giovedì 1 agosto 2019

Riforma della giustizia, Consiglio dei ministri approva ‘salvo intese’. Ma è scontro sul penale. M5s: ‘Da Lega tanti no, nodo è la prescrizione?’

Riforma della giustizia, Consiglio dei ministri approva ‘salvo intese’. Ma è scontro sul penale. M5s: ‘Da Lega tanti no, nodo è la prescrizione?’

Prima del faccia a faccia con il premier e il leader del M5s, Salvini aveva definito "acqua" la bozza. Poi l'inizio della riunione con tutti i ministri e lo stop per "ragioni tecniche". Dalle 18.45 è ricominciato l'esame del testo alla ricerca di un accordo tra Lega e Cinque Stelle, poi altra fermata e il confrontro tra i ministri Bonafede e Bongiorno. Accordo sul civile e il Csm, ma restano le distanze sul penale. Bonafede: "Ho sentito tanti no". Salvini tace, nota della Lega: "Riforma di facciata".

È un Consiglio dei Ministri che si è protratto fino a tarda notte quello iniziato alle 16.30, con un ritardo di un’ora e mezza sul programma iniziale, nel quale si è discusso della riforma della giustizia sulla base della bozza presentata dal ministro Alfonso Bonafede. Un tavolo pieno di tensioni, nonostante un’ora abbondante di pre-vertice tra Giuseppe Conte e i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio per sciogliere alcuni nodi, con il ministro della Giustizia e quello per la Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, che, sono arrivati allo scontro duro.
Alla fine, c’è il via libera “salvo intese”. Ma mentre sul Csm e il civile M5s e Lega hanno trovato un’intesa, le distanze restano marcate sul penale. Con i pentastellati che avanzano dubbi sulla reale volontà della Lega: “Ho sentito tanti “no”, c’è stata assoluta disponibilità da parte mia ad affrontare proposte di modifiche – ha spiegato Bonafede all’uscita – Io penso che i cittadini non possano aspettare più una riforma della giustizia”. L’oggetto del contendere? Il Guardasigilli lo dice chiaro e tondo: “Non vorrei che ci fosse il tema della prescrizione come nodo che non viene portato al tavolo”. Già, perché la riforma – inserita dello Spazzacorrotti – che dovrebbe bloccarla dopo il primo grado entrerà in vigore nel 2020, ma è subordinato all’approvazione della riforma della giustizia. Mentre per la Lega restano distanze su una riforma che è “di facciata”: le proposte leghiste – viene spiegato – non sono mai state accolte e ora è difficile correggere il testo, perché è sbagliato l’impianto
Salvini e Bongiorno al termine del Cdm, intorno alla mezzanotte, tacciono. Ma la Lega dirama una nota durissima in cui parla di cittadini “ostaggio” e invoca “tempi certi”, da “stato di diritto”. Il provvedimento promette – un prossimo Consiglio dei ministri è previsto il 6 agosto – di essere ancora oggetto di un lungo e duro confronto. E Salvini in nottata non sembra mutare di molto il giudizio espresso di primo mattino: Bonafede “ci mette pure la buona volontà” ma la sua “cosiddetta riforma non c’è, è acqua”, dovrebbe essere “imponente, storica” come quella che la Lega ha “pronta” che separa le carriere, “dimezza i tempi dei processi, premia chi merita e punisce chi sbaglia”. 
Il Consiglio dei ministri, previsto alle 15, era iniziato solo attorno alle 16.30 preceduto dal faccia a faccia tra il premier e i leader di Lega e M5s. Ma dopo aver deciso di impugnare alcune leggi regionali con urgenza e l’approvazione rapida, per la firma del presidente della Repubblica, di otto proroghe degli scioglimenti di Consiglio comunali e lo scioglimento di un nuovo Comune, i lavori sono stati sospesi fino alle 18.45. Secondo fonti leghiste lo stop  stato dovuto a “motivi tecnici” e nel frattempo sono proseguire le riunioni per limare il testo, sul quale Conte aveva in precedenza fatto il punto con Di Maio e Salvini. Prima dell’inizio dell’incontro ristretto, il leader leghista aveva puntato i piedi e durante una diretta Facebook aveva definito per la prima volta “acqua” la bozza di riforma di Bonafede. Poi aveva sottolineato la necessità di una riforma “vera”. Mentre a suo avviso il testo uscito dagli uffici di via Arenula “non è quello che gli italiani si aspettano”. La Lega, ha aggiunto, ha un bozza “già pronta, efficace ed incisiva, che separa le carriere, dimezza i tempi dei processi, premia chi merita e punisce chi sbaglia”. Dopo 8 di riunione fiume, le posizioni sono rimaste distanti.

"Pareva un summit di mafia e non una riunione elettorale". - Enrico Fierro - Il FattoQuotidiano del1 agosto 2019

“Pareva un summit di mafia e non una riunione elettorale”

Un politico di Fratelli d’Italia potente e in ascesa eletto direttamente dai boss e diventato il loro burattino. Un altro, del Pd, terrorizzato dalle voci di inchieste che lo riguardavano che chiede informazioni a un finanziere offrendo in cambio un posto di lavoro. Un altro ancora, Pd, ex potente ma sempre col pallino di tornare sulla scena, accusato di trafficare con le cosche da anni.
È la Calabria fotografata dall’inchiesta “Libro nero”, della Squadra mobile di Reggio Calabria e della Direzione distrettuale antimafia diretta dal procuratore Giovanni Bombardieri. Una terra dove nei rapporti col malaffare e con la ’ndrangheta non esistono confini politici, né differenze ideali, solo voti, consenso e quote di potere da conquistare con l’aiuto dei boss. Anche di quelli sospettati di aver ammazzato e fatto sparire tuo padre. È il caso di Sandro Nicolò, ex uomo forte del berlusconismo in riva allo Stretto, poi folgorato da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia. Di lui si parlava come prossimo candidato a sindaco di Reggio Calabria. Ma quando chiedeva voti alle cene elettorali, le riunioni “sembravano summit di ’ndrangheta”.
“A Saline, in un agriturismo, Alessandro fece una cena. Alessandro Nicolò, dove c’era anche Demetrio Berna (uno degli imprenditori arrestati, ndr), c’eravamo io e c’era Ferlito, e c’erano tutti i ragazzi della cosca. Sembrava un summit, non sembrava una riunione elettorale”.
Parla il pentito Enrico De Rosa, e il racconto di quella sera conferma il contenuto dell’inchiesta: il consigliere Nicolò era “diretta espressione della cosca Libri” e in ragione di questo, “divenne il punto di riferimento della criminalità organizzata”. Quella dei Libri è una delle famiglie “storiche” della ’ndrangheta calabrese, alleata dei Tegano, dei De Stefano e dei Condello, ha sempre avuto ottimi rapporti con la politica. Nell’inchiesta emerge la storia tragica del padre del consigliere Nicolò, vittima di “lupara bianca” nel 2004. Secondo gli inquirenti perché membro della cosca Libri ma inviso a don Mico, il capostipite, ipotesi sempre respinta dalla famiglia e dal figlio Nicolò. “Questo – dice uno degli arrestati intercettato dalla polizia – ha vinto con i voti di quelli che gli hanno sotterrato a suo padre”.
Ma quando “Sandro”, come lo chiamano gli affiliati, viene eletto, tutti sono raggianti. “Sandro è cosa nostra, con Sandro abbiamo vinto, abbiamo vinto”. Tutti felici anche in casa Fratelli d’Italia, quando, dopo le scorse elezioni politiche, Nicolò decise di passare dalla loro parte.
A vergare un comunicato entusiasta Giorgia Meloni e Wanda Ferro, senatrice e sicuro candidato governatore alle prossime regionali calabresi. “L’ingresso di Nicolò rappresenta per il nostro partito un valore aggiunto…”. Per i pm, invece, Nicolò era “patrimonio del clan Libri”, un uomo che andava sostenuto. “Sandro – si sente in una intercettazione tra appartenenti alla cosca alla vigilia delle ultime regionali – è un nostro candidato, altri non li dovete votare”. E il pentito De Rosa: “Io Sandro Nicolò lo conoscevo come espressione della famiglia Libri”.
Sebi Romeo, uomo vicinissimo al governatore Oliverio e capogruppo del Pd in Regione, era ossessionato dalle inchieste su di lui. Chiedeva lumi a giornalisti e amici in polizia.
Ne parla col segretario del suo partito di Melito Porto Salvo che ha un amico finanziere nella polizia giudiziaria della Corte d’Appello. Vuole sapere, per l’accusa promette favori “in cambio di informazioni coperte da segreto”. Finisce ai domiciliari per tentata corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio. Risalirebbero nel tempo, invece, le relazioni oscure dell’avvocato Demetrio Naccari Carlizzi, Pd di fede renziana, già assessore regionale e cognato di Giuseppe Falcomatà, il sindaco della città. I magistrati parlano di un suo “stabile, solido e proficuo accordo con i più importanti clan, in occasione di elezioni comunali e regionali”. Chiedeva voti per sé e per i suoi amici di cordata. 
È la politica in Calabria, bellezza.

Vieni avanti, gretino. - Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano del 1 Agosto 2019



Sollevando per un attimo il capino dai dati elettorali, che segnalano cinque anni di spaventosa e ininterrotta emorragia di voti, gli strateghi del Pd devono essersi accorti che le pochissime sinistre vincenti in Europa sono quelle ambientaliste: di nome (tutti i Verdi tranne quelli italiani) o di fatto. Così, astuti come volpi, si sono domandati come intercettare l’onda green che percorre il mondo intero, soprattutto fra i giovani. L’alternativa era semplice: o diventare verdi, o travestirsi da verdi. Indovinate quale hanno scelto? La seconda. E si sono comprati il costume di carnevale da Greta Thunberg. La prossima festa dell’Unità di Milano sarà “la prima sostenibile e plastic free”. 
Mecojoni!! E lo slogan della “Costituente delle idee” lanciata da Zingaretti nel Paese all’insaputa del Paese è: “Riaccendiamo l’Italia. Verde, giusta, competitiva”. Da pelle d’oca. Veltroni ha capito benissimo che per il suo Pd non c’è speranza: infatti, invece di suggerirgli di diventare ambientalista, ha proposto di fondare un altro partito ad hoc con l’acronimo “Ali”. Che non c’entra con Alitalia, ma con “ambiente, istruzione, lavoro”. Non vi vengono i brividi? La stessa idea l’aveva avuta Sala, il cui amore per l’ambiente è tuttora visibile a Rho-Pero, nella landa desolata del fu Expo. GreenZinga, frattanto, per non farsi scavalcare, gira l’Italia con proposte tipo “destinare 50 miliardi della prossima legge di bilancio a un fondo verde per iniziare un green new deal italiano”: tanto la legge di Bilancio non la fa mica lui, il che gli risparmia il fastidio di trovare le coperture.
Ma, casomai qualcuno avesse creduto davvero alla svolta ambientalista dell’ala sinistra del Partito Trasversale del Cemento, il capogruppo Graziano Delrio ha subito provveduto a smascherare la carnevalata con una strabiliante intervista a Repubblica. Il tema è il Tav Torino-Lione (che non arriverà né a Torino né a Lione, visto che non prevede alcun collegamento ad alta velocità ai due capoluoghi, ma solo un buco tra Bussoleno e Saint Jean de Maurienne). E Delrio è lievemente imbarazzato di ritrovarsi il 7 agosto al Senato sulle stesse posizioni della Lega (per la verità anche di FI, ma con quella il Pd ci ha governato due volte e mezza e ormai è abituato). Così s’è affrettato a prendere le distanze: “La nostra posizione sulla Tav (anche per lui treno è un sostantivo femminile, ndr) è diversa da quella della Lega che ha fatto perdere un anno”. Cioè: quei cementificatori della Lega vogliono il Tav con un anno di ritardo, mentre gli ambientalisti del Pd sarebbero partiti con un anno di anticipo.

Poi via alle supercazzole: “l’alta velocità serve a connettere il paese” (anzi i paesi: quello di Bussoleno e quello di Saint Jean) e “a dare opportunità di lavoro” (450 operai per un cantiere della durata di 15 anni e del costo di 9,6 miliardi); “presenta grandi benefici” (per due o tre appaltatori); “tutti gli studi dimostrano che va fatta” (tranne l’analisi costi-benefici del governo italiano e l’ultimo report della Corte dei Conti francese, che stimano perdite miliardarie); “da ministro ho firmato gli accordi per la Tav” (quelli che accollano all’Italia il 57,9% e alla Francia il 42,1 del buco di 57,5 km nelle Alpi che insiste per l’80% sul territorio francese e per il 20 su quello italiano); “l’opera finanziata dai governi di centrosinistra ha visto una forte riduzione dei costi” (per Macron) e “dell’impatto ambientale” (il cantiere regalerà per 15 anni alla Val Susa appena 12 milioni di tonnellate di Co2, più le polveri sottili, altre emissioni venefiche, cemento, acciaio, rame, amianto e materiali radioattivi, detriti, polveri e camion). Il tutto per duplicare inutilmente una linea merci semideserta (i treni Torino-Modane viaggiano vuoti al 90%) e una linea passeggeri veloce ed efficiente ma tutt’altro che satura (il Tgv). Infatti al Senato il Green Pd voterà contro la mozione No Tav del M5S esattamente come la Lega.

Non che sia una novità. Quando i riflettori erano puntati altrove, Pd, Lega e FI hanno sempre votato insieme per gli inceneritori, le trivelle petrolifere per terra e per mare, il Tap, il Terzo Valico, le Pedemontane e altre opere tanto inutili e costose quanto inquinanti previste dal mitico Sblocca-Italia di Renzi&Delrio. Pazienza se l’Agenzia dell’Energia, contro il clima impazzito, chiede di lasciare sottoterra l’80% dei fossili: altro che petrolio e gasdotti. Tre anni fa questi trafelati neo-gretini bloccarono pure il decreto sulle energie rinnovabili e fecero fallire il referendum sulle trivelle in mare incitando all’astensione con FI e a Napolitano (allora Salvini indossava la felpa No Triv e 13 milioni di italiani, perlopiù di sinistra, bocciarono la politica energetica del Pd, cioè dell’Eni e delle sue consorelle). 
E approvarono gli ultimi decreti Salva-Ilva, in tutto 12 voluti da destra e sinistra per neutralizzare le indagini della magistratura e garantire l’impunità ai vertici e ai commissari dell’acciaieria avvelenatrice. 
Ancora a marzo, mentre GreenZinga dedicava a Greta la sua elezione a segretario e si recava in pellegrinaggio al finto cantiere del Tav, il sindaco Pd di Ravenna sfilava in piazza con l’Eni (fra le proteste di Legambiente) contro il blocco delle nuove estrazioni petrolifere imposto dal governo Conte su pressione di quei manigoldi dei 5Stelle. 
Idem in Europa, dove – secondo un recente studio del Wwf – il Pd si è opposto alla richiesta di spendere il 40% delle risorse finanziarie Ue per attuare gli Accordi di Parigi sul clima, alla proposta di finanziare la gestione delle aree naturali protette e alla norma che aboliva i sussidi ai combustibili fossili (favorevoli solo M5S e, nei primi due casi, Sinistra Italiana). É proprio un’attrazione fatale: tra fossili, ci si intende.

https://infosannio.wordpress.com/2019/08/01/vieni-avanti-gretino-2/

Il Movimento per fermare Salvini. - Tommaso Merlo

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Zingaretti ha sospeso gli esponenti del Pd collusi con la N’ndrangheta in Calabria. Nel frattempo, passata la tempesta di Bibbiano, il Pd balza agli onori delle cronache per Gozi. Dopo Carla Bruni è lui la nuova première dame di Francia. 
Il Pd è un partito politicamente già defunto tenuto in vita artificialmente da una banda di dirigenti incarogniti e da uno scenario politico favorevolissimo. Dopo il 4 marzo, il Pd è rimasto l’unico partito “in teoria” all’opposizione di Salvini. Da solo occupa uno spazio enorme ed ha tutti i giornalai a favore. Per questo resiste intorno al venti. Se non va oltre, è perché è un partito marcio che ha perso ogni credibilità e si trascina da uno scandalo all’altro in attesa di quello letale. Ma chi detesta Salvini e a chi non basta la formula del contratto, non ha alternative. O sta a casa o vota la vecchia sinistra. Se il Movimento non fosse andato al governo con Salvini, il Pd avrebbe fatto la fine di Forza Italia, sarebbe stato prosciugato dal nuovo corso e si sarebbe ridotto intorno al cinque percento. Come successo a destra, cioè, il Movimento avrebbe assorbito tutti i consensi di quella che un tempo fu la sinistra coalizzando tutti gli oppositori di Salvini. Ed invece le cose sono andate diversamente. Per senso di responsabilità dopo aver preso quello storico 32% e per legittima ansia di dimostrare il proprio valore dopo anni di calunnie, il Movimento ha firmato un contratto con l’unica forza che ci è stata, la Lega. E stando ai fatti, la sfida è stata vinta. Il Movimento ha concluso molto di più della Lega e senza rubare. Stando però ai consensi, il Movimento si è dissanguato finendo sotto al Pd. Il perché sta tutto in Salvini che non è espressione di una destra tradizionale o moderata, Salvini è fautore della destra più becera mai vista in Italia. Una destra volgare ed estremista del tutto incompatibile con gran parte degli elettori del Movimento. Incompatibile politicamente, incompatibile culturalmente. E nemmeno la formula del contratto è bastata a contenere tale ripulsione. Anche perché Salvini, invece di lavorare, si è dedicato all’unica cosa che sa fare, ruttare per raccattar voti. Una presenza costante ed irritante che ha aggravato la posizione del Movimento. Il Pd ha tentato di sfruttare questa situazione puntando fin dall’inizio allo sfascio del governo gialloverde e degli odiati populisti. Una strategia disastrosa. Piuttosto che tornare a votare Pd, gli elettori emigrano. E il perché è molto semplice. Il Movimento rappresenta tra le altre cose, un modello più avanzato di partito e di politica e una volta fatto il salto evolutivo in avanti, il cittadino non torna più indietro. Zingaretti e tutti gli altri baronetti sono figli di un passato che gli italiani vogliono solo dimenticare. Per questo, quando il governo cadrà e quando il Movimento tornerà ad occupare l’enorme spazio di opposizione a Salvini, lo scenario politico potrebbe stravolgersi. Il Pd farebbe la fine di Forza Italia scomparendo e milioni di cittadini potrebbero riavvicinarsi al Movimento. A giovarne sarebbe tutto il paese perché Salvini va fermato e oggi il Pd è talmente sputtanato che quando lo attacca anche giustamente, ottiene l’effetto opposto. Rafforza cioè Salvini mentre il Movimento è costretto a mordersi la lingua ed assistere inerme ad una perdita dei consensi sempre più drammatica .

'Ndrangheta: blitz contro un clan reggino, arrestati politici e imprenditori. - Alessia Candito

'Ndrangheta: blitz contro un clan reggino, arrestati politici e imprenditori

REGGIO CALABRIA. In silenzio hanno costruito un impero e i loro tentacoli arrivavano ovunque, dalla politica all’imprenditoria e alla pubblica amministrazione. Diciassette persone, ritenute appartenenti o vicine allo storico casato mafioso dei Libri di Reggio Calabria, sono state arrestate questa notte dalla Squadra mobile di Reggio Calabria. Fra loro ci sono anche diversi politici, attivi in ambito cittadino e regionale e in entrambi gli schieramenti.

Si tratta di Alessandro Nicolò, ex capogruppo di Forza Italia oggi passato a Fratelli d'Italia, di cui è anche coordinatore regionale, arrestato e condotto in carcere; mentre è indagato a piede libero Demetrio Naccari Carlizzi, ex consigliere regionale e uomo forte dell'area renziana del Pd, nonché cognato del sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà; Giuseppe Demetrio Tortorella, ex assessore comunale negli anni Novanta, per i magistrati vero e proprio consigliere politico del clan e per questo finito in carcere con l’accusa di associazione mafiosa; Demetrio Berna, ex assessore comunale al bilancio, legato al clan Libri da rapporti di parentela, in passato destinatario dei loro pacchetti di voti e fino ad oggi loro fidato braccio imprenditoriale. Anche lui è finito in carcere insieme al fratello Francesco, attuale presidente dell’Ance locale e pezzo da novanta della Confindustria reggina.

Dall’indagine, è stato travolto anche Sebastiano Romeo, capogruppo del Pd in consiglio regionale, finito ai domiciliari, per aver tentato di avere informazioni coperte da segreto istruttorio, corrompendo un maresciallo della Finanza. È l’unico a non essere stato raggiunto da accuse di mafia. Tutti gli altri politici – affermano i magistrati – erano funzionali ai progetti e ai desideri dei clan. Lo hanno scoperto gli investigatori della Squadra mobile ascoltando ore e ore di conversazioni intercettate nello studio medico di Tortorella, dentista con un passato da politico, divenuto lo stratega elettorale dei Libri. Era lui a gestire le preferenze, indirizzandole sui candidati “giusti”. “Ma vogliamo precisare – dice il procuratore Bombardieri – che questa indagine non si basa su chiacchiere. Tutto quello che abbiamo raccolto è stato riscontrato, ci sono anche quattro pentiti che confermano il quadro che emerso da quelle conversazioni, e su tutte quelle dichiarazioni c’è stata una straordinaria attività di riscontro”. L’inchiesta dunque è solida, lo scenario che ne emerge, devastante.

Forte di un enorme bacino di voti, attraverso i propri uomini, fra cui diversi imprenditori di fiducia, i Libri interloquivano con i politici di tutti gli schieramenti, cui offrivano appoggi e consensi in cambio di appalti, favori ed entrature. Alle regionali del 2014 però, secondo gli investigatori il clan aveva scelto Nicolò di Forza Italia come proprio candidato. “Abbiamo vinto, con Sandro abbiamo vinto” li sentono esultare gli investigatori che li ascoltano a spoglio concluso “è il primo del centrodestra”.

E l’allora aspirante consigliere regionale non avrebbe esitato a chiedere appoggi, offrendo in cambio posti di lavoro e favori a uomini notoriamente appartenenti al clan. Ma non si trattava di un semplice patto elettorale. Nicolò – sostengono i magistrati Stefano Musolino e Walter Ignazzitto della procura antimafia di Reggio Calabria, diretta da Giovanni Bombardieri – era in tutto e per tutto un associato, un politico costruito a tavolino dai clan. La stessa famiglia di mafia – si ascolta dire ad uno degli arrestati – responsabile dell’omicidio del padre del politico. Fatti provati, documentati, tanto da spingere il giudice per le indagini preliminari ad autorizzare l’arresto per il politico.

Sono accuse – e anche pesanti –  ma rimane indagato a piede libero Demetrio Naccari Carlizzi. Per gli investigatori, l’ex consigliere avrebbe stretto uno “stabile, solido e proficuo” accordo con i clan più importanti per la città di Reggio Calabria in occasione delle elezioni comunali e regionali, “chiedendo per sé e per i candidati indicati i voti raccolti dai rappresentanti di ‘ndrangheta”. Per Seby Romeo, finito ai domiciliari, l’accusa invece è di aver corrotto un funzionario della Corte d’appello di Reggio Calabria, il maresciallo della Guardia di Finanza, Francesco Romeo. Questi, chiedeva a Sebi Romeo di far assumere una persona in una locale impresa di trasporti ed autolinee ed in cambio gli prometteva di fornirgli informazioni, coperte da segreto istruttorio, relative a procedimenti pendenti presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria.

Insieme a loro, in manette sono finiti noti imprenditori apparentemente irreprensibili e formalmente slegati dal contesto mafioso, in realtà alle dipendenze del clan come veri e propri associati o concorrenti esterni. Fra loro ci sono anche l’ex assessore comunale Demetrio Berna e il fratello Francesco, titolari di una delle imprese di costruzioni più importanti della città e pezzi da novanta della locale Confindustria. In carcere è finito anche un noto avvocato, Giuseppe Putortì, in passato prima condannato poi assolto dall’accusa di aver favorito i boss che assisteva come legale. Per gli inquirenti, nel tempo era diventato un elemento fondamentale per il clan Libri, del quale avrebbe curato interessi e relazioni.

"Esprimiamo pieno sostegno al lavoro della magistratura in Calabria e fiducia che le indagini che coinvolgono affiliati alla cosca della Ndrangheta Libri, e alcuni esponenti politici, condurranno nel pieno rispetto dei diritti degli indagati ad accertare la verità. Tra gli indagati vi sono anche esponenti del Pd, per i quali la commissione di garanzia ha già provveduto immediatamente alla sospensione dal partito in attesa dell'esito delle indagini", dice il segretario Nicola Zingaretti sottolineando come "sia necessario "un radicale processo di rinnovamento della classe politica calabrese". "Le notizie relative all’operazione anti ‘Ndrangheta contro il clan Libri impongono un serio intervento del #Pd nazionale in #Calabria. Mi autosospendo dal partito fino a quando non si farà chiarezza", aveva subito annunciato il Senatore ed ex commissario calabrese del Pd, Ernesto Magorno.

https://www.repubblica.it/cronaca/2019/07/31/news/blitz_contro_un_clan_reggino_arrestati_politici_e_imprenditori-232420471/?ref=RHPPLF-BH-I232420672-C4-P4-S1.4-T1&fbclid=IwAR1LXF83fgqXqBc6BBgKM5OOpLa51mnD9oPaHb5Y05mfqTTb5kN2fxgdPa0

mercoledì 31 luglio 2019

Facebook rischia di chiudere, ha contro i giovani (e Soros). - Massimo Bordin



Ci sono almeno 3 indizi che portano verso un’inaspettata chiusura del più grande social media del mondo. Il primo è quello di cui tutti parlano oggi: un ipermegamultone che si aggiunge alle rogne pregresse di Zuckerberg; ben presto la politica dovrà mettere mano alla faccenda con una manovra antitrust, anche e soprattutto in vista delle elezioni americane del 3 novembre. C’è chi, come business insider, scommette sulla chiusura di Facebook e parla di una operazione in grande stile che il governo post-Trump dovrà attuare. La vicenda di Cambridge Analytica è a tutti nota, e ora si è aggiunta solo l’indiscrezione per la cifra da pagare a seguito di violazione della privacy: cinque miliardi di dollari. La più elevata mai imposta dalla Federal Trade Commission contro un’azienda di tecnologia. Attenzione, non sarebbe certo la prima volta che accade qualcosa del genere ad un’azienda di grandi dimensioni. E penso alla compagnia petrolifera Standard Oil, fondata da Rockefeller nel 1870 e smembrata per decreto nel 1911 dall’antitrust americana.
A detta degli espertoni, questo è il più grande rischio che oggi corre Facebook, perché uno smembramento comporterebbe cambiamenti epocali, tali da snaturare l’idea stessa del “faccialibro” per come esso nacque nell’ormai preistorico 2004. Il secondo indizio allieterà senza dubbio i gusti dei complottisti – di gran lunga la categoria umana che preferisco e della quale mi vanto di far parte, nonostante il neologismo sia demenziale e colpisca scorrettamente tutti quelli che propongono dei dubbi. Si tratta di Soros, amici. Eh già, il vecchio volpone dell’economia globalista da qualche tempo attacca Facebook senza remore. «Affermano che distribuiscono solamente informazioni – ha affermato il capitalista ungherese – ma in realtà sono quasi distributori monopolisti, e questo li rende servizi pubblici. Dovrebbero pertanto essere soggetti a regolamentazioni più stringenti mirate a preservare la competizione, l’innovazione e un accesso universale, leale ed aperto». Soros ha poi paragonato Facebook e Google ai casinò, che «progettano deliberatamente la dipendenza ai servizi che forniscono».
Ma qual è la ragione di questo attacco? Non lo sappiamo, ma da buon complottista ipotizzo che Facebook abbia dato voce a tutti, minando così le cristalline certezze provenienti dai media tradizionali. Insomma, Soros finanzia i liberal sparsi per il mondo, ma chi contesta i liberal è “fuori controllo” grazie a internet. A mio avviso è evidente che lui odi la Rete. Ad esempio, il vegliardo spende una vagonata di soldi per far salire al potere la Hillary Clinton, eppoi la Rete aiuta la visibilità di Donald Trump. Inaccettabile per un lobbysta che si rispetti! Ma è il terzo indizio quello che mi induce a ritenere Facebook avviata al tramonto o ad un profondo rimescolamenteo delle (sue) carte. Il social, infatti, ha dei picchi di utenza che ben presto saranno ridimensionati dal fatto che i millennials non si iscrivono più a questo tipo di social. In altre parole, la disaffezione dei giovani costringerà Zuckerberg alla chiusura in modo molto più determinante delle decisioni dell’Antitrust.
Ve lo ricordate Myspace? E SecondLife? Tutta bella roba caduta in disuso per assenza di grano, altro che antitrust! Com’è noto, infatti, le nuove generazioni preferiscono Instagram (sempre di proprietà di Zuckerberg) dove praticamente non si parla di politica (e Soros qui non sbrocca, guardacaso), o Tinder, la nuova Bibbia per i segaioli impenitenti. Insomma, immagini taroccate e app per rimorchiare potranno continuare, Facebook rischia invece grosso. Se non cambia pelle. Dovesse accadere, comunque, non tutto il male viene per nuocere. Chi è noiosamente e ampollosamente affezionato ai “discorsi lunghi” potrà infatti tornare ai vecchi cari blog (ehehehe), ai forum, oppure alle nuove app come Telegram, società di messaggistica e canali in stile blog informativi che ha sede nel Regno Unito, ma che è stata fondata dall’imprenditore russo Pavel Durov. Con un cognome così direi che il rischio smembramento è quanto mai remoto.
(Massimo Bordin, “Facebook verrà chiuso”, dal blog “Micidial” del 29 luglio 2019)

Preferisco di No. - di Marco Travaglio - l Fatto Quotidiano del 31 Luglio 2019

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Soltanto in un Paese smemorato come il nostro poteva avere successo lo slogan di Salvini, che l’ha copiato da Renzi, che l’ha copiato da Berlusconi, sull’ “Italia dei Sì” (bella) contro l’ “Italia dei No” (brutta).
Chi scrive si è sempre identificato nel motto di Longanesi “Sono un conservatore in un Paese in cui non c’è nulla da conservare”. E da almeno trent’anni constata che - salvo rare eccezioni, da contare sulla dita delle mani di un monco - le cosiddette “riforme” di una classe politica perlopiù indecente hanno regolarmente peggiorato le cose. Eppure tutti quelli che, a ogni “riforma” strillavano come ossessi il loro “sì”, dovrebbero chiedere scusa e possibilmente pagare i danni a chi, inascoltato, diceva “no”.
Anche nella forma più educata e un po’ surreale di Bartleby lo scrivano del famoso racconto di Herman Melville: “Preferirei di no”.
L’ultima volta che un bel No ci salvò da guai incalcolabili fu al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, quando respingemmo la schiforma Renzi-Boschi-Verdini e preservammo la nostra Carta fondamentale. 

Ma lo stesso era accaduto nel 2006, con la vittoria del No referendario alla deforma di B. E tutte le volte in cui, non potendo farlo noi cittadini, presidenti della Repubblica degni di questo nome (Scalfaro e Ciampi) e la Consulta respinsero a suon di No un bel po’ di leggi incostituzionali del centrosinistra (il decreto salvaladri Amato-Conso) e di B. (la Gasparri, l’ordinamento giudiziario Castelli, la Pecorella che aboliva l’appello solo per i pm, la Cirami, il lodo Schifani, il lodo Alfano ecc.). 
Se Napolitano avesse proseguito quella meravigliosa tendenza al No, ci avrebbe risparmiato le ultime vergogne del berlusconismo e tutte quelle del renzismo.
Anche perché ogni No (al peggio) sottintende sempre un Sì (al meglio).
Pensiamo al valore morale del No al Tav, cioè alla devastazione di una valle, quella di Susa, già martoriata da scempi di ogni genere, e delle casse dello Stato, già grassate e spolpate da decenni di bande e scorribande del partito trasversale degli affari. Dire No al Tav significa dire Sì all'ambiente e alla ricerca tecnologica su nuovi modelli di mobilità che tutto il mondo studia e realizza, tranne noi. Quando i 5Stelle, in questa strana stagione giallo-verde, hanno detto No alla Lega sul mega-condono fiscale, sulle trivelle, sugli inceneritori, sull'emendamento per l’eolico pro Arata&Nicastri, sulla nomina di Arata a capo dell’Autorità per l’Energia, sulla secessione della scuola spacciata per autonomia, sulla legge Pillon contro il diritto di famiglia, i loro elettori e non solo gliene sono stati grati.

Così come per i No alle depenalizzazioni del peculato per salvare quelli di Rimborsopoli e dell’abuso d’ufficio per salvare Fontana&C.. Il guaio è che ne avrebbero dovuti dire di più, di No. Per esempio: sul salvataggio di Salvini dal processo per sequestro di persona sulla nave Diciotti, hanno pronunciato un Sì che tradiva dieci anni di battaglie per la legge uguale per tutti. E i tradimenti si pagano, mentre le sconfitte politiche anche cocenti – come quella, ormai probabile, sul Tav Torino-Lione e quelle certe sul Tap e sull’Ilva - si possono alla lunga perdonare. Intendiamoci: non tutti i No sono popolari solo perché sacrosanti, anzi molti No sacrosanti fanno perdere un sacco di voti.

Soprattutto in un Paese senza memoria che non pensa mai a come starebbe meglio se qualcuno, a suo tempo, avesse detto No alla privatizzazione delle autostrade, al Mose, ai mondiali di calcio di Italia 90, alle Olimpiadi invernali di Torino 2006, ai Mondiali di Nuoto di Roma 2009, all’Expo di Milano 2015 e a decine di grandi opere e grandi eventi inutili e costosi che hanno svuotato l’erario e indebitato le metropoli senza produrre un euro di valore aggiunto. 

Infatti, se si facesse un sondaggio sugli illuminati No di Monti e della Raggi alle Olimpiadi di Roma 2020 e 2024, la maggioranza sarebbe contraria: la maggioranza, non da oggi, vuole panem et circenses, salvo poi strillare quando arriva il conto delle tasse per ripagarli.

Ora Salvini, forte dei voti incassati il 26 maggio, continua a menarla col Partito dei Sì (la Lega) contro il Partito dei No (il M5S). E molti si bevono questa favoletta per gonzi secondo cui dire Sì beatamente e beotamente a tutto sarebbe un vantaggio per i cittadini. Senza mai domandarsi a che cosa si debba dire Sì. Sì all’autonomia differenziata in versione secessione? Per carità. Sì a una flat tax che taglia le tasse ai ricchi, da sempre mantenuti dai lavoratori dipendenti e pensionati del fu ceto medio? Dio ce ne scampi.

A ben vedere, qualche Sì conveniente per la collettività ci sarebbe: 

- il Sì definitivo alla legge costituzionale che riduce di un terzo i parlamentari (si spera accompagnata da un ritocco dei collegi del Rosatellum, per evitare gli effetti ipermaggioritari del combinato disposto), 
- il Sì alla norma che taglia gli stipendi degli eletti più pagati d’Europa, 
- il Sì alla legge contro la privatizzazione dei servizi idrici e degli altri beni comuni, 
- il Sì al salario minimo (su cui ci scavalca persino da frau Von der Leyen), 
- il Sì a una riforma della Rai che elimini non il canone ma i partiti, 
- il Sì a una riforma che cacci la politica dalle Asl e dagli ospedali. E – aggiungiamo noi - 
- il Sì al carcere per gli evasori con l’aumento delle pene e la sparizione delle vergognose soglie di non punibilità per chi deruba il fisco.

Sono tutte norme previste dal Contratto di governo, a cui il sedicente Partito del Sì ha finora detto No o Ni. Ma sono anche norme di puro buonsenso ed equità che dovrebbero campeggiare nei programmi di un centrosinistra degno di questo nome. Che, se nei suoi 11 anni di governo sugli ultimi 20, avesse pronunciato i Sì e i No giusti, non sarebbe scomparso dai radar.


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