domenica 30 agosto 2020

Assenteisti e fannulloni: un terzo dei parlamentari è a tempo perso. - Lorenzo Giarelli

Assenteisti e fannulloni: un terzo dei parlamentari è a tempo perso

Meno sono, più lavorano. C’è chi è mancato al 99% delle votazioni E l’attività legislativa si concentra su poco più del 10% degli eletti.
Quattordici lo frequentano da più di vent’anni. Pier Ferdinando Casini, il recordman in materia, ci ha messo piede per la prima volta il 12 luglio 1983. Altri ancora sono eletti, ma a votare in Aula vanno una volta su cento (e non per modo di dire). Tra le 945 storie che il Parlamento offre a ogni legislatura, anche questa volta non ne mancano di curiose, soprattutto perché l’alto numero di deputati e senatori difficilmente consente un controllo quotidiano sulla loro attività. Motivo per cui un taglio degli eletti, più che la deriva autoritaria paventata dal fronte del No al referendum potrebbe invece essere occasione per un utile snellimento. Basta guardare alcuni dati per scoprire come gran parte degli eletti passi il tempo altrove più che in Parlamento, come hanno notato anche Tito Boeri e Roberto Perotti su Repubblica: “Nella passata legislatura il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni; l’attività legislativa si è concentrata su poco più del 10% dei parlamentari che hanno sommato tra loro più di un incarico, mentre due terzi non hanno ricoperto alcun ruolo”.
Chi l’ha visti? In fuga dalle Camere.
I dati diffusi da OpenParlamento sulle presenze in Aula di deputati e senatori sono allarmanti. Le percentuali sono calcolate non sulle sedute, ma sul totale delle votazioni svolte da inizio legislatura. Alla Camera il primato tra gli assenteisti spetta a Michela Vittoria Brambilla (Forza Italia), che dal 2018 ha partecipato soltanto a 78 votazioni su 6.304. Risultato: il tasso di assenze è del 98,76%. Ci si avvicina Antonio Angelucci, dominus della sanità privata laziale che supera il 94%di assenze a Montecitorio. Più distante Vittorio Sgarbi, tornato in Parlamento dopo 12 anni ma senza far troppo l’abitudine all’Aula: OpenParlamento riporta un 79,52% di assenze alle votazioni. A Palazzo Madama le cose non vanno meglio. Senatori a vita a parte, la percentuale di assenze più alta ce l’ha Tommaso Cerno, eletto col Pd e di recente passato al Misto, mancato all’84,31% dei voti. Segue il forzista Niccolò Ghedini, il fedelissimo avvocato di Silvio Berlusconi assente nel 69% delle sedute analizzate.
Altro da fare Più poltrone per tutti.
D’altra parte, lo si è accennato, il tempo per fare il parlamentare è un lusso che non tutti hanno a disposizione. È ancora OpenPolis ad aver realizzato un’indagine sugli incarichi privati di ogni eletto, scoprendo che la maggior parte dei deputati e dei senatori, al momento dell’elezione, aveva un ruolo nel board di almeno un’azienda. Anche qui si arriva a casi estremi, come quello di Guido Della Frera, deputato di FI alla prima legislatura: al marzo 2018, quando è diventato parlamentare, Della Frera aveva 21 incarichi in aziende, oltre a partecipazioni in 8 imprese. Su tutte c’è il Gdf Group, holding attiva nell’immobiliare e nel settore alberghiero.
Notevoli anche i 16 incarichi censiti per Daniela Santanché, senatrice berlusconiana socia e presidente di Visibilia Editore, oltreché di imprese dell’edilizia e di prodotti bio. Poco sotto, nella classifica dei più attivi nelle imprese, c’è un altro forzista, il deputato Maurizio Carrara, con interessi nel manufatturiero e nell’immobiliare che al momento dell’elezione risultava consigliere di ben 14 società.
Trai più attivi negli altri partiti ci sono poi i leghisti Massimo Bitonci e Giulio Centemero (11 incarichi a testa), il 5 Stelle Michele Gubitosa (otto incarichi) e alcuni giallorosa dagli interessi ingombranti, come Andrea Marcucci (sette incarichi, tra cui quello del colosso farmaceutico Kedrion) e Matteo Colaninno (Italia Viva), presente in sette imprese e soprattutto nel gioiello di famiglia Immsi (nautica, meccanica e alberghi).
Tasso zero Leggi, mozioni e altre fatiche
Per capire quanto un parlamentare lavori i numeri non bastano. Possono però aiutare a farsene un’idea. Durante la scorsa legislatura OpenParlamento aveva elaborato un “indice di produttività” calcolato sulla base delle proposte di legge presentate, delle presenze, degli interventi e così via. Un metodo non scientifico – e la fondazione sta lavorando per migliorarlo, tanto che i dati su questa legislatura non sono disponibili – ma utile a far emergere storture.
Spulciando tra i dati aggiornati al 2018, si scopre che molti dei parlamentari con indice più basso sono stati rieletti. È il caso di Gianfranco Rotondi: chiuse la scorsa legislatura al 619 esimo posto tra i deputati più produttivi, con un indice di 29,33 ben lontano dalla primatista alla Camera, la dem Donatella Ferranti (1.752), ma anche dalla media degli eletti, che si assestava a 213.
Peggio avevano fatto il deputato leghista Carmelo Lo Monte (620esimo), con un indice di 26,8 nonostante il suo partito fosse il più attivo (media oltre i 400), e il forzista Alfredo Messina al Senato (305esimo; 26,63). Nulla però in confronto a Antonio Angelucci e Niccolò Ghedini, uno a Montecitorio e l’altro a Palazzo Madama: il primo, 623esimo per produttività, fermo a 0,78; il secondo, 311esimo su 315, a 0,94. A ogni modo non si tratta di casi isolati, se si pensa che il 90% dei gruppi alla Camera e l’83,33% di quelli al Senato ha la maggior parte dei membri che produce meno della media. A dimostrazione che in molti sono già esclusi, di fatto, dall’attività del Parlamento.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/08/30/assenteisti-e-fannulloni-un-terzo-dei-parlamentari-e-a-tempo-perso/5914665/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-08-30

“Vogliamo firmare contratti rivoluzionari”. E Carlo Bonomi spiega come: nessun aumento ai dipendenti, libertà di licenziare. - Mauro Del Corno

“Vogliamo firmare contratti rivoluzionari”. E Carlo Bonomi spiega come: nessun aumento ai dipendenti, libertà di licenziare

In una lettera alle associazioni confindustriali, il presidente degli industriali Carlo Bonomi torna su temi a lui più cari: più aiuti alle imprese, meno agli altri; niente soldi ma solo più welfare per i lavoratori e fine del blocco sui licenziamenti. Sulla diffusione dei contagi non ha dubbi: le fabbriche non c'entrano nulla.

Dopo tre interviste in tre giorni rilasciate dai vertici confindustriali su tre differenti grandi quotidiani, il presidente Carlo Bonomi denuncia, in una lettera interna destinata ai presidenti di tutte le associazioni del sistema, “intimidazioni alle imprese per indurle a tacere”. Torna insomma il tema del “sentimento anti imprese” che il leader degli industriali fiuta nell’aria ogni volta che mette piede oltre viale dell’Astronomia. La lettera tocca poi su molti dei punti toccati in questi giorni. Il primo, naturalmente, quello del rinnovo dei contratti collettivi. Dieci milioni di lavoratori italiani attendono infatti nuovi accordi visto che i precedenti sono scaduti, in alcuni casi da anni o decenni

“All’accusa che i leader sindacali hanno rivolto a Confindustria di non volere i contratti abbiamo risposto con chiarezza che Confindustria i contratti li vuole sottoscrivere e rinnovare. Solo che li vogliamo ‘rivoluzionarì”, scrive Bonomi in occasione dei suoi primi 100 giorni di presidenza. Nella lettera Bonomi specifica “contratti rivoluzionari rispetto al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari. Non perché siamo rivoluzionari noi, aggettivo che proprio non ci si addice, ma – spiega – perché nel frattempo è il lavoro e sono le tecnologie, i mercati e i prodotti, le modalità per produrli e distribuirli, ad essersi rivoluzionati, tutti e infinite volte rispetto a decenni fa”. Bonomi , in vista del tavolo con i sindacati del prossimo 7 settembre, indica quindi agli industriali che questa è una posizione da sostenere “con grande energia”, con “chiarezza e fermezza”, con “tutto l’equilibrio ma anche con tutta la risolutezza necessaria”. Una chiamata alle armi che mostra però già importanti defezioni.
No agli aumenti in busta paga – Sinora la linea Bonomi è stata quella di non accettare aumenti in busta paga poiché non c’è inflazione. Neppure per quelle categorie come dipendenti della sanità privata o dell’industria alimentare che hanno continuato a recarsi al lavoro durante tutta la pandemia. Al massimo qualche concessione in termini di welfare aziendale, tutti interventi con forti agevolazioni fiscali per le imprese. Una linea sconfessata peraltro apertamente da colossi come Barilla, Ferrero o Coca Cola Italia che hanno invece firmato il nuovo contratto collettivo dell’alimentare che prevede aumenti in busta paga (a regime, cioè dal 2023, 119 euro lordi in media al mese). I “ribelli” compariranno davanti al presidente il prossimo 9 settembre.
Oggi è stato anche annunciato che il 16 settembre sarà sciopero nazionale dei lavoratori della sanità privata che incroceranno le braccia in segno di protesta per “la mancata sottoscrizione definitiva, da parte delle controparti ovvero Aiop (Associazione italiana ospedalità privata che fa capo a Confindustria) e Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari), della preintesa raggiunta il 10 giugno scorso sul rinnovo del contratto”
Libertà di licenziare – La scelta del governo di estendere gli ammortizzatori sociali e vietare per legge i licenziamenti nel pieno dell’emergenza Covid “poteva essere giustificata”, ma “protrarla ad oltranza è un errore molto rischioso”, afferma ancora Bonomi nella sua missiva. “Più si protrae nel tempo il binomio ‘cig per tutti-no licenziamenti più gli effetti di questo congelamento” del lavoro “potrebbero essere pesanti, in termini sociali e per le imprese”, afferma. Per alcune, questa sorta di “anestesia” potrebbe significare “‘al risveglio l’avvio di procedure concorsuali”. Bonomi rilancia, invece, la necessità di una riforma delle politiche per il lavoro “profondamente diverse”, orientate verso politiche attive e non passive, già a cominciare dalla prossima legge di Bilancio. Una riforma “complessiva e di sistema”.
Giova ricordare che il blocco dei licenziamenti (il cui costo è stato sostenuto dalla fiscalità generale e non dalle imprese, attraverso la Cig Covid) è stato imposto dal governo nella speranza che nel frattempo l’economia iniziasse a dare segni di ripresa, limitando l’impatto occupazionale. Nel frattempo la valvola di sfogo delle aziende sono stati i contratti a termine quasi mai rinnovati una volta arrivati a scadenza.
I soldi devono andare solo alle imprese – Nella lettera ricompare un altro leitmotiv del Bonomi pensiero. Gli aiuti per superare la pandemia devono andare alle imprese, molto di più di quanto avvenuto sinora. Basta con i “sussidi a pioggia”, formula cara al presidente per indicare sostegni che vanno a persone e famiglie in difficoltà. “Se non saremo uniti negli obiettivi prioritari per cui ci battiamo, nel respingere le polemiche ed anche i tentativi di intimidirci, allora diventerà ancora più improbo il tentativo di trasformare l’Italia in quel Paese dell’innovazione permanente capace di accogliere e trattenere i nostri figli che, noi sappiamo, può e deve essere”.”Ci aspetta una stagione – scrive – in cui la demagogia rischia di essere la più fraudolenta delle seduzioni. E, al contempo, in cui il costo dell’incompetenza sopravanzerà per generazioni i benefici di chi oggi se ne avvantaggia”.
Belle parole che cozzano però con una realtà che vede le aziende private italiane tra le ultime in Europa per la quota di risorse destinate a ricerca, sviluppo e innovazione. Circa lo 0,5% del Pil, meno della metà rispetto a Francia o Germania. Ma certamente tutto sarebbe diverso se fosse stata accolta l’unica “rivoluzionaria” concreta proposta con cui Confindustria si è presentata agli Stati generali dello scorso giugno: restituiteci 3,4 miliardi di accise sull’energiaA Bonomi, che pochi giorni fa ha negato che Confindustria sia “un potere forte”, proprio non va giù che palazzo Chigi non esegua i desiderata degli industriali. E così ogni occasione è buona per randellare l’esecutivo: “I numerosi interventi specifici, i bonus frammentati e i nuovi fondi accesi presso ogni ministero, non sono stati certo la risposta articolata ed efficace che ci aspettavamo”. E ancora: politiche attive del lavoro “non possono essere attuate con il Reddito di cittadinanza“, la cui attuale configurazione va “smontata”, sostiene Bonomi. Bisogna “superare i limiti” dell’attuale sistema delle politiche del lavoro, puntando tra l’altro su formazione e riqualificazione professionale, ricollocazione e reimpiego, sottolinea inoltre il presidente di Confindustria facendo riferimento alla proposta di riforma “complessiva”, in dieci punti, inviata a metà luglio al governo e ai sindacati.
I contagi? Colpa solo degli altri – I panni sporchi si lavano in casa. La lettera interna avrebbe potuto fare un qualche accenno all‘uso indebito della Cig Covid attuato da alcune aziende o magari qualche accenno di autocritica sui contagi in fabbrica che continuano a registrarsi nelle fabbriche. Niente di tutto ciò. Anzi, Bonomi liquida come un “falso assoluto” la critica alle imprese di “aver osteggiato la chiusura di alcune aree del Paese a fronte della diffusione del Covid-19″. Il presidente di Confindustria non lesina però bacchettate tutti gli altri. “Sulle misure di sicurezza anti-Covid ancora non ci siamo”, scrive. E sottolinea: “Che il tema dopo tanti mesi sia purtroppo ancora irrisolto lo testimoniano due vicende in corso”. Si sofferma quindi sulle “profonde incertezze sulla riapertura delle scuole a settembre, che al di là del bando su 2,4 milioni di banchi a rotelle identificati come priorità ancora non vedono una risposta precisa alla domanda centrale: che cosa avverrà negli istituti in presenza di contagi?” C’è poi il tema per i presidi, come si era posto per gli imprenditori riguardo agli ambienti di lavoro, “dello scudo rispetto alla responsabilità penale in caso di contagi”. Bonomi sottolinea inoltre “l’esperienza dei mancati controlli e tamponi di massa al rientro dalle vacanze in Paesi posti dal Governo nella lista dei controlli obbligati”. E come “altra conferma” aggiunge “l’insuccesso della app Immuni”.

Fàmolo strano. - Marco Travaglio

Verdone matrimonio film - Famolo strano - Cesare Lanza
Posto che, secondo Flaiano, in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco, resta da capire che forma abbia il cervello di Prodi. Che ne abbia in abbondanza lo si desume, tra l’altro, dalle dimensioni della testa che lo contiene. Ma ciò che affascina, alla luce dei motivi da lui addotti per votare No al taglio dei parlamentari, è la conformazione. Il quesito referendario è semplicissimo, così come la riforma in ballo: siete favorevoli alla legge costituzionale votata quattro volte dalle due Camere con maggioranza oceaniche che riduce i deputati da 645 a 400 e i senatori da 315 a 200? Chi vota Sì ritiene che i parlamentari siano troppi e chi vota No che siano troppo pochi o perfetti. I partiti, i giornali e il mondo giuridico sono affollatissimi di voltagabbana in malafede che predicavano il taglio fino all’istante in cui non l’hanno ottenuto i 5Stelle: poi son diventati contrarissimi, regalando agli odiati “grillini” l’esclusiva della probabile vittoria del Sì e un’ottima copertura per la sicura sconfitta alle Regionali. Ma Prodi è di un’altra categoria, ancor più bizzarra e indecifrabile: quella dei coerenti nell’incoerenza. Spiega infatti sul Messaggero: “Pur riconoscendo che, dal punto di vista funzionale, il numero dei parlamentari sia eccessivo, penso che sarebbe più utile al Paese un voto negativo, per evitare che si pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari costituisca una riforma così importante per cui non ne debbano seguire altre ben più decisive”. Cioè: gli eletti sono troppi, ma lui vota No perché se vince il Sì, che condivide, qualcuno penserà (chi? perché? maddeché?) che questa riforma meno importante sia così importante da impedirne altre più importanti.
Lo sragionamento ricorda il “famolo strano” di Verdone e fa il paio con quello che nel 2016 portò Prodi a dire Sì alla schiforma Renzi anche se non la condivideva: “Le riforme proposte non hanno la profondità e la chiarezza necessarie, tuttavia per la mia storia personale e le possibili conseguenze sull’esterno, sento di dovere rendere pubblico il mio Sì, nella speranza che giovi al rafforzamento delle regole democratiche soprattutto attraverso la riforma elettorale” (non oggetto del referendum). La riforma era una “modesta” ciofeca, ma bisognava accontentarsi: “Meglio succhiare un osso che un bastone”. Quindi: quattro anni fa Prodi votò Sì a una legge che non gli piaceva perché ne avrebbe innescate altre che gli sarebbero piaciute; oggi vota No a una legge che gli piace perché ne impedirebbe altre che gli piacerebbero. Fila, no? Sì, se si esclude un cervello a linea retta. Restano l’ondulata, la spezzata e l’intrecciata. Ma, in attesa di una bella Tac, propenderei per la spirale. O la serpentina.

La riforma: ecco come sarà il fisco del futuro. - Luciano Cerasa

La riforma: ecco come sarà il fisco del futuro

Calcolare al centesimo le imposte da pagare con un click e fare la denuncia dei redditi in pochi secondi con una App, grazie a un sistema di tassazione equo e a prova di evasione. Rispetto al ginepraio di norme in cui i contribuenti italiani e un esercito di consulenti sono costretti oggi a districarsi per adempiere agli obblighi fiscali, per altro con scarsi risultati per l’Erario, sembra un sogno molto difficile da realizzare. Ma pare che al ministero dell’Economia stiano cominciando a crederci veramente, confortati dalle analisi dei principali centri studi in materia fiscale che ruotano nell’area di governo. E che confermano: i tedeschi lo fanno e con qualche aggiustamento può funzionare anche da noi.
“Per il 2021 lavoriamo sulla riduzione delle tasse, prevedendo il calo dell’Irpef e apprezzo il modello tedesco, progressivo e con aliquota continua”, conferma a un quotidiano il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Anche se aggiunge subito che “niente è deciso”. La cautela del politico è d’obbligo, visto che all’interno della maggioranza sono ancora in molti i sostenitori di un semplice accorpamento o di una riduzione del livello delle attuali aliquote, con l’obiettivo minimale di ridurre la pressione tributaria sulla fascia media della piramide dei contribuenti, quella che risulta la più tartassata. Tuttavia il fascino esercitato sui cultori della materia dalla semplicità di applicazione e dalla concretezza dei risultati raggiunti dalla macchina teutonica ha messo in movimento da tempo intorno ai tavoli del Mef esperti e simulazioni.
L’algoritmoUn sistema che segue i redditi, l’anti-flat.
Il segreto è tutto nella messa a punto di un piccolo algoritmo che serve a calcolare in maniera puntuale, contribuente per contribuente, l’imposta dovuta, moltiplicando l’aliquota media per il reddito imponibile. Le aliquote partono praticamente da zero e crescono linearmente per piccoli incrementi percentuali costanti del reddito. La funzione continua applicata è analoga a una struttura a scaglioni con numerose aliquote, una dozzina o più, e costituisce un’alternativa radicale alle tendenze che propongono al contrario riduzioni del numero di scaglioni, fino ad arrivare alla flat tax.
Il vantaggio più evidente, dal punto di vista dell’equità, è che non vi sarebbe più la grande distanza di trattamento tra contribuenti che ricadono per pochi euro in uno scaglione di reddito o nel successivo come nel sistema attuale. Un meccanismo che spinge in molti casi a dichiarare quanto basta per evitare salti di aliquote. In alcune simulazioni, che non tengono conto della no tax area (redditi annuali fino a 8.174 euro quest’anno), a mille euro di reddito l’aliquota media ammonterebbe all’1% per raggiungere il 38,7% a 100mila.
Ipotesi: L’assegno al posto delle “tax expenditures”.
Il mix di detrazioni e deduzioni è l’altro grande fattore decisivo, politico ed economico, che determina la pressione fiscale su ogni singolo contribuente. Il ministero sta studiando un riordino e una razionalizzazione delle cosiddette “tax expenditures”, le centinaia di agevolazioni fiscali che vengono spesso concesse per motivi di scambio elettorale ma che aprono una voragine nelle entrate dello Stato. È allo studio l’idea di accorpare le risorse e sostituire al meccanismo delle detrazioni fiscali i trasferimenti diretti in denaro, come l’assegno unico per le famiglie. In questo modo godrebbero totalmente del sostegno economico dello Stato anche gli incapienti (i contribuenti che non hanno imposte sufficienti da compensare con le detrazioni e le deduzioni) e si renderebbe il sistema fiscale neutro rispetto all’assistenza sociale. Rimangono in piedi in tutte le consuete detrazioni principali per lavoro dipendente, autonomo e pensionati.
Le proposte di Nens e Astrid: usare ancora le detrazioni.
In un’elaborazione del Nens, il centro studi presieduto dall’ex ministro Vincenzo Visco, accanto alla funzione continua si propone una detrazione fissa rimborsabile per i lavoratori dipendenti di 1.800 euro e per i pensionati di 800 che consente di elevare da 8.100 a 8.300 il limite dell’imposta nulla. Successivamente fino a 75mila euro di reddito vi sarebbero guadagni per i pensionati che arriverebbero a superare i mille euro; dopo i 75.000 cominciano delle perdite ma con percentuali molto limitate. Per quanto riguarda gli autonomi (una volta che siano rientrati tutti nell’imposta personale), una detrazione di 500 euro consentirebbe di estendere il limite dell’imposta nulla da 4.800 a 6.500. Fino a oltre 60mila euro i guadagni arriverebbero a oltre i 700 euro. Nell’elaborazione del Nens si propone una stessa struttura di aliquote per tutti e differenziazione per detrazioni.
Nella proposta della fondazione Astrid, presieduta da Franco Bassanini, si formula invece un sistema a tre funzioni per dipendenti, pensionati e autonomi. Lo scopo è di sgombrare dal tavolo il sistema delle detrazioni che sono oggetto di una continua contrattazione con le organizzazioni di categoria. Ma anche la soluzione delle tre diverse funzioni non sembra risolvere il problema di eliminare le occasioni di controversia. Infatti tra le categorie si prevedono coefficienti diversi e soprattutto diverse soglie d’inizio della tassazione. Insomma, per una riforma funzionale e condivisa serve ancora confronto.
La simulazione Lef: la tabella accanto.
A fornire un quadro estremamente positivo dei possibili effettivi dell’applicazione della funzione continua delle aliquote medie alla struttura dell’Irpef arrivano le tabelle elaborate dal centro studi di Lef, l’associazione per l’equità e la legalità fiscale. I presupposti su cui sono basati i calcoli è un’esenzione totale fino a 8.145 euro di reddito e un’aliquota progressiva a partire dal 15% fino al 41% in corrispondenza di un reddito di 80mila euro. Se si mettono a confronto l’imposta calcolata col vecchio e il nuovo sistema emerge un risparmio tra i 1.873 e i 2.513 euro per i redditi compresi tra gli 8.145 euro e i 20mila euro. La riduzione maggiore dell’imposta lorda si ha per i redditi medi che, non godendo appieno delle agevolazioni sono i più svantaggiati, mentre per i redditi medio-alti l’inversione della curva dei risparmi scatta a 72.500 euro, con una perdita di 244 euro che si stabilizza a 781 fino a 350mila euro di imponibile.
L’incasso dell’imposta lorda dichiarata con l’aliquota progressiva prevista dalla proposta Lef è stimabile attorno ai 146 miliardi. Si avrebbe, pertanto, una riduzione di quella attualmente dichiarata di 74 miliardi. Tuttavia a seguito dell’eccezionale numero di detrazioni e crediti esistenti – fanno notare i ricercatori di Lef – l’imposta netta, quella che effettivamente paga il contribuente con le attuali regole dell’Irpef, risulta pari a 145 miliardi, tenendo conto anche delle ultime agevolazioni concesse con l’ultima finanziaria.
“Questi valori – si legge nello studio firmato da Lelio Violetti – mostrano che la strada dell’aliquota progressiva può esser seguita non solo per ridurre in modo equo e razionale il prelievo dell’imposta personale ma è compatibile finanziariamente con l’esigenza di ridurre drasticamente le agevolazioni al fine di semplificare il calcolo dell’imposta”.

sabato 29 agosto 2020

La curva dei contagi cresce ma i morti diminuiscono. Ecco perché. - Barbara Gobbi

Ospedali veneti: meno letti, più reti / Società e Politica / Home - La Vita  del Popolo di Treviso

Bassetti (direttore clinica malattie infettive al San Martino di Genova): «Siamo più bravi a gestire i casi e la percentuale di positività che troviamo nei tamponi arriva oggi al massimo al 2,5%, ben lontana dal 30% di fine marzo»


Da un lato la curva dei contagi che ha ripreso a salire da ormai 4 settimane, dall'altro i dati degli ospedali che fotografano una situazione del tutto sotto controllo. Con i ricoveri più difficili – cartina di tornasole nei mesi clou dell'epidemia quando l'Italia intera attendeva con il fiato sospeso il bollettino delle 18 della Protezione civile – finalmente tornati alla normalità in tutto il Paese.

Il coronavirus è cambiato? «È un fatto che si muore di meno: le terapie intensive oggi da Nord a Sud totalizzano una 70ina di ricoveri, quanti ne faceva il reparto Covid del mio ospedale quando l'epidemia era al massimo. Numeri che come clinici non prendiamo neanche in considerazione dal punto di vista della gestione sanitaria».

«Il virus ha le armi spuntate rispetto a sei mesi fa.»
A parlare è Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova. Che spiega perché, malgrado sia assolutamente necessario mantenere alta l'attenzione per proteggere le persone più fragili, il virus Sars-CoV-2 ha le armi spuntate rispetto a sei mesi fa.

«Perché si muore di meno? Intanto – avvisa Bassetti - grazie all'esperienza sul campo che proprio qui in Italia abbiamo fatto, siamo più bravi a gestire i casi: anche quando in corsia ne arriva uno più impegnativo il sistema è ormai rodato e applica precisi protocolli di trattamento: sappiamo come, quando e in che dosi dare l'ossigeno o il cortisone.

E grazie agli ospedali periferici che tendono a centralizzare, l'assistenza è ottimizzata».Ma è anche il virus, secondo l'esperto, a essere meno “cattivo”, e non solo grazie all'età dei contagiati scesa sotto i 30 anni secondo l'ultimo report dell'Istituto superiore di sanità. «I giovani – avvisa ancora Bassetti -: li scoviamo grazie a un'attività di ‘tracing' senza precedenti che sfiora i 100mila tamponi al giorno e sono in genere asintomatici o poco sintomatici. Se non li testassimo, non saprebbero nemmeno di avere il virus. In ogni caso anche la percentuale di positività arriva oggi al massimo al 2,5%, ben lontana dal 30% di fine marzo, quando su tre tamponi uno era positivo. E con sintomi spesso e volentieri ben diversi: oggi il 90% dei casi non mostra segni di malattia».

In questa fase dell'epidemia negli ospedali continuano ad arrivare persone dai 55 anni in su, come a inizio emergenza – da questo punto di vista non ci sono cambiamenti – ma colpite in maniera diversa: il virus, come hanno dimostrato diversi lavori in letteratura, incluso l'ultimo condotto dal gruppo di Robert Gallo e a cui ha partecipato l'epidemiologo Massimo Ciccozzi del Campus Biomedico di Roma ha perso qualche fattore di virulenza, a vantaggio di noi che l'ospitiamo.«E gli ospiti – aggiunge Bassetti – sono in ogni caso più pronti e protetti: un nostro lavoro appena pubblicato sul Journal of Clinical Medicine e condotto su 3.500 persone che si sono sottoposte al test sierologico tra marzo e maggio in Liguria e in Lombardia, escluse le aree ad alta endemia, fotografa una prevalenza dell'11% su una popolazione di 12-13 milioni di abitanti. Cioè in quelle aree potenzialmente c'è già 1 milione di persone che ha “fatto” il virus e prodotto anticorpi. Solo a Savona, il 25% della popolazione risulta protetto e cioè ha sviluppato resistenza al Covid”.

https://www.ilsole24ore.com/art/la-curva-contagi-cresce-ma-morti-diminuiscono-ecco-perche-ADXQzil

Speranza: 'Superticket abolito e nessuno lo pagherà più'.

Speranza,dati internazionali Covid ancora preoccupanti ©

"Ogni volta che una persona non si cura come dovrebbe per motivi economici siamo dinanzi a una sconfitta per tutti noi e a una violazione della Costituzione. Per questo a dicembre abbiamo approvato la norma che entra in vigore dal primo settembre. Il Superticket è abolito e nessuno lo pagherà più". Lo scrive il ministro della Salute, Roberto Speranza su Facebook in cui posta un'immagine con una croce sull'impegnativa. Si tratta dei 10 euro che i pazienti pagano su ogni ricetta per prestazioni diagnostiche e specialistiche.

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/08/29/speranza-superticket-abolito-e-nessuno-lo-paghera-piu_a7704cab-e912-4a3b-ac7e-aabd8b09bec5.html

Il taglio dei pagliacci. - Marco Travaglio

Parlamento, il lungo ponte tra le festività. E il Senato batte la Camera -  la Repubblica

Dunque, ricapitolando. L’Innominabile, che anziché abolire il Senato voleva abolire le elezioni per il Senato e definiva “ridicolo avere 945 parlamentari” perché “la riduzione del numero dei politici è la priorità per essere credibili”, lascia libertà di voto ai suoi eventuali elettori sulla riduzione dei politici perché, siccome non l’ha fatta lui, “è solo uno spot”. Repubblica, che nel 2016 sponsorizzava la sua boiata, ora guida il fronte del No raccontando frottole, e cioè che col Sì l’Italia finirebbe “ultima nella Ue per rappresentanza”, con “la più bassa percentuale nel rapporto tra eletti ed elettori”. E, per dimostrare il falso, calcola solo gli “eletti” alla Camera, cioè i deputati (che scendono da 630 a 400), e dimentica i senatori (da 315 a 200), anch’essi “eletti” diversamente dai membri nominati delle Camere alte degli altri Paesi. Calcolando tutti e 600 i parlamentari, l’Italia rimane il grande paese Ue col più alto numero di eletti in rapporto agli elettori. Ma a questi mezzucci devono ricorrere quelli del No per non confessare il loro vero movente: dar torto ai 5Stelle anche quando hanno ragione, a costo di rinnegare ciò che avevano sempre detto e pensato.
A pag. 7 troverete lo strepitoso caso di un pesce di nome Zanda, senatore Pd e presidente della fondazione di De Benedetti che edita il Domani, e della degna compare Anna Finocchiaro, ex senatrice e neoeditorialista di Repubblica. Zanda vota No perché mancano “i contrappesi assolutamente necessari per il funzionamento del sistema” e prima “vanno modificati i regolamenti parlamentari e la platea che elegge il presidente della Repubblica”. La Finocchiaro fa campagna per il No perché “si fa un taglio lineare pensando che le Camere possano funzionare con 400 deputati e 200 senatori, ma così il sistema parlamentare non può funzionare” e poi “la Costituzione non è un take away da cui puoi prendere quello che ti piace e cambiare quello che non ti piace. È un sistema delicato, sofisticato, fatto di pesi, contrappesi”. Ora, nel 2008, i due bei tomi furono i primi firmatari di un ddl costituzionale identico a quello che voteremo il 20 settembre: cambiava due soli articoli della Carta, il 56 e il 57, per un taglio lineare dei deputati (da 630 a 400) e dei senatori (da 315 a 200). Cambiava solo il partito proponente: Pd anziché M5S. E i contrappesi? E i regolamenti? E la platea? E la rappresentanza? E la funzionalità? E il take away? Niente di niente. Quand’erano loro a chiedere 600 eletti, il Parlamento avrebbe funzionato come un orologio svizzero: ora invece sarà l’apocalisse. Però dài, su col morale: se vince il Sì, non solo avremo il 36,5% di parlamentari in meno. Ma anche il 36,5% di speranze in più di non rivedere certi pagliacci in Parlamento.