venerdì 4 ottobre 2019

3 anni da buttare - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 4 Ottobre

L'immagine può contenere: 4 persone, persone che sorridono, cappello

Ci voleva il gup Clementina Forleo per sistemare in un colpo solo la Procura di Roma, il sistema renziano e i sottostanti giornaloni. Chi legge il Fatto non ne sarà stupito, visto che il caso Consip l’abbiamo sempre raccontato per quello che è: una doppia, gigantesca trama per pilotare il più grande appalto d’Europa in cambio di tangenti promesse al padre di Renzi e al suo galoppino; e poi, scoperti quei traffici dai pm napoletani Woodcock e Carrano e dal Noe, per rovinare l’indagine con fughe di notizie dal Giglio Magico ai trafficoni che smisero di trafficare e persino di parlare, facendo sparire le microspie da Consip. Chi invece seguiva lo scandalo sui tg e i giornali, si era fatto l’idea che pm e carabinieri eversivi avessero cospirato col Fatto per rovesciare il governo Renzi a colpi di false accuse, false intercettazioni, falsi verbali e false notizie contro quel martire di babbo Tiziano. Ora l’ordinanza del gup, che rinvia a giudizio i renziani Lotti, Vannoni, Russo e i generali Del Sette e Saltalamacchia per le soffiate sull’inchiesta, ma soprattutto proscioglie l’ex capitano Scafarto dalle accuse di falso e depistaggio, spazza via la più colossale fake news politico-giudiziaria mai vista dai bei tempi di Ruby nipote di Mubarak.

Lo scandalo Consip, come aveva ben capito la Procura di Napoli, erano le trame sugli appalti e le soffiate sull’indagine, non certo gli errori in buona fede di Scafarto né gli scoop di Marco Lillo, come volevano far credere la Procura guidata da Pignatone e i suoi house organ, più impegnati a indagare su chi aveva indagato e informato che su chi aveva trafficato. Ora qualcuno, se proprio non riesce a vergognarsi, dovrebbe almeno scusarsi. Scafarto, che coordinava l’indagine del Noe, fu scippato dell’inchiesta, poi indagato e addirittura interdetto dall’Arma: tutto perché, in un’informativa con migliaia d’intercettazioni, aveva invertito i nomi dell’imprenditore Romeo e del consulente Bocchino. Quella svista, che ora il gup giudica “sicuramente involontaria” (le trascrizioni erano corrette e l’ufficiale raccomandò ai suoi di rileggerle per evitare errori), gli costò l’accusa di falso e depistaggio e la fama di taroccatore di prove per “incastrare” direttamente Tiziano e indirettamente Matteo. I giornaloni abbandonarono i condizionali sempre usati per Lotti e babbo Renzi (anche su fatti assodati) e passarono all’indicativo, dando per certo il dolo del capitano. Repubblica titolò: “Due carte truccate”, “Così hanno manipolato le carte per coinvolgere Palazzo Chigi”. Ed evocò addirittura “la sentina dei giorni peggiori della storia repubblicana”.

Tipo il piano Solo, il golpe Borghese, la strategia della tensione, la P2. Carlo Bonini sentenziò che Scafarto “ha costruito consapevolmente due falsi”, una “velenosa polpetta” per incastrare i Renzis e “alimentare una campagna di stampa che, con perfetta sincronia e sapiente ‘fuga di notizie’ (lo scoop del Fatto, ndr)” doveva costringere la povera Procura di Roma a seguire quella deviata di Napoli. Le stesse fandonie uscirono quando Lillo fu indagato per violazione di segreto in combutta con Woodcock e la Sciarelli (poi prosciolti con tante scuse, anzi senza). Non contenta, Repubblica (col Corriere e il Messaggero) pubblicò un verbale taroccato del procuratore di Modena Lucia Musti contro Scafarto e il capitano Ultimo, che le avrebbero intimato di “far esplodere la bomba” Consip per “arrivare a Renzi”. Poi si scoprì che la Musti aveva detto tutt’altro. Da allora Renzi grida alla congiura contro il suo governo (peraltro caduto da solo, dopo la disfatta referendaria del 4 dicembre 2016, due settimane prima dello scoop del Fatto): “Lo scandalo Consip è nato per colpire me e credo che colpirà chi ha falsificato le prove per colpire il premier. Io lo so bene chi è il mandante”. E i migliori cervelli del Pd a ruota. Orfini: “Questo è il Watergate italiano, un caso di eversione, un attacco alla democrazia”. Zanda, Fassino, Nencini e il duo Andrea Romano-Mario Lavia: “Complotto”. E l’allora direttore di Repubblica, con grave sprezzo del ridicolo: “L’idea che sia possibile disarcionare un primo ministro o chiudere una carriera politica attraverso la manipolazione di intercettazioni e un uso sapiente delle rivelazioni ai giornali è sconvolgente… Resta la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato ed eversivo”. Parole degne di Sallusti, Feltri e Belpietro sui processi a B.: dalle “intercettazioni a strascico” alla giustizia a orologeria di Woodcock e Scafarto che nel “dicembre 2016, un mese politicamente decisivo per il Paese… decidono i tempi” e imbeccano il Fatto, che “avvisa della tempesta che sta per succedere… perché la bomba scoppi”.
Poi la bomba si rivela un’autobomba del Bomba. Il Watergate, un Water closed. Il Piano Solo, un Piano Sòla. E ora il gup scrive che gli unici depistaggi “volti a impedire il regolare corso delle indagini” sono quelli di “ambienti istituzionali vicini all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi”. Ma intanto il polverone ha sortito i suoi effetti, dirottando l’attenzione generale dal vero scandalo Consip a quello falso, consacrando i dogmi dell’Immacolato Pignatone e del peccato originale napoletano, e fiancheggiando la sterilizzazione dell’indagine. Che, per fortuna, è stata sventata dai due gip: la Forleo ha prosciolto Scafarto (salvo ricorsi dei pm in appello); e Gaspare Sturzo ha respinto la richiesta d’archiviazione per Tiziano e Romeo. Intanto si son persi tre anni: l’ordinanza di ieri riporta le lancette dell’orologio al Natale 2016, quando l’indagine passò da Napoli a Roma. Tutto quel che è stato fatto, detto e scritto da allora è carta straccia. Come ha sempre sostenuto il Fatto, in beata solitudine.

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giovedì 3 ottobre 2019

UNO STATO ESTORSORE E CRIMINALE. - Gianni John Tirelli

Risultati immagini per oppressione fiscale

Quelle che con un eufemismo lo Stato chiama “le tasse”, in realtà sono vere e proprie tangenti. Ci viene richiesto il “pizzo” su ogni bene primario e inalienabile diritto naturale di nascita, e su altri beni che, nel tempo, si sono attestati a irrinunciabili bisogni della società civile.
Così ci viene estorto denaro quando acquistiamo una casa di abitazione, costretti in seguito a pagare annualmente e per il resto della nostra vita la fatidica IMU. Ci viene imposta una tangente “tassa sulla spazzatura”, che siamo costretti a pagare annualmente finche morte non ci separi dal mondo. E poi le quote fisse bimestrali, relative al consumo di acqua, di luce, gas, e telefonia fissa; veri e propri vitalizi che versiamo a società private dal momento in cui abbiamo scelto di abitare in una casa con un tetto sopra la testa, preferendola all’addiaccio, al sotto di un ponte o a una baracca di lamiera e cartone.
Quote fisse, queste, che dovremo onorare comunque per tutta la vita, anche nel momento in cui decidessimo di azzerare ogni consumo energetico o ridurlo al minimo.
E se dopo un’animata riunione famigliare, decidessimo imprudentemente di optare per l’acquisto di un’auto vettura, preferendola ad una bicicletta, ad un’asino, o a un carro trainato da buoi, dobbiamo mettere nel conto tutta quella lunga lista di tangenti (bollo, RCA, revisione, caro benzina, pedaggio autostradale, passaggio di proprietà, ecc..) che scattano automaticamente al momento dell’acquisto, e che ci perseguiteranno per tutta la vita, o per tutto il tempo durante il quale risultiamo possessori di quel maledetto e diabolico bene – anche quando decidessimo di limitare all’essenziale l’uso del veicolo e i suoi consumi.
Ma la lista delle tangenti attraverso le quali lo Stato democratico ci ricatta e ci dissangua al pari di un’organizzazione mafiosa, è talmente lunga e così ben distribuita all’interno del labirinto burocratico e legislativo, che ogni proposito di elencarle tutte risulterebbe retorico e pedante.
Lo Stato si comporta al pari di un’organizzazione criminale (di fatto lo è, anche se ben celata dietro travestimenti di facciata) quando, venendo meno il pagamento della “tangente” richiesta, automaticamente blocca l’accesso ai tuoi beni e ai tuoi bisogni primari, isolandoti dalla società, umiliandoti, e derubandoti della dignità. Il suo potere di vita e di morte sul cittadino, gli consente di toglierti luce, l’acqua, il gas, di bloccare la tua macchina, di ipotecare la tua prima casa e di metterla all’asta. Le sue leggi gli permettono di buttarti in mezzo ad una strada, tu e tutta la tua famiglia, di ridurti in miseria fino all’accattonaggio.
In questo caso, per accelerare le pratiche di recupero e renderle operative, si avvale del più spietato estorsore legalizzato in circolazione: Equitalia. Un facsimile della “Gestapo”, che pur di incassare la sua tangente, è disposto a qualsiasi crudeltà e nefandezza, al fine di riscuotere il credito che ritiene dovuto.
In altri casi, al contrario, ti è concesso tutto il tempo necessario per poi, dopo dieci o quindici anni, essere raggiunto da una raccomandata, da una bella cartella esattoriale, il cui importo è cento volte quello che in realtà dovuto; e se non paghi entro i termini previsti, puoi dire addio alla tua vita. Loro non vogliono i tuoi soldi subito – “Tu sei il loro più redditizio investimento e guai a te se paghi a tempo debito”.
Ciò che è inverosimile e inaccettabile, è il persistere a chiamare “democrazia” una struttura che ha le connotazioni di uno stato di polizia, e che non ha nulla da invidiare ai peggiori regimi del passato. Anzi… è ben più peggiore…!
Questo Stato va al più presto smantellato, azzerato, e ricostruito dalle fondamenta, per essere certi di avere rimosso tutto quel marciume che per decenni ha messo a ferro e fuoco questo paese, trascinandolo dentro una deriva etica, morale, economica e ambientale senza precedenti.

Da Allianz a Deutsche Bank, i big tedeschi attaccano la Bce ultra-accomodante di Draghi. - Isabella Bufacchi

Oliver Bate, amministratore delegato di Allianz (Afp)

Monta la rivolta a cielo aperto dei falchi contro la Bce, capitanata dai tedeschi: prima il presidente della Bundesbank Jens Weidmann e il ceo di Deutsche bank Christian Sewing, poi il membro del Board Sabine Lautenschläger, da ultimo durissimo il ceo del gruppo assicurativo Allianz, Oliver Bate. Scontenti sul QE2 i governatori di Austria, Olanda, Estonia, a sorpresa la Francia prende le distanze.

L’attacco rivolto contro il presidente della Bce Mario Draghi dal ceo del gruppo assicurativo tedesco Allianz Oliver Bate in un'intervista al Financial Times è il più duro di una lunga serie, e l’ultimo in ordine di tempo.

Gli scettici e i critici della politica monetaria ultra-accomodante della Banca centrale, soprattutto dopo l’ultimo pacchetto di misure di stimolo annunciate il 12 settembre, stanno alzando i toni. I tassi negativi riducono i margini delle banche e pesano sulla redditività; il crollo sotto zero dei rendimenti dei bond mette alle corde il mondo del risparmio gestito, i prodotti vita delle assicurazioni, i fondi pensione.
E non basta: anche il modo in cui Mario Draghi ha tenuto conto delle posizioni dei falchi all’interno del Consiglio direttivo, facendoli sentire come fossero relagati in un angolo, ha alimentato nel tempo il malcontento di alcuni, che ora sta affiorando, tanto più si avvicina il passaggio di testimone tra Draghi e Christine Lagarde alla presidenza della banca.
Il presidente della Bundebank Jens Weidmann (da quando è entrato nel Consiglio direttivo della Bce ha esternato le sue posizioni contrarie come per esempio sulle OMT del whatever-it-takes ), ha iniziato la polemica nei confronti delle posizioni delle colombe con un’intervista alla F.A.Z., sollevando in anticipo i dubbi sulla necessità di un forte nuovo pacchetto di stimoli alla vigilia della riunione del Consiglio direttivo del 12 settembre. Mario Draghi aveva pre-annunciato la mossa a Sintra. Agli inizi di settembre, anche il ceo di Deutsche bank Christian Sewing si spinge a sostenere che «nel lungo periodo, i bassi tassi di interesse rovinano il sistema finanziario».
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Il pacchetto Draghi è la goccia che fa traboccare il vaso
Il Consiglio direttivo tuttavia, con una decisione collegiale, decide il 12 settembre di annunciare il pacchetto Draghi, come proposto dal presidente: taglio dei tassi delle deposit facilities da -0,40% a -0,50%; avvio del QE2 e riapertura del programma di acquisti netti di attività (dal primo novembre al ritmo di 20 miliardi al mese senza scadenza prestabilita), condizioni più favorevoli per le banche dei prestiti a lungo termine mirati all’economia TLTRO III, il tiering per mitigare gli effetti collaterali dei tassi negativi, una forward guidance più ancorata all’andamento dell’inflazione sul medio termine. Il Consiglio è unanime sulla necessità di fare qualcosa: ma sul QE2, che non è andato al voto, sono contrari in sette: i governatori delle Banche centrali di Germania, Austria, Olanda, Francia, Estonia, e due membri del Board la tedesca Sabine Lautenschläger e il francese Benoît Cœuré.
In una dura intervista a Bild, subito dopo la decisione del Consiglio, Jens Weidmann bolla il pacchetto «eccessivamente ampio», sebbene il giornale tedesco abbia criticato aspramente il taglio dei tassi con un ritratto del presidente della Bce come «Conte Draghila».
In un insolito comunicato pubblicato sul sito della banca centrale olandese il giorno dopo il varo del pacchetto Draghi, il governatore Klaas Knot scrive che “questo ampio pacchetto di misure, in particolare il riavvio del Qe, e' sproporzionato rispetto alle attuali condizioni economiche e vi sono solide ragioni per dubitare della sua efficacia”.
A sorpresa, anche la Francia inizia a prendere le distanze da Draghi, in maniera eclatante. Si esprimono contro il QE2 Cœuré e il governatore della Banque de France Francois Villeroy de Galhau: in un discorso il 24 settembre alla Paris School of Economics, Villeroy critica la decisione della Bce di riavviare gli acquisti di bond, definanendola una mossa non necessaria in questo momento con i rendimenti e gli spread a lungo termine molto bassi.
Le critiche non si placano, anzi, montano.
Altra sorpresa: il membro del Comitato direttivo Sabine Lautenschläger, da tempo in disaccordo con Draghi, rassegna le dimissioni con due anni di anticipo: il 31 ottobre sarà il suo ultimo giorno nel Board.
E infine il ceo del gruppo assicurativo tedesco Allianz, Oliver Bate, in un'intervista al Financial Times, critica la politica monetaria della Banca centrale a guida Draghi. Non considera Draghi un banchiere centrale “indipendente” perchè stampa moneta quando non dovrebbe farlo, consentendo alla politica fiscale di stare a guardare. «Il motivo per cui non stiamo facendo riforme fiscali è perché stai rendendo facile per le persone spendere soldi che non hanno», ha sostenuto Bate, allargando la critica al nodo irrisolto dell’esposizione eccessiva al rischio sovrano da parte di molte banche e mettendo sul tavolo il rischio di una prossima crisi bancaria. Il dente avvelenato di Bate si può capire: il crollo dei rendimenti dei bond, asset a basso rischio che piacciono agli investitori istituzionali come le compagnie di assicurazione, sta mettendo sotto pressione la gestione dei prodotti vita con rendimento garantito al 2%-3%.
Mustier: trasferire i tassi negativi ai grandi clienti.
Sul tema è intervenuto anche il Ceo di Unicredit Jean Pierre Mustier, in qualità di presidente dell'Ebf, l'Abi delle banche europee. Per assicurare «la massima efficienza» alla politica monetaria della Bce, ha detto, «sarebbe estremamente importante che i tassi negativi non si fermassero nei bilanci bancari». «È importante che la Bce dica alle banche, “per favore passate i tassi negativi ai vostri clienti”, proteggendo naturalmente i piccoli clienti con depositi inferiori ai 100 mila euro».

Consip, il complotto contro i Renzi non esisteva: prosciolti i carabinieri Scafarto e Sessa. Cinque a giudizio: anche Lotti.

Consip, il complotto contro i Renzi non esisteva: prosciolti i carabinieri Scafarto e Sessa. Cinque a giudizio: anche Lotti

La procura di Roma aveva chiesto il rinvio a giudizio degli imputati il 14 dicembre scorso.
Il complotto contro la famiglia Renzi non esisteva. Quello che per bloccare le indagini sulla Centrale acquisti della pubblica amministrazione forse sì: sarà un processo stabilirlo. Sono i cinque i rinvii a giudizio decisi dal gup di Roma, Clementina Forleo, sul caso Consip. A processo l’ex ministro e attuale deputato del Pd, Luca Lotti, l’ex consigliere economico di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, l’ex comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, il generale Emanuele Saltalamacchia e Carlo Russo, l’imprenditore amico di Tiziano Renzi. Prosciolti, invece, il maggiore Gianpaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa. La procura di Roma aveva chiesto il rinvio a giudizio degli imputati il 14 dicembre scorso. Contestualmente anche una serie di archiviazioni erano state respinte: compresa quella del padre dell’ex premier. L’ufficio inquirente capitolino intende comunque impugnare davanti alla Corte d’Appello il proscioglimento di Scafarto e Sessa.
Le accuse a Luca Lotti – Il nome più noto che adesso dovrà affrontare un processo è ovviamente quello dell’ex sottosegretario di Matteo Renzi: gli inquirenti romani lo accusavano di favoreggiamento per aver rivelato l’inchiesta a Luigi Marroni, ex amministratore delegato dell’azienda che gestisce gli appalti pubblici. L’iscrizione nel registro degli indagati di Lotti – come rivelato da Marco Lillo sul Fatto Quotidiano – risale al 21 dicembre del 2016, il giorno dopo l’audizione, davanti agli inquirenti di Napoli, dello stesso Marroni, che aveva ammesso di aver saputo dal ministro dell’indagine aperta dalla procura partenopea. Il fascicolo passò subito a Roma per competenza e il 27 dicembre Lotti si presentò a Piazzale Clodio per essere sentito dagli investigatori. Poi il 14 luglio del 2017 era stato interrogato dai pm sostenendo la totale estraneità. La procura, però, quei fatti ha continuato a contestarglieli. Lo scorso 24 giugno l’ex ministro proprio al gup Forleo ha ribadito la sua versione: “Non sapevo dell’indagine. Non potevo riferire a Marroni ciò che non conoscevo”.
Le contestazioni a Saltalamacchia, Del Sette e Vannoni – Favoreggiamento è il reato contestato dalla procura anche il generale Emanuele Saltalamacchia: per l’accusa invitò Marroni a essere prudente perché la procura di Napoli stava indagando. Viene contestata invece la rivelazione di segreto d’ufficio al generale Tullio Del Sette che, stando alla procura di Roma, rivelò a Luigi Ferrara, presidente della Consip, l’inchiesta a carico dell’imprenditore di Alfredo Romeo. Sempre favoreggiamento – per aver avvertito Marroni – è il reato contestato a Filippo Vannoni, già presidente di Publiacqua Firenze ed ex consigliere di Palazzo Chigi ai tempi in cui il premier era Renzi. Questo era il capitolo delle cosiddette “soffiate” che nei fatti sabotarono l’inchiesta aperta dalla procura di Napoli sugli appalti Consip.
Il caso Scafarto e Sessa – L’ufficio inquirente all’epoca guidato da Giuseppe Pignatone, però, aveva chiesto il rinvio a giudizio anche di Scafarto, ex capitano del Noe dei carabinieri – poi promosso maggiore – per violazione di segreto, falso in atto pubblico e depistaggio: l’ultima accusa è contestata in concorso con Sessa. Secondo i pm Scafarto svelò al vicedirettore del Fatto Quotidiano, Marco Lillo, il contenuto delle dichiarazioni di Marroni e Ferrara agli inquirenti di Napoli e l’iscrizione di Del Sette, atto coperto da segreto. Al militare veniva contestato anche il falso relativo all’informativa in cui attribuiva la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” a Romeo. In realtà a pronunciare quella frase (senza che si riferisse a Tiziano Renzi) era stato l’ex parlamentare Italo Bocchino. Scafarto ha sempre ribadito di non aver “mai taroccato” alcuna informativa. Ma, stando all’accusa, nell’informativa aveva inserito anche il presunto coinvolgimento di “personaggi asseritamente appartenenti ai servizi segreti, ometteva scientemente informazioni ottenute a seguito delle indagini esperite”. Nell’informativa scrisse che aveva “il ragionevole sospetto di ricevere attenzioni da parte di qualche appartenente ai servizi”. Per gli inquirenti Scafarto aveva anche omesso una serie di particolari sull’auto e la targa del sospetto che in realtà risultava essere un cittadino italiano residente in zona. Anzi per la procura di Roma sarebbe stato proprio Scafarto a rivelare a ex carabinieri, ora in servizio all’Aise, l’indagine di Napoli. Sempre al militare, in concorso con Sessa, viene contestato il depistaggio per aver disinstallato whatsapp dallo smartphone del colonnello e impedire quindi agli inquirenti di ricostruire le loro conversazioni. Il gup però ha deciso di prosciogliere i due investigatori. Secondo il giudice da parte di Scafarto non ci fu l’alterazione di una informativa con l’obiettivo di arrestare Tiziano Renzi_ Si tratta di errore sicuramente involontario – afferma il giudice nella sentenza – presumibilmente dovuto a una omessa correzione dell’informativa al momento della sua ultima stesura a meno di non voler attribuire all’imputato comportamenti del tutto illogici e anzi ‘schizofrenici'”. Il passaggio dell’informativa finito agli atti dell’indagine è quello in cui la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” viene attribuita all’imprenditore napoletano, Alfredo Romeo, mentre a parlare è l’ex deputato di An Italo Bocchino. “Se Scafarto avesse comunque voluto ‘inchiodare’ Renzi – prosegue Forleo – avrebbe sicuramente avuto gioco facile nella correzione dell’errore che era stato da altri compiuto e non avrebbe ripetutamente sollecitato tutti i suoi collaboratori a risentire le conversazioni, a chiedere di eventuali incontri tra Tiziano e Romeo e soprattutto a invitare tutti i predetti a una rilettura dell’informativa, evidentemente finalizzata a scongiurare errori”.
Carlo Russo, il millantato credito e Tiziano Renzi – La procura contestava il millantato credito Russo, imprenditore amico di Tiziano Renzi. Il padre dell’ex premier era stato in un primo momento indagato per traffico di influenze e poi solo per millantato credito in concorso con lo stesso Russo nei confronti di Alfredo Romeo. Inoltre chi indaga è convinto che sia stato Tiziano Renzi a mettere in contatto Russo con Marroni, e che il padre dell’ex premier abbia effettivamente incontrato Alfredo Romeo nel 2015, a Firenze, in un periodo ritenuto, però, troppo lontano dai fatti in indagine.
Stando al capo di imputazione l’imprenditore si faceva promettere da Romeo, 100mila euro all’anno, “come prezzo della propria mediazione” nei confronti di Daniela Becchini, all’epoca dei fatti dg del patrimonio Inps, Silvio Gizzi, all’epoca amminstratore delegato di Grandi Stazioni rail, Monica Chittò, all’epoca sindaca del comune di Sesto San Giovanni e infine Marroni, ex ad di Consip. Stando alle indagini le mediazioni dovevano riguardare commesse e appalti. Russo, avrebbe millantato con l’imprenditore napoletano (per cui la Cassazione aveva annullato l’arresto per corruzione il 9 marzo) anche il tramite dell’attuale sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, per fargli ottenere un appalto indetto dal comune di Sesto. Era stato sempre Russo a “prospettare” a Romeo la mediazione – tramite Renzi senior – che doveva consistere nell’ottenere aggiudicazioni di appalti della Consip. Tutte mediazioni inesistenti, secondo gli investigatori. La procura però aveva chiesto l’archiviazione per “assenza di riscontri sull’ipotesi di reato” per il padre dell’ex premier anche se ritenuto “ampiamente inattendibile”.
Le richieste di archiviazione respinte – Il gip di Roma ha però respinto la richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi, l’ex parlamentare del Futuro e Libertà, Italo Bocchino, e dell’imprenditore napoletano, Alfredo Romeo, indagati per traffico di influenze. Quindi il giudice aveva fissato la camera di consiglio per il 14 ottobre anche per l’ex ad di Consip, Domenico Casalino, per l’ex dirigente Francesco Licci e per l’ex ad di Grandi Stazioni Silvio Gizzi, cui era inizialmente contestata la turbativa d’asta e anche per l’ex presidente di Consip, Luigi Ferrara, accusato di false dichiarazioni al pm. Il 3 marzo 2017 papà Renzi dichiarò di non aver “mai preso soldi”, che si trattava “di un evidente caso abuso di cognome”, di non aver mai incontrato Alfredo Romeo. Ma due anni dopo erano emersi nuovi elementi sull’incontro come scritto in esclusiva sul Fatto Quotidiano.

Salvini dalla Gruber, il pugile suonato s’è fregato da solo. - Antonio Padellaro

Salvini dalla Gruber, il pugile suonato s’è fregato da solo

Sembrava il pugile suonato de I Mostri di Dino Risi, Matteo Salvini l’altra sera da Lilli Gruber. Quello che più gli menavano e più diceva: “So’ contento!”. Con la differenza che l’Artemio Antinori del film era Vittorio Gassman mentre l’ex ministro degli Interni, stuntman di se stesso, è bollito di suo. Infatti, per quante botte prendesse l’Artemio Salvini di Otto e mezzo non si toglieva dalla faccia la fissità del sorriso beato. Forse una paresi facciale da trauma, forse il suggerimento dei geniali comunicatori al seguito: fai vedere che va tutto alla grandissima. C’è poco da scherzare il nuovo governo è figlio suo, picchiava Massimo Franco ricordando il suicidio politico dell’8 agosto. Con l’autunno la smetterà di fare comizi in braghette, infieriva Lilli. E lui festoso: “Omo de panza omo de sostanza”, e giù risate. Mancava solo il dialogo con Enea Guarnacci (Ugo Tognazzi): “me ricordo”, “vuoi magna?”, “me fa piacere”. Poi, l’uomo che voleva i pieni poteri alla domanda su come possa oggi ricoprire d’insulti Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, gli stessi con cui un tempo amoreggiava, si atteggia a vittima di un malefico inganno: “Ho sbagliato a fidarmi”.
Ora, se l’autore di questo diario si mettesse nei panni di un elettore leghista avrebbe tutte le ragioni per imbufalirsi con il fu Capitano. Ma come, hai fatto cadere un governo dove facevi i comodi tuoi con il bel risultato che oggi ti ritrovi a vegetare all’opposizione (noi con te) e hai fatto ’sto capolavoro perché ti sei fidato delle persone sbagliate? Ma che scusa del cavolo è? Tu eri il leader incontrastato di un partito che veleggiava verso il 40 per cento, oggi i sondaggi ti danno sotto il 30 per cento in costante calo, e ci vieni a raccontare che hai mandato tutto a puttane perché vittima di un complotto del cuore? Trattasi di gigantesca, evidente balla, aggravata dal fatto che in politica l’ingenuità è un peccato gravissimo, imperdonabile, spesso letale. Come se i troiani che si fidarono del famoso cavallo o Lord Chamberlain che diede retta a Hitler venissero oggi a piagnucolare in televisione sentendosi traditi nei sentimenti.
Davvero Salvini ritiene seriamente che fare politica consista nel continuare a ripetere la solfa dell’assalto giallorosso alle poltrone (abitudine conclamata di ogni governo), oppure denunciando il triplo degli sbarchi (in un quadro di immigrazione clandestina che resta sotto controllo)? Una ritrita propaganda elettorale che al più gli consentirà di vincere in Umbria il prossimo 27 ottobre, soprattutto per effetto dei casini giudiziari del Pd.
Al di là delle frasi rituali saremmo curiosi di sapere cosa ne pensano realmente di questo vuoto (a perdere) di politica i governatori leghisti del nord e le centinaia di amministratori locali verdi. Privi di un orizzonte che non può essere soltanto legato al successo (e non è detto) in future elezioni quando sarà. Certo, il prossimo 19 ottobre saranno tutti a Roma a fare la ola a Salvini. Ritrovandosi, smaltita la sbornia, con il solito interrogativo: circa un terzo degli italiani votano per noi, ma non sappiamo cosa farne visto che quelli al governo almeno per un po’ non li schioda nessuno. Un problema che riguarda anche il Conte Due, perché davanti a opposizioni forti e provviste di idee forti, i governi, in genere, si danno da fare e fanno quadrato: simul stabunt simul cadent. Ma se l’avversario è un pugile rintronato l’unica visibilità possibile è menarsi tra ministri, a colpi di merendine e crocifissi. Infatti.

Il Papa nomina l’ex procuratore di Roma Pignatone presidente del tribunale Vaticano.

Il Papa nomina l’ex procuratore di Roma Pignatone presidente del tribunale Vaticano

La nomina dell'esperto magistrato - in pensione dal maggio scorso - arriva nel day after dell'ultimo scandalo che ha sconvolto lo Stato Pontificio. Ieri cinque dirigenti vaticani sono stati sospesi a seguito dell’inchiesta sulle operazioni finanziarie illecite a San Pietro.
C’è un nome d’alto profilo che varcherà i confini dello Stato Pontificio per andare a presiedere il tribunale di Città del Vaticano. È quello di Giuseppe Pignatone, l’ex procuratore della Repubblica di Roma. Papa Francesco ha deciso di affidare al magistrato siciliano il posto del precedente presidente Giuseppe Dalla Torre. Una nomina che arriva nel day after dell’ultimo scandalo che ha sconvolto lo Stato Pontificio. Ieri cinque dirigenti vaticani sono stati sospesi a seguito dell’inchiesta sulle operazioni finanziarie illecite a San Pietro. Solo due giorni fa erano arrivati i sequestri effettuati dai pm della Santa Sede su documenti e apparati elettronici negli uffici della prima sezione della Segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione Finanziaria.
Ieri a essere sospesi dal Vaticano “cautelativamente dal servizio” sono due dirigenti apicali e tre dipendenti. Si tratta di monsignor Mauro Carlino, recentemente nominato da Papa Francesco capo ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato; Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità d’Informazione Finanziaria, genero dell’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, di cui ha sposato la figlia Valeria Maria; Vincenzo Mauriello, minutante dell’ufficio del protocollo della Segreteria di Stato; Fabrizio Tirabassi, minutante dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato; e Caterina Sansone, addetta di amministrazione della Segreteria di Stato.
È in questi giorni convulsi che in Vaticano arriva il magistrato che a Roma ha scoperto e portato a processo Mafia capitale “Cosa farò da domani? E chi lo sa? Di sicuro avrò tanto tempo a disposizione per leggere, ma non si escludono sorprese”, aveva detto Pignatone nell’ultimo giorno di lavoro prima di andare in pensione, l’8 maggio scorso. La fine di una carriera lunga 45 anni, dedicata alla lotta alla mafia: da Cosa nostra a Mafia capitale. In mezzo la condanna dell’ex governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, la svolta sul caso di Stefano Cucchi e la forte volontà di far luce sul sequestro e l’uccisione di Giulio Regeni in Egitto. Nato a Caltanissetta nel 1949, Pignatone entra in magistratura nel 1974: prima pretore nella sua città natale, poi sostituto procuratore a Palermo a partire dal 1977. Dove negli anni ’80 mette sotto inchiesta il sindaco Dc Vito Ciancimino, poi condannato per mafia a sette anni.

Franza o Spagna - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 3 Ottobre:

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Da quando esistono i 5Stelle, lo sport preferito dei giornaloni è annunciare “rivolte”, sommosse, fughe di massa, esodi biblici, fino alla morte sicura del Movimento, poi regolarmente rinviata a data causa bel tempo.

Certo, ogni tanto qualcuno se ne va, spontaneamente o spintaneamente. E chi rimane spesso mugugna a favore di telecamera. L’altro giorno abbiamo intervistato la senatrice Gelsomina Vono, passata senza fare un plissè dal M5S a Renzi perché lei è “oltre Di Maio”, ma già anche “oltre Renzi” e trova appetitose pure le idee di Salvini.

Franza o Spagna purché se magna, e lei di certo magnerà meglio, potendo finalmente tenersi lo stipendio intero. Vicenda doppiamente penosa: sia perché fu selezionata da Di Maio (come tutti i 5S all’uninominale) non tra gli iscritti, ma tra gli indipendenti della “società civile” (veniva dall’IdV); sia perché, essendo un’avvocata e non una scappata di casa, sapeva bene di candidarsi nel movimento più incompatibile col renzismo (schiforma costituzionale, giustizia, grandi opere, ambiente, politiche sociali).

Un po’ come il prode capitano Gregorio De Falco, altro indipendente eletto col M5S, poi passato al gruppo misto e firmatario ad agosto della mozione Sì Tav della Bonino, come se avesse scoperto solo allora che i 5Stelle sono No Tav.

O come Gianluigi Paragone, che scopre con alti lai la politica delle alleanze annunciata da Di Maio addirittura nel 2017 e non aveva mosso un sopracciglio nel 2018 quando fu offerto un contratto al Pd prima che alla Lega.

Per non parlare dei grillini che ora tuonano contro la piattaforma Rousseau, cui devono l’elezione. O contro il capo politico, come se lo eleggessero loro e non gli iscritti, che hanno plebiscitato Di Maio due volte in due anni. O contro le intese col Pd per il governo e per l’Umbria, come se la prima non fosse stata approvata all’unanimità dai gruppi parlamentari e dall’80% degli iscritti e la seconda dal 60%.

Chi scrive non s’è mai iscritto neppure a una bocciofila perché già fatica a rispettare il Codice penale e quello della strada, e non sopporta altre regole. Ma chi s’iscrive a una bocciofila, un club, un circolo, un movimento, un partito, ne accetta le regole. Se poi cambia idea, dovrebbe fare mea culpa sul proprio petto, non su quello altrui; e rinunciare ai soldi e ai privilegi che, grazie a quelle regole, ha accumulato.

C’è però una lezione anche per chi quelle regole le scrive. Si possono aprire le porte agli esponenti della società civile, poi si può minacciarli con tutte le multe perché non voltino gabbana. Ma resta un problema insormontabile: i candidati saranno sempre italiani.