggi in esilio forzato dalla procura di Locri, non avevano problemi.
Non dovevano lottare per trovare un lavoro, nessun sacrificio per arrivare a fine mese. Per gli amici di “Mimì” un posto sicuro c’era sempre. Anche in Calabria dove, secondo l’Ufficio statistico dell’Unione Europea, i giovani senza lavoro sono il 52,7%. A rivelarlo sono le carte dell’inchiesta “Xenia”, di cui noi de Il Giornale siamo entrati in possesso.
I soldi dello Stato non mancavano e Mimmo Lucano, secondo l’accusa, non si faceva problemi ad assumere compagni “bisognosi”, anche grazie a dei contratti fasulli. A beneficiarne anche il nipote di Cosimina Ierinò, il braccio destro del “re dei migranti”. È il 5 luglio del 2017 quando Cosimana chiede a “Mimì”: “…vorrei che integrassimo mio nipote Cosimo da qualche parte, se è possibile, lo so che ti chiedo troppo, ma se è possibile…”. Il nipote di Cosimina aveva idee “geniali” per rilanciare il modello Riace e fare cassa. “Sai perché? - dice Cosimina a Lucano - ... perché lui l'altra volta mi ha detto ma perché non fate un sito on-line per vendere le cose in giro, metterle in rete, fare ordini...”
La giovane mente vorrebbe fare business con i prodotti creati dai profughi di Riace nelle botteghe del piccolo paese. Peccato che, quei laboratori artigianali, non fossero sempre in funzione. Si animavano solo per le visite istituzionali. I migranti venivano pagati per fare le comparse, come i pastori nei presepi viventi, fingevano di lavorare. Una vera e propria messa in scena. A provarlo sono le intercettazioni.
Per Mimmo Lucano l’assunzione di Cosimo non si può fare. Lo Stato non paga per gestire la vendita online dei prodotti. Un lavoro che sarebbe dovuto essere pagato direttamente dalle associazioni di Riace, ma per Lucano c’è un modo e lo suggerisce a Cosimina: “In questi termini non è possibile, sai cosa dobbiamo fare?... dobbiamo ritagliare un minuto di tempo per fare un'ipotesi di rendicontazione del 2017 per lo SPRAR, la Prefettura, dei Minori, tutte cose, quando facciamo questa rendicontazione vediamo tutto il costo del personale, io sono convinto che ne manca... però come lo giustifichiamo come operatore SPRAR? ... come lo giustifichiamo? ...perché fargli il contratto di lavoro, per rendicontarlo deve essere ...noi ci dobbiamo giustificare… suggeriscimi un ruolo nell'ambito del progetto SPRAR, che si occupa dell'amministrazione? ... che collabora ... fa parte dell'amministrazione?” chiede Lucano al suo braccio destro. Cosimina risponde prontamente: “anche! ...perché io sono addetta alla banca dati...” ma Lucano trova il modo per assumerlo: “sistema di rendicontazione... l'unica cosa è questa, facciamo queste due cose e poi lo puoi chiamare subito!”
Ma c’è un motivo se Cosimina chiede a Lucano di far assumere il nipote: “non pensare che te l'ho chiesto per cosa ma... te l'ho chiesto perché mi dispiace che deve lavorare dal cinese, oggi l'ho visto che scaricava pacchi, è da un mese che lavora là... lui (Cosimo il nipote ndr) questo lavoro lo potrebbe fare anche da casa Mimì...” Dice Cosimina con il “cuore in mano a Lucano che risponde: “sì… ogni tanto viene qua con te, per prendere coscienza di tutto... noi gli diamo uno stipendio di 7-800 euro, poi quando gli facciamo la cosa gli dici... come gli altri, come tutti, il suo ruolo è questo!” Ma Lucano è chiaro: “l'importante che costruisca in rete tutto questo sistema e che collabori con te per rendicontazione, perché poi sia veramente attinente in modo che lo possiamo giustificare con la rendicontazione SPRAR…”
Peccato che, facendo una ricerca sul web, (dove rimane ogni traccia) non troviamo nulla del lavoro creato da Cosimo. Ma si sa, “Mimì” è un uomo dal cuore grande. Tanto a pagare era lo Stato.


http://www.ilgiornale.it/news/cronache/quei-falsi-contratti-agli-amici-pagati-coi-soldi-dei-1730422.html

Benvenuti fra noi. - Marco Travaglio



Non passa giorno senza che qualche big del giornalismo e della politica dica ciò che noi scriviamo da sempre, ovviamente senza riconoscercelo né versarci almeno un piccolo copyright. 
Eugenio Scalfari, su Repubblica, riabilita Giuseppe Conte dalla black propaganda che lo ritraeva come la marionetta e lo zimbello suoi vicepremier, soprattutto di Salvini. Macchè “burattino”, Egli è il “burattinaio”. Anzi, di più: “Valutando il Conte di oggi non è affatto escluso pensare che ripeta in qualche modo le idee di Aldo Moro”. Ma non solo: “A me sembra che Conte sia oggi l’uomo del giorno e che possa creare un’Italia europea degna di poter essere positivamente valutata dai suoi alleati e soprattutto dai suo abitanti”. Quali alleati? I 5Stelle e il Pd, in un nuovo compromesso storico come quello moroteo fra Dc e Pci. E, per curiosità: chi si era azzardato a dare del “burattino” allo statista di Volturara Appula? Scalfari, naturalmente: “Conte è un gentile e ben rappresentato burattino, i cui fili sono mossi dai due burattinai che se lo sono inventato” (8.7.08). 
Fino all’altroieri Repubblica e i suoi derivati facevano a gara a ritrarlo come “uno studentello impreparato” (Sebastiano Messina, 7.6.08), “il Conte Zelig. Il presidente esecutore. Il premier fantasma. L’uomo invisibile. Pinocchio tra il Gatto Di Maio e la Volpe Salvini. Il primo presidente del Consiglio di cui non si conosce un’idea” (Espresso, 10.6.08), “il burattino che non riesce a diventare Pinocchio”, reo di “ricorrenti piccole-grandi truffe curriculari”, “figura ben più drammatica che ridicola”, “il pupazzo di Di Maio&Salvini, il vice dei due vice… una finzione giuridica dell’Italia a 5 stelle, l’Agilulfo di Calvino, che non era un cavaliere ma una lucida armatura vuota” (Francesco Merlo, 12.9), “Conte non esiste, parla pochissimo, non decide nulla” (Espresso, 16.9), è l’“azzeccagarbugli nazionale” (Mario Calabresi, 23.9), “tra Conte e Casalino il vero uomo forte non è il presidente ma il suo portavoce” (Messina, 23.9). Condanne senz’appello pronunciate in base al Pregiudizio Universale, prim’ancora di vederlo all’opera e farsene un’idea positiva o negativa alla luce di quel che fa o non fa. Siccome l’ha scelto il M5S, deve per forza essere una nullità, ma anche un poco di buono.
Ieri sul Corriere Paolo Mieli, uomo saggio e prudente, che mai s’era lanciato in scomuniche preventive, ha raccontato come Conte, zitto zitto, si sia ritagliato un ruolo da protagonista dopo le Europee a scapito di Salvini, così nervoso anche perché il premier ha reso inutile il suo trionfo elettorale di due mesi fa: “C’è un vincitore, il Conte, e uno sconfitto, il suo vice Salvini”.
E ancora: “Conte con grande agilità ha preso le redini di un M5S in stato confusionale dopo lo shock elettorale” e “offre ai grillini una prospettiva di tenuta della legislatura” con “la garanzia di restare a lungo in Parlamento e persino al governo”, avendo costruito ben “due maggioranze” (quella giallo-verde e quella di “salute pubblica” in caso di crisi) che alla lunga logoreranno Salvini, complici i casi Rubli e Siri, mentre Conte “potrà presentarsi al Paese e all’opinione pubblica internazionale come capo di un governo che per ben due volte ha evitato la procedura d’infrazione”. E, “dovessero esserci degli inciampi, verrebbero messi per intero sul conto del ministro dell’Interno”. Immaginate la faccia dei lettori del Corriere, abituati a leggere che “il professor Conte non ha alcuna esperienza di amministrazione. Niente, nada, nothing, nichts, rien… È come se la Marina militare affidasse la portaerei Cavour a un caporale degli alpini, magari bravissimo. Si può fare, ma è da incoscienti… In Europa vedono tutto, e capiscono abbastanza bene” (Beppe Severgnini, 27.5.08) e che “il vero presidente del Consiglio è Salvini”, mentre “a Conte non resta che lanciare un appello: se ci sei batti un colpo” (Luciano Fontana, 9.7.08). Senza contare l’ultimo sondaggio di Pagnoncelli, che dà a Conte un indice di gradimento record del 58%, 4 punti sopra Salvini.
Sempre ieri, sul Corriere, Dario Franceschini, azionista di maggioranza del Pd e politico di lungo corso, sostiene che “è un errore mettere Lega e grillini sullo stesso piano. Senza la ricerca di potenziali alleati difficilmente il Pd potrebbe arrivare col proporzionale al 51%”. Non solo: “La strategia renziana dei pop corn ha portato la Lega dopo un anno al 35%. Abbiamo buttato un terzo dell’elettorato, quello dei 5Stelle, in mano a Salvini”. E poi “Conte non è Salvini: quando nel campo avversario si vedono delle differenziazioni l’opposizione deve valorizzarle”. Come “il comportamento diverso di 5Stelle e Lega sull’elezione di Sassoli e di von der Leyen, le cose su Europa e autonomia di Conte, alcune prese di distanza di Fico o quello che sostiene Spadafora sui diritti civili”. Quanto basta non per un inciucio M5S-Pd (in questa legislatura, sarebbe il governo degli sconfitti contro il vincitore delle Europee), ma per “difendere insieme i valori umani e costituzionali che Salvini calpesta ogni giorno”. Parole ragionevoli, infatti subito bersagliate dai bombardamenti del Bomba. Peccato che un anno fa, quando il Pd poteva accettare il contratto con Di Maio, Renzi lo prese in ostaggio e tutti tacquero. Anche Franceschini e i giornaloni, salvo quelli che applaudivano Renzi.
Prima di montarci la testa e organizzare per questi ritardatari una festa di benvenuto fra noi, con l’inginocchiatoio per la penitenza, domandiamoci se avevamo visto giusto da soli per merito nostro o per demerito degli altri. La risposta, purtroppo, è che non siamo più intelligenti. Solo più fortunati. Gli altri vedono le stesse cose che vediamo noi, ma non possono scriverle. Almeno finché Salvini non va al 35% e la paura a 90. Si dirà: meglio tardi che mai. Il guaio è che forse è troppo tardi.

lunedì 22 luglio 2019

Autonomia, ne vogliamo parlare?


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L'autonomia delle regioni è l'espediente che hanno escogitato i rappresentanti della vecchia politica per riappropriarsi della conduzione, pro domo sua, dei vari progetti di attività lucrative promesse ai fedelissimi in sede di elezioni. 
Do ut des è l'imperativo che adottano i politici corrotti per poter continuare a lucrare con i soldi sottratti ai cittadini con tasse che non giustificano in alcun modo la sottrazione effettuata tenendo conto degli scarsi e, a volte, inesistenti servizi forniti ai contribuenti.
Pensano di poter aggirare con l'autonomia regionale gli ostacoli messi a punto dal governo che vuole ripristinare etica ed onestà. 
Sono sempre più disgustata dai partiti preesistenti. 
Mi auguro ed auspico che questo governo duri il tempo che serve per ridare alla nostra nazione il lustro che merita.

By Cetta

domenica 21 luglio 2019

Il più grande. - Marco Travaglio



Se l’idea di Giustizia avesse un volto, avrebbe il suo. Se il precetto costituzionale “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” avesse un nome, avrebbe il suo. Francesco Saverio Borrelli è stato il più grande magistrato che abbia avuto in dono l’Italia, almeno fra quelli che hanno goduto del privilegio di morire nel loro letto. Diceva Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Ma nessun popolo può fare a meno dei simboli e degli esempi, e lui era entrambe le cose. Nel 1992-’93, mentre l’Italia crollava bombardata dalle stragi e corrosa dal cancro della corruzione, la gente perbene si aggrappò alla sua toga e a quelle del suo pool Mani Pulite: D’Ambrosio, Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco. Si ebbe, in quella breve parentesi, la sensazione che la legge fosse davvero uguale per tutti. E l’illusione che gli italiani onesti fossero maggioranza. Durò poco, è vero, infatti subito dopo arrivò B., che inquinò tutto, anche la sinistra, anche la magistratura (con un Borrelli sulla breccia, uno scandalo come quello del Csm sarebbe stato impensabile: per ragioni estetiche ancor prima che etiche). Ma – ripeteva Borrelli – “il seme è stato gettato” e qualche frutto s’è visto.
Era un uomo timido, nel privato. Ma, quando indossava la toga, diventava coraggioso. Sapeva di essere protetto dalla Costituzione, dalla corazza dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’indipendenza da ogni altro potere. Difendeva sempre i suoi uomini. Non guardava in faccia nessuno. E si lasciava scivolare pressioni, aggressioni e blandizie come acqua piovana sulla toga impermeabile. Gli attacchi di ogni colore, gli insulti, le calunnie, le ispezioni ministeriali, i procedimenti disciplinari al Csm, le indagini penali a Brescia che ha subìto non si contano. Spioni d’angiporto e pennivendoli di fogna hanno perso anni a cercargli uno scheletro nell’armadio per sputtanarlo, un tallone di Achille per ricattarlo: invano. E allora han cominciato a inventare. I politici di destra e sinistra lo detestavano proprio perché era inattaccabile e i loro elettori credevano a lui, non a loro. Anche grazie al suo humour snob e tagliente. Proprio 25 anni fa, il 14 luglio 1994, il governo B. partorì il decreto Biondi, che vietava il carcere per i reati di Tangentopoli, ma non per quelli di strada. Lui sibilò dalle labbra affilate come una lama: “È singolare che, nell’anniversario della presa della Bastiglia, si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e del carcere di Opera. Il governo, invece di predisporre misure idonee a impedire la perpetuazione di un sistema di corruzione, dimostra la preoccupazione opposta”.
E concluse: “Evidentemente considera la magistratura troppo efficiente…”. Mesi dopo, mentre il cerchio si stringeva sul Berlusconi giusto, il suo ministro della Giustizia ad personam Alfredo Biondi sbroccò con una battutaccia contro l’intera magistratura inquirente: “Un grande avvocato mi diceva sempre: ‘Studia figliolo, o diventerai un pubblico ministero…’”. Borrelli lo fulminò con un’allusione al suo tasso alcolico: “Il ministro Biondi, a un’ora pericolosamente tarda del pomeriggio, s’è concesso una battuta impertinente e di cattivo gusto, che i magistrati non si attenderebbero certo dal loro ministro”. Quando poi, nel 2001, in via Arenula arrivò il leghista Roberto Castelli, ingegnere acustico specializzato in abbattimento di rumori autostradali e in leggi ad personam, prese a chiamarlo “l’ingegner ministro”. Ogni tanto dissentiva dai suoi pm, ma lo diceva loro a quattr’occhi. Come quando non condivise il comunicato del Pool contro il decreto Biondi, letto in conferenza stampa da Di Pietro. Quando, a fine anni 80, si schierò con Armando Spataro nello scontro furibondo con Ilda Boccassini sulla gestione delle indagini sulla mafia a Milano e inviò al Csm un parere poco lusinghiero su di lei, che emigrò in Sicilia, per poi tornare a Milano nel ’95 e diventare la sua beniamina. Quando intimò all’ormai ex pm Di Pietro di smentire B. che in tv gli aveva attribuito una dissociazione dall’invito a comparire per le tangenti alla Finanza: “se no la prossima volta ti faccio volare giù dalle scale a calci”. Quando fece una lavata di capo al giovane Paolo Ielo, che in aula aveva definito Craxi “criminale matricolato” per le intercettazioni che provavano i dossieraggi contro il pool da Hammamet: “Hai fatto malissimo a usare quelle parole. Potevi dire le stesse cose con più stile”.
Ecco: lo stile. Borrelli, napoletano, classe 1930, figlio e nipote di magistrati, in toga dal 1955, di stile ne aveva da vendere. Lo dimostrò nel 2002, quando uscì di scena il giorno del pensionamento. Anzi, del prepensionamento, perché per levarsi dai piedi lui e il suo coetaneo D’Ambrosio, B. varò una legge apposita che portava l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 72 anni. Borrelli chiuse in bellezza il 12 gennaio, con la toga rossa e l’ermellino di Pg, inaugurando l’anno giudiziario col celebre appello a “resistere, resistere, resistere” allo “sgretolamento della volontà generale e al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto”. Parola d’ordine che fu subito raccolta dai Girotondi. Lui però aveva già lasciato il proscenio, evitando quel reducismo patetico che guasta anche la memoria dei migliori. Faceva il nonno, suonava il piano, andava in bici, leggeva. Niente interviste, libri di memorie, consulenze, incarichi a gettone (a parte quello, a tempo, di capo dell’Ufficio indagini della Federcalcio commissariata per Calciopoli, e la presidenza del Conservatorio). In un Paese serio l’avrebbero promosso senatore a vita e proposto alla Presidenza della Repubblica (poltrone che probabilmente avrebbe rifiutato). Quindi, non in Italia. Grazie di tutto, dottor Borrelli.

Architetto converte un Vecchio Cementificio nella sua Splendida Casa/Ufficio. - Matteo Rubboli



Quando l’architetto Ricardo Bofill ha acquistato un vecchio cementificio in disuso a Barcellona, che sarebbe diventato noto, ufficialmente, come “il cementificio“, probabilmente non aveva ben chiaro quale fosse la fine dell’opera di ristrutturazione. Nel giro di soli due anni però, Bofill lo ha trasformato in una moderna e accogliente abitazione, una piccola oasi di architettura con una superficie totale di oltre 3 mila metri quadrati e gli studi che ospitano, ogni giorno, 40 architetti.
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Prima dell’intervento erano presenti più di 30 silos, ed il progettista/proprietario ha mantenuto soltanto alcune delle strutture originali, che sono state ristrutturate a fondo, demolendo alcuni degli edifici superflui per creare la resa estetica che era nei suoi piani. L’edificio è stato ristrutturato con materiali differenti, con pavimenti che vanno dal marmo al legno di latifoglie, luci moderne e arredi unici per il bagno, strette finestre ad arco e soffitti altissimi che ricordano le origini industriali dell’edificio originale.
Cementificio convertito in una moderna oasi di Architettura 07
La costruzione rinnovata incorpora in questo modo diversi stili architettonici, una lingua colta in opposizione all’architettura semplice del paese circostante con finestre, porte, scale e false prospettive applicate alle pareti esterne e ad alcuni interni. Lentamente, con l’aiuto degli artigiani catalani, la fabbrica è stata trasformata in un edificio moderno dal design unico ed originalissimo.
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Una vista del patio esterno:
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Lo studio all’interno, fra vecchi Silos:
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Pianoforte a coda e due sedie:
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La saletta riunioni:
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La vista sul soggiorno:
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Una veduta dall’esterno:
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Le finestre su uno dei salotti:
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Moltissime superfici sono coperte di verde:
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Molte parti in calcestruzzo sono state lasciate grezze:
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sabato 20 luglio 2019

Chi salverà Salvini. - Marco Travaglio

Risultati immagini per chi salverà salvini

Che Salvini non sia più lo stesso si vede a occhio nudo. L’altroieri il Grande Twittatore aveva aperto la giornata con uno stentoreo “traditori” ai 5Stelle, rei di aver votato la Von der Leyen perché nominasse commissario alla Concorrenza il leghista Giorgetti. Poi, nel pomeriggio, aveva ringhiato: “Con Di Maio c’è una mancanza di fiducia personale, perché io mi sono fidato per mesi”. E aveva preso appuntamento con Mattarella. Infine, in serata, la serenata sotto casa di Giggino: “Mi correggo, io in Luigi Di Maio ho avuto e ho fiducia, secondo me è una persona per bene”. E la disdetta del rendez vous con Mattarella, peraltro già a nanna da ore. Ieri, dopo aver contestato i presunti “tre No” del M5S su giustizia, manovra economica e autonomie, ha chiesto la testa dei ministri Trenta (Difesa) e Toninelli (Trasporti e Infrastrutture), che non c’entrano una mazza con i tre presunti No. Un delirio. Le ragioni dello stato confusionale sono cinque.
1) Il trionfo alle Europee ha caricato Salvini di responsabilità più grandi di lui in Italia, proprio alla vigilia di una legge di Bilancio difficilissima, mentre in Europa l’ha lasciato più isolato di prima, con Orbán che resta nel Ppe e vota disciplinatamente la Von der Leyen e la Lega all’opposizione schiacciata sulla Le Pen e gl’impresentabili nazi di Alternative für Deutschland.
2) Il 34% del 26 maggio, i sondaggi in crescita (ma fino a quando?) e l’avvicinarsi del redde rationem autunnale consiglierebbero il voto finché gli italiani ci cascano. Ma Conte lo mette nel sacco un giorno sì e l’altro pure. E i 5Stelle non gli regalano pretesti abbastanza popolari per buttare all’aria il governo senza pagare pegno: l’autonomia differenziata non frega niente a nessuno, mentre piace a tutti la flat tax, sempreché riguardi il ceto medio e non i riccastri, ma su quella Di Maio non fa l’errore di opporsi, anzi dice sì, ma lo sfida a trovare i soldi.
3) Lo scandalo russo è difficile da comprendere, anche per lo stato comatoso dell’informazione, ma anche chi ne sa poco ne ricava una sgradevole sensazione di pericolosità (i russi non sono popolarissimi e ancor meno i rubli) e cialtroneria (gli emissari salvinisti a Mosca hanno facce a metà fra i film di Pierino e il Museo Lombroso): infatti Salvini cerca ogni giorno un diversivo per parlare d’altro, compreso il finto attentato ucraino, ma invano.
4) Le sole voci di una possibile maggioranza alternativa M5S-Pd, anche se molto improbabili, lo fanno letteralmente impazzire, abituato com’era a ricattare Di Maio col secondo forno di centrodestra, mentre l’alleato non aveva vie di fuga.
5) Giorgetti, lanciato verso l’Europa e impallinato in volo, non l’ha presa bene e medita financo di lasciare Palazzo Chigi. Perdere l’unico leghista di governo serio, nonché garante del partito dei governatori nordisti già in subbuglio per l’autonomia, non è di buon auspicio, in una Lega molto meno monolitica e più fibrillante di un anno fa. Intanto la finestra del 20 luglio, ultima data utile per sciogliere le Camere, votare il 29 settembre e avere un governo pronto per la manovra, si sta chiudendo: dopodiché è tutto affidato al caso e gli imprevisti – carte, bobine, trojan e altre polpettine dalla Russia con amore – che Salvini non sa se sia meglio beccarsi da ministro in carica o da ex. Non è questo lo scenario che sognava la sera dell’eurotripudio. Ma non tutto è perduto. C’è sempre chi, tra i suoi presunti avversari, lavora per lui.
Eurocrati. Nel breve volgere di 24 ore Monti, Von der Leyen e Merkel si sono scatenati sullo scandalo russo, dipingendolo come una grave deviazione della politica estera italiana dal fronte occidentale a quello orientale. Invece è grave perché tre fedelissimi di Salvini hanno contrattato una tangente con tre o quattro fedelissimi di Putin, ma la politica estera dell’Italia non s’è mossa di un millimetro (anche perché il Cazzaro ha virato a U da Mosca a Washington). Più gli eurocrati fanno simili sortite, più Salvini potrà svicolare dai fatti e buttarla in caciara con la teoria del complotto antisovranista.
Pd. È scientifico: appena Salvini è in difficoltà, arriva il Pd a salvarlo. Zingaretti continua a parlare di Conte, Di Maio e Salvini come se fossero la stessa cosa. Poi ci sono i renziani, vera costola della Lega: non contenti di avergli regalato un anno fa il palcoscenico del governo rifiutando il contratto con Di Maio, ora ci riprovano con la mozione di sfiducia a Salvini, affidata alle manine sante della Boschi: “Che deve fare ancora Salvini per essere sfiduciato?”. La risposta è ovvia: deve fare come lei, che giurò in Parlamento di non essersi mai occupata di Etruria, poi si scoprì che non aveva fatto altro, ma non solo non fu sfiduciata: restò ministro, divenne sottosegretario alla Presidenza con Gentiloni e fu paracadutata in un collegio blindato in Alto Adige. La mozione anti-Salvini in realtà è pro: ricompatterà i giallo-verdi, mai così divisi; garantirà ai renziani le loro poltrone senza rischi di elezioni; e bloccherà sul nascere le avance di Franceschini, Sassoli & C. ai 5Stelle che tanto turbano Salvini. Qui non basta ringraziare con qualche telefonatina furtiva: qui ci vuole una tessera della Lega a Renzi&Boschi, ad honorem.
Ong. La ferale notizia che la carissima nemica Carola è ripartita per la Germania prima che Salvini riuscisse a espellerla l’ha gettato nel più cupo sconforto. Anche perché, a parte qualche barchino ogni tanto, l’invasione africana tarda ad arrivare. Urge un’Ong prêt-à- porter che prelevi centinaia di migranti in acque libiche e faccia rotta su Lampedusa, insultandolo via radio e violando tutti i divieti, possibilmente con Delrio, Faraone e Fratoianni a babordo. Gli amici, del resto, si vedono nel momento del bisogno.