giovedì 23 settembre 2021

Trattativa, la lettera di Mangano alla moglie: “Parlò di Berlusconi”. - Saul Caia

 

Oggi è il giorno del giudizio: nel primo pomeriggio, i giudici della Corte di assise di appello di Palermo emetteranno la sentenza di secondo grado del processo Trattativa Stato-mafia. Nel frattempo emergono nuove circostanze: come i telegrammi inviati dal boss Vittorio Mangano nel 1996 mentre era detenuto. E in uno di questi “è presente un riferimento” a Silvio Berlusconi. È quanto risulta dagli ultimi atti depositato dall’accusa a processo. Per capirne la portata però bisogna rimettere in fila i pezzi, partendo proprio da ciò che emerso durante il dibattimento. Ma procediamo con ordine.

Con l’accusa di minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, sono finiti imputati: il co-fondatore di Forza Italia ed ex senatore, Marcello Dell’Utri e gli ufficiali dell’Arma Mario Mori e Antonio Subranni (condannati tutti a 12 anni in primo grado), l’ex colonnello Giuseppe De Donno (8 anni) e i boss Nino Cinà (12 anni) e Leoluca Bagarella (28 anni). Avrebbero turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati.

Dell’Utri il ruolo di “mediatore”.

La Procura generale di Palermo contesta a Dell’Utri un ruolo di ‘mediatore’ tra Stato e mafia, nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia del 1994. Nella sentenza di primo grado, infatti, è spiegato che Dell’Utri avrebbe incontrato Vittorio Mangano due volte, nel 1994, per parlare delle modifiche legislative alle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al neonato governo Berlusconi. Dell’Utri – secondo le accuse – percepì i messaggi di Mangano come minacce e le riferì al presidente del Consiglio, che venne “a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”.

Mangano però, oltre a essere il boss di Porta Nuova, era stato anche lo “stalliere” della villa San Martino di Arcore, residenza della famiglia Berlusconi, tra il 1973 e il 1975, per poi finire in arresto nell’aprile 1995 dopo alcuni anni di latitanza, con l’accusa di omicidio.

Nella requisitoria del sostituto procuratore generale Giuseppe Fici vengono citate le dichiarazioni rese in aula il 19 settembre 2019 dal collaboratore di giustizia Francesco Squillaci, uomo d’onore della famiglia Ercolano-Santapaola. “Cosa Nostra diede il messaggio di votare Forza Italia, perché Berlusconi, letteralmente, poteva aggiustare la giustizia in Italia – dice Fici –, Squillaci indica nel decreto Biondi (Alfredo, ndr) del ’94, il cosiddetto salva-ladri, il primo segnale in questa direzione. Riferisce inoltre che nel 1995 il padre (Giuseppe, ndr), come ebbe a dirgli, fu detenuto insieme a Vittorio Mangano e che costui in quel periodo scriveva spesso telegrammi a Berlusconi, circostanza questa riscontrata in atti, Mangano disse a suo padre che Berlusconi era la persona giusta che poteva aiutare la mafia”.

La difesa dell’ex senatore Tesi senza riscontri.

Per Francesco Centonze, avvocato dell’ex senatore, la tesi non avrebbe riscontri: “Alcuni collaboratori dicono che c’è stata un’indicazione della mafia a votare Forza Italia, ma nessun riferimento a Dell’Utri. Non c’è nulla sul presunto incontro tra Vittorio Mangano e il senatore”. Poi in aula, durante le controrepliche, il pg Fici afferma: “C’è una relazione di servizio della direzione del carcere di Porto Azzurro, dove si fa riferimento alla documentazione che è stata tenuta, ma non anche i telegrammi bloccati all’indirizzo di Berlusconi. Non vi è traccia di questi telegrammi, vi è traccia di documentazione a un onorevole di Forza Italia e alla moglie in cui in uno di questi si fa riferimento a Berlusconi, ma nient’altro”.

I telegrammi di cui parla il pg sono quelli inviati da Mangano nel 1996 durante la detenzione nel carcere di Pisa. Uno risale al 26 febbraio 1996. In questo caso – come scritto nella nota della casa circondariale di Porto Azzurro – Mangano ha “richiesto di inviare una lettera ESPRESSO alla propria moglie”, Marianna Imbrociano. Questo telegramma è l’“unico manoscritto ove è presente un riferimento all’onorevole Silvio Berlusconi”. Il contenuto di quella lettera è sconosciuto: non sappiamo che riferimenti abbia fatto Mangano su Berlusconi e perché li abbia indirizzati alla consorte. Questo telegramma, come altri due, non è agli atti. C’è solo la richiesta formulata dalla procura generale al ministero di Giustizia e al Dap, e la conseguente risposta degli uffici del comando della polizia penitenziaria di Porto Azzurro.

Prima del telegramma del 26 febbraio, Mangano ne ha inviati altri due. Risalgono al 22 febbraio 1996: “Il primo indirizzato – si legge negli atti depositati dall’accusa – all’onorevole Pietro Di Muccio (all’epoca facente parte di Forza Italia), e il secondo indirizzato alla moglie, dei quali si sconosce l’eventuale inoltro”. Questi altri due telegrammi dunque non sono indirizzati a Berlusconi, come diceva Squillaci, e inoltre – come invece scritto nel documento della casa circondariale – non presentano “nessun riferimento” all’ex premier.

L’onorevole forzista.
La visita in carcere nel 1995.

Pietro Di Muccio (completamente estraneo al processo) è stato vicepresidente vicario del gruppo Forza Italia e anche componente della Commissione Affari costituzionali. Perché Mangano abbia scritto proprio a Di Muccio non lo sappiamo, e non sappiamo nemmeno il contenuto del messaggio, visto che non è presente agli atti. È certo, però, che l’1 novembre 1995, quattro mesi prima del telegramma, il deputato forzista, insieme al collega di partito Giorgio Stracquadanio, si recò nel carcere di Pianosa, dove era detenuto Mangano. A Radio Radicale (18 febbraio 1996), Stracquadanio spiega come andarono le cose: “Siamo andati nell’isola, abbiamo visitato tutta la struttura penitenziaria, abbiamo parlato con tutti i detenuti di tutte le sezioni, e abbiamo ricevuto notizie sul loro stato di salute e sulla loro condizione di detenzione. Nessun’altra domanda è stata fatta”. L’episodio è citato anche nella relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere legata alla richiesta del Tribunale di Palermo che nel marzo 1999 aveva chiesto l’arresto di Dell’Utri. “Sulla vicenda del trasferimento di Mangano Vittorio dal carcere di Pianosa – si legge nella relazione – il gip riferisce che l’11 novembre 1995 il deputato Pietro Di Muccio di Forza Italia, in visita a Pianosa, colloquiò con il Mangano e che il direttore di Pianosa, dottor Pier Paolo D’Andria, ha prima negato (‘non ha avuto colloqui’) e poi con altri fax precisato che il medesimo ‘ha avuto contatto’ con il detenuto”.

ILFQ

Trattativa Stato-mafia, l’Appello atteso nel pomeriggio. Bis delle condanne, assoluzioni, una sentenza “mista”: le opzioni dei giudici. - Giuseppe Pipitone

 

Dopo tre giorni di camera di consiglio, la corte d'Assise d'Appello di Palermo emetterà la sentenza di secondo grado per Mori, De Donno, Subranni, Dell'Utri, Cinà e Bagarella. Essenzialmente le ipotesi sono tre. La prima è quella chiesta dalla pubblica accusa, cioè la conferma delle condanne di primo grado. Poi c'è l'opzione delle assoluzioni, chiesta dalle difese. Infine decisioni diverse per i due segmenti della vicenda ricostruita in quasi 10 anni di processi.

Il quesito fondamentale non è se una trattativa ci fu. A questa domanda hanno già risposto, peraltro affermativamente, magistrati di altri processi. Il reato di trattativa, però, non esiste. Neanche quando a negoziare con Cosa nostra sono uomini dello Stato. Per questo motivo la domanda fondamentale alla quale dovranno rispondere i giudici della corte d’Assise d’Appello di Palermo è un’altra: tre alti ufficiali dei carabinieri e lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi agirono in combutta con i mafiosi, diventando di fatto i portatori delle minacce dei bossMario MoriAntonio Subranni e Giuseppe De Donno prima, Marcello Dell’Utri poi, furono la “cinghia di trasmissione” del ricatto di Cosa nostra fino al cuore dello Stato, negli anni delle bombe e delle stragi?

La sentenza attesa a partire dalle 15 – Il presidente Angelo Pellino, il giudice a latere Vittorio Anania e i sei giudici popolari ci stanno riflettendo da tre giorni. Nella tarda mattinata del 20 settembre sono entrati in camera di consiglio e ne usciranno nel pomeriggio di oggi, quando compariranno all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo per emettere la sentenza del processo d’Appello sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e le istituzioni. Dall’inizio delle indagini sono trascorsi dodici anni, nove dalla prima udienza preliminare, mentre il 20 aprile del 2018, la corte d’Assise aveva condannato quasi tutti gli imputati per violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mori e Subranni, stessa pena per Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina che fece da “postino” al papello, le richieste del capo dei capi per fare cessare le stragiOtto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.

Una sentenza, tre ipotesi – Ora, a quasi due anni e mezzo dall’inizio del processo d’Appello, tocca ai giudici di secondo grado esprimersi. Davanti hanno essenzialmente tre strade, tutte molto complicate. La prima è quella chiesta dalla pubblica accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera: confermare in blocco tutte le condanne del primo grado. In questo caso i giudici dovrebbero basarsi sulle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza della corte d’Assise. Che, però, vanno giudicate alla luce delle varie altre prove prodotte, sia dall’accusa che dalla difesa, durante l’Appello. Il processo di secondo grado, infatti, ha visto riaprire l’istruttoria dibattimentale su richiesta della stessa pubblica accusa. Sono stati approfonditi alcuni temi, rimasti sullo sfondo della sentenza di primo grado, come il ruolo della Falange Armata, l’oscura sigla che rivendicava stragi e attentati in tutta Italia nei primi anni ’90. Nel frattempo è diventata definitiva l’assoluzione di Calogero Mannino. Secondo la ricostruzione della procura di Palermo, poi sposata dalla procura generale e pure dai giudici del primo grado, l’ex ministro della Dc è l’uomo che nella primavera del 1992 ha dato l’input ai carabinieri del Ros di aprire la trattativa con Cosa nostra. Timoroso di finire vittima della furia vendicatrice di Riina, imbufalito coi “vecchi” referenti politici incapaci di cancellare le condanne del Maxi processo, Mannino avrebbe chiesto a Subranni di aprire un canale con la piovra. A quel punto i carabinieri “agganciano” Vito Ciancimino: sarebbe praticamente il prequel della Trattativa.

Il bis delle condanne e l’assoluzione di Mannino – I condizionali, a questo punto, sono obbligatori. Dopo aver scelto di farsi processare col rito abbreviato, infatti, l’ex esponente della Dc è stato assolto in primo e secondo grado, con conferma della Cassazione. Nell’aprile del 2018, quando erano arrivate le condanne nel processo celebrato col rito ordinario, l’assoluzione di Mannino era solo di primo grado. La corte d’Assise di Palermo cercò di dribblare quella sentenza con queste parole: “Subranni ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”. Ora che si attende la sentenza di Appello, però, l’assoluzione di Mannino è stata confermata in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri con Ciancimino, si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Seguendo questa ricostruzione i giudici definiscono la tesi dell’accusa “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

Il ruolo dei carabinieri – Per cercare di confutare queste critiche, i sostituti pg Fici e Barbera hanno depositato agli atti del processo d’Appello una complessa e dettagliata memoria. La sentenza passata in giudicato su Mannino, però, potrebbe chiaramente avere un’influenza nelle scelte della corte d’Assise. È proprio appellandosi a quella sentenza che le difese di Mori, Subranni e De Donno hanno chiesto l’assoluzione dei loro imputati: se non c’è nessuno che ha chiesto di trattare con Cosa nostra, è il ragionamento, perché alcuni alti ufficiali dei carabinieri avrebbero dovuto farsi portatori dei desiderata dei mafiosi? A che pro? Ecco perché i giudici potrebbero riformare parzialmente la sentenza di primo grado, assolvendo gli imputati per la prima parte della trattativa, cioè i tre carabinieri, che in questa situazione vedono saldati i loro destini processuali. È molto difficile, insomma, che Mori, De Donno e Subranni possano essere destinatari di sentenze diverse. Basilio Milio, legale di Mori, ha persino invocato il ne bis in idem, visto che il suo cliente è stato già assolto in via definitiva per il mancato arresto di Provenzano nel 1995: in quel caso, però, il reato era favoreggiamento aggravato. E infatti i giudici del processo di primo grado avevano poi condannato il generale del Ros, nonostante l’avvocato si fosse già allora appellato al divieto di processare due volte una persona per lo stesso reato.

Assolti e condannati: due segmenti di Trattativa – Un’eventuale assoluzione di Mori, De Donno e Mannino, però, non avrebbe per forza effetti sul protagonista di quello che è praticamente il secondo segmendo della trattativa, cioè Marcello Dell’Utri. I giudici potrebbero decidere di assolvere i carabinieri e condannare il fondatore di Forza Italia, o viceversa. Per la pubblica accusa è l’ex senatore l’uomo che tra il 1993 e il 1994 diventa il nuovo interlocutore di Cosa nostra, veicolando la pressione dei boss nei confronti del primo governo di Silvio Berlusconi. Dell’Utri è già stato condannato in via definitiva per concorso esterno, reato commesso fino al 1992: per il periodo successivo è stato assolto. Nel 2018, però, la corte d’Assise lo ha condannato per un reato diverso e cioè la violenza o minaccia ad un Corpo politico dello Stato. In pratica, secondo i giudici del primo grado, con la nascita di Forza Italia il ruolo di intermediario tra Arcore e Cosa nostra svolto da Dell’Utri “rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″. Nelle motivazioni del primo grado si considera provato che l’ex senatore ha riferito a Vittorio Mangano, l’ex stalliere di villa San Martino, “una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazine da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. La norma in questione era una modifica minima e molto tecnica – inserita nel decreto Biondi, meglio noto come “salvaladri” – di cui all’epoca non si accorsero né i giornali e neanche i ministri competenti, che aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi. Di queste modifiche, sempre secondo la sentenza di primo grado, Dell’Utri informò in “anteprima” Mangano, che la riferì a sua volta ad altri mafiosi. Che cosa voleva dire tutto ciò? Per la corte d’Assise che le richieste di Cosa nostra arrivarono a Palazzo Chigi: “Anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione – scrivono – e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”.

Dell’Utri “cinghia di trasmissione” e il ruolo di B. – Una ricostruzione che, ovviamente, la difesa di Dell’Utri contesta duramente. “Dell’Utri ha trasmesso la minaccia a Silvio Berlusconi, ponendosi dalla parte della mafia e tentando di estorcere qualcosa allo stesso Presidente del Consiglio?”, è la domanda retorica che si è posto l’avvocato Francesco Centonze. Rispondendosi: “Perché la percezione della minaccia deve per forza di cose essersi tradotta in una coartazione. La minaccia era stragista e come tale doveva essere trasmessa e recepita dalla controparte, ma per la difesa non ci sono prove della sua trasmissione da Dell’Utri a Berlusconi”. Proprio per sgomberare il campo da ogni equivoco, l’avvocato di Dell’Utri aveva citato come teste l’ex presidente del consiglio. Avrebbe dovuto testimoniare a favore del suo storico braccio destro, negando di aver ricevuto alcun tipo di pressione proveniente da Cosa nostra. Una testimonianza importantissima, che pure la Corte d’Assise d’Appello definì come “decisiva” per le sorti processuali di Dell’Utri. E invece Berlusconi ha preferito rendere noto di essere ancora sotto inchiesta a Firenze per le stragi del 1993 in modo da appellarsi alla facoltà di non rispondere prevista per gli indagati di reato connesso. Miranda Ratti, consorte di Dell’Utri, non la prese bene: “E’ meglio che non dico quello che penso”.

ILFQ

mercoledì 22 settembre 2021

Bonetti ministra del tengo famiglia. Il posto ai renziani non si nega mai. Da Peradotto alla Manzione, staff zeppo di italovivi. Al costo di 600mila euro l’anno pagati dalla collettività. - Stefano Iannaccone

 

Un seguito di oltre venti collaboratori e consulenti per una spesa complessiva di circa 600mila euro. Ovviamente a carico di Palazzo Chigi. Insomma, la famiglia costa caro, specie se di mezzo c’è Elena Bonetti, ministra di Italia viva, per le Pari opportunità e la Famiglia, appunto.

AVANTI, C’è POSTO! Certo, non è il dipartimento o il ministero più costoso, ma è significativo il numero di renziani doc ricollocati nello staff con diversi ruoli. Spicca il nome del fedelissimo di Renzi, Mattia Peradotto, che nel 2020 ha firmato come tesoriere il bilancio di Italia viva, ed è stato ingaggiato come segretario particolare della ministra. La cifra complessiva è di 75mila euro all’anno, tra trattamento economico fondamentale e indennità. Inizialmente la retribuzione era più bassa di tremila euro, poi da marzo è arrivato il ritocco al rialzo.

La sua fede renziana è più che comprovata: dal 2016 al 2018 è stato al fianco di Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito democratico durante la gestione Renzi. Immancabile, al fianco di Bonetti, la presenza di Antonella Manzione. Il suo nome è salito alla ribalta della cronaca quando nel 2014 da “dirigente comandante Polizia Municipale del Comune di Firenze”, come si legge dal suo curriculum, è balzata al vertice del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi con la benedizione di Renzi.

Nel 2017 è poi entrata nel Consiglio di Stato. Ma alla consulenza politica non si dice mai di no. Perciò, dopo essere stata consigliera giuridica (a titolo gratuito) di Teresa Bellanova al ministero delle Politiche agricole, ecco sul tavolo l’incarico di “consigliere giuridico preposto al Settore legislativo” al dipartimento della Bonetti. Questa volta per 33mila euro all’anno. Ileana Chatia Piazzoni, ex deputata, non ha conquistato un seggio in Parlamento, ma ha ottenuto una consulenza di consolazione: è a capo della Segreteria tecnica della ministra. Compenso? 50mila euro annui.

Non è lo stesso di una parlamentare, ma bisogna accontentarsi. Il capo di gabinetto, per 53mila euro, è invece un componente dell’Avvocatura dello Stato, Massimo Santoro, già capo dell’ufficio legislativo al Mef, con Pier Carlo Padoan ministro del governo Renzi. A sussurrare alla ministra ci sono (seppure per una cifra meno cospicua, 7.500 euro) i docenti Mauro Magatti, sociologo e autore di editoriali per il Corriere della Sera, e Alessandro Rosina, economista e opinionista de La Repubblica.

COMUNICAZIONE A GO GO. Da buona renziana, Bonetti è molto attenta alla comunicazione. Per questo ha assunto, come social media manager, Nicolae Galea, compagno di Alessio Di Giorgi, il grande capo della comunicazione social di Italia viva. Proprio Di Giorgi, di recente ha attaccato Giuseppe Conte sul profilo dell’ex presidente del Consiglio, confermandosi – per l’ennesima volta – un guardiano digitale di Renzi. Per Galea, intanto, sono previsti 45mila euro di emolumento accessorio. La figura al vertice dell’ufficio stampa è affidata a Roberta Leone, dipendente della Cei, con qualche trascorso in testate del mondo cattolico.

Un’altra giornalista dello staff bonettiano è poi Beatrice Rutiloni, chiamata al dipartimento in qualità di esperta, per 45mila euro all’anno, alla voce retribuzione di posizione variabile. In passato ha scritto per Democratica e unita.tv, progetti editoriali del Pd voluti da Renzi, già capo ufficio stampa di Italia viva al Senato. Per poi occuparsi di famiglia con la ministra.

LaNotiziaGiornale.it

La tara del Colle. - Marco Travaglio

 

Come in salumeria, dove il prosciutto si pesa al netto della carta, urge una tara alle parole degli autocandidati al Colle al netto delle captatio benevolentiae che lanciano agli avversari per strappare voti. Il più comico, anche perché pluri-recidivo, è Luciano Violante, che regala una mega-intervista al Giornale di B. per dire che B. ha ragione: “I giudici non devono riscrivere la storia”, “alcuni magistrati sono stati accecati”, abbasso “il manipulitismo” e viva la schiforma Cartabia, “un buon inizio” che fa “passi in avanti”. Sullo stesso filone – sinistra che cerca voti a destra – c’è Prodi, che prima nega di puntare al Colle e poi definisce la perizia psichiatrica a B. una “follia italiana” (in realtà la perizia sulle condizioni psicofisiche dell’imputato è prevista dalla legge per chi non si fa processare marcando continuamente visita) e lo loda per una fantomatica “scelta europeista”.

Nemmeno B. aveva osato tanto. Ma, sentendolo dire da Prodi, ha finito per crederci e ieri ha inviato un video-messaggio al Ppe dal mausoleo di Arcore o dalla piramide di Cheope per autoelogiarsi come il quarto fondatore dell’“Europa cristiana” dopo De Gasperi, Adenauer e Schumann. Lui che ancora il 21.8.2017 proponeva su Libero fra le risate generali di tornare alla lira, anzi alla “AM-Lira” post-bellica, affiancandola all’euro con un simpatico sistema “a due monete: una nazionale per le transazioni domestiche e una comune per le transazioni internazionali”. Lui che era sceso in campo da antieuropeista sfegatato: “L’Europa è un male per l’Italia” (15.4.94). “Per l’Italia è difficile stare in Europa… Dovremo pagare multe all’Ue o addirittura riuscirne fuori” (23.4.97). “Non si possono accettare provvedimenti pericolosissimi (la superprocura e il mandato di cattura europei, ndr): vi immaginate cosa significa concederli a qualunque pm d’Europa?” (7.12.2001). “L’Europa è percepita come un freno allo sviluppo… Il Gulliver europeo è bloccato dagli ominidi, dai burocrati Ue” (20.3.05). “L’euro di Prodi ci ha fregati tutti” (28.7.05). “Prodi ha svenduto la lira all’euro con un cambio sfavorevole” (24.1.06). Per non parlare di quando collezionò la più leggendaria figura di merda all’Europarlamento inaugurando il semestre di presidenza italiana. Prima insultò il capogruppo del Pse: “Signor Schulz, in Italia un produttore sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò”. Poi insolentì l’intera Aula che protestava: “Siete tutti dei turisti della democrazia!” (2.7.03). Ieri è riuscito a dire restando serio: “Il nostro partito è l’Europa”. Fortuna che era laccato e leccato come un sanitario Ideal Standard abbronzato. E nessuno l’ha riconosciuto.

ILFQ

Covid: Dia, cresce il tentativo delle mafie di infiltrarsi nell'economia.

 

'Le organizzazioni puntano a rilevare imprese e fondi pubblici. Meno violenza e più sinergia con i colletti bianchi'.

Con il prolungamento dell'emergenza dovuta al Covid, "la tendenza ad infiltrare in modo capillare il tessuto economico e sociale sano" da parte delle organizzazioni criminali "si sarebbe ulteriormente evidenziata". E' quanto afferma la Relazione della Dia al Parlamento relativa al II semestre del 2020 sottolineando che si tratta da parte delle mafie di una "strategia criminale che, in un periodo di grave crisi, offrirebbe alle organizzazioni l'occasione sia di poter rilevare a buon mercato imprese in difficoltà, sia di accaparrarsi le risorse pubbliche stanziate per fronteggiare l'emergenza sanitaria". 

La criminalità organizzata cambia sempre più faccia: Cosa Nostra, Camorra, 'Ndrangheta lavorano costantemente per ampliare le proprie capacità di relazione e sempre più in sinergia con i colletti bianchi, "sostituendo l'uso della violenza, sempre più residuale, con linee d'azione di silente infiltrazione".

L'analisi di come si stanno evolvendo le organizzazioni criminali è contenuta nella Relazione della Direzione investigativa antimafia.

I clan di Cosa Nostra, non riuscendo a ricostruire la Cupola cui spettava il compito di definire le questioni più delicate, hanno adottato "un coordinamento basato sulla condivisione delle linee di indirizzo e dalla ripartizione delle sfere di influenza tra esponenti di rilievo dei vari mandamenti, anche di province diverse".  Nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento Cosa Nostra resta egemone e si registrano ripetuti tentativi di una "significativa rivitalizzazione" dei contatti con le famiglie all'estero: le indagini rivelano come i clan hanno "riaperto le porte ai cosiddetti 'scappati' - dicono gli analisti - o meglio, alle nuove generazioni di coloro i cui padri avevano dovuto trovare rifugio all'estero a seguito della guerra di mafia dei primi anni ottanta".

Nell'area centro-orientale della Sicilia sono invece attive organizzazioni "più fluide e flessibili" che si affiancano ai clan storici. Tra queste, sottolinea la Relazione, "un rilievo particolare è da attribuire alla 'Stidda', un'organizzazione inizialmente nata in contrapposizione a Cosa Nostra ma che oggi tende a ricercare l'accordo con quest'ultima per la spartizione degli affari illeciti".

Le indagini hanno anche evidenziato come alcune di queste organizzazioni hanno fatto "un salto di qualità" passando da gruppi dediti principalmente ai reati predatori a sodalizi "in grado di infiltrare il tessuto economico-imprenditoriale del nord Italia". Sempre gli stessi i settori d'interesse sui quali si concentrano le attenzioni dei clan: estorsioni, usura, narcotraffico, gestione dello spaccio di droga, infiltrazione nel gioco d'azzardo illecito e del controllo di quello illegale. E continua, anche, l'infiltrazione in quelle aree economiche che beneficiano di contributi pubblici, in particolare nei settori della produzione di energia da fonti rinnovabili, dell'agricoltura e dell'allevamento. Infiltrazioni possibili grazie alla "complicità di politici e funzionari infedeli".

La Dia nell'ultimo semestre del 2020 ha eseguito 726 monitoraggi nei confronti di imprese impegnate in appalti per grandi opere e ha svolto 12.057 accertamenti su persone fisiche.

La 'ndrangheta rimane saldamente leader nel narcotraffico internazionale, ma "non appare più così monolitica ed impermeabile alla collaborazione con la giustizia da parte di affiliati nonché di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all'omertà per il timore di gravi ritorsioni da parte dell'organizzazione mafiosa". La Relazione segnala la consolidata proiezione dei gruppi affiliati in tutte le regioni italiane, in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonchè in Australia, Stati Uniti e Canada. Sottolineato anche il frequente coinvolgimento negli affari illeciti di donne e di minori.

"La spregiudicata avidità della 'ndrangheta non esita a sfruttare il reddito di cittadinanza nonostante la crisi economica che grava anche sul contesto sociale calabrese e benché l'organizzazione disponga di ingenti risorse finanziarie illecitamente accumulate". Il riferimento è una serie di inchieste che hanno visto diversi personaggi affiliati o contigui ai clan calabresi quali indebiti percettori del reddito di cittadinanza: coinvolti, in particolare, uomini delle famiglie Accorinti, Mannolo, Pesce, Bellocco. Nell'ambito dell'operazione Tantalo, ad esmepio, i Carabinieri hanno deferito all'autorità giudiziaria di Locri 135 percettori irregolari di buoni spesa Covid, alcuni dei quali legati per vincoli di parentela e/o affinità a sodalizi del luogo e, circa la metà, residenti a San Luca.

ANSA

Milano, l’Anpi si appella agli elettori: “Non date il voto a liste e candidati fascisti”. Bernardo un mese fa costretto alla giravolta. - Thomas Mackinson

 

Dopo la bega dei soldi per i comizi e l'alterco con Sala sui milanesi "pistola" un'altra grana per il pediatra sostenuto dal centrodestra. Ignorati gli appelli per rimuovere i simpatizzanti di estrema destra dalle liste, l'associazione partigiani e le altre che si rifanno alla Resistenza si rivolgono direttamente ai cittadini.

Il tempo di tirare un sospiro di sollievo che Luca Bernardo, candidato sindaco di Milano per il centrodestra, si ritrova di nuovo accerchiato tra un botta-risposta con Sala e l’accusa di contiguità con l’estrema destra. Il presidente dell’Anpi di Milano anticipa al fattoquotidiano.it che a breve tutte le associazioni che si rifanno alla resistenza faranno un appello pubblico non più a liste e candidati, ma direttamente ai cittadini perché “non votino liste con candidati non dichiaratamente antifascisti”. Una posizione che, nella città medaglia d’Oro della Resistenza, può far presa nella corsa elettorale che si gioca tra il centro e la periferia. Può diventare anche un grimaldello ulteriore perché la Lega è ormai dilaniata tra la linea moderata di Giorgetti e quella di Salvini. La seconda per altro è diventata plasticamente minoritaria sulla questione green pass e no-vax , con tanto di scavalco sia dei governatori del Carroccio che degli esponenti con impegni di governo.

La polemica, va detto, in città c’è sempre stata, dai tempi della Moratti, De Corato e del centrodestra a Palazzo Marino che ha sempre strizzato l’occhio alla galassia dei movimenti della destra radicale. E’ successo anche stavolta, alla vigilia della tornata elettorale alle porte. Il 27 agosto scorso il consigliere regionale Max Bastoni, candidato con la lista di Bernardo per Palazzo Marino, aveva inaugurato il comitato elettorale in via Pareto 14, nei locali milanesi del movimento di estrema destra Lealtà Azione. Allora fu la segreteria metropolitana del Pd a sollevare la questione della scelta di condividere gli spazi con “un movimento che ogni anno organizza le celebrazioni al Campo X del Cimitero Maggiore, tra saluti romani e inni ai caduti di Salò”. Bernardo all’epoca dichiarò che “non c’è differenza tra fascisti e antifascisti”, scatenando polemiche che lo costrinsero poi alla giravolta repentina: “Sono antifascista come tutti gli italiani, si condannino tutte le ideologie folli”.

Stavolta però l’Anpi si rivolge direttamente agli elettori. Il presidente della sede provinciale di Milano Roberto Cenati anticipa al fattoquotidiano.it che a breve tutte le associazioni che si rifanno alla Resistenza (Anpi ma anche Aned, Fiap e Partigiani Cristiani) faranno ai cittadini un appello perché non diano il voto alle liste e ai candidati che non si dissociano dal fascismo. “A 76 anni dalla liberazione di Milano lo avrei considerato scontato”, dice Cenati. “In questi mesi però il nostro accorato appello ai candidati e ai partiti non ha sortito, evidentemente, gli effetti sperati”. Nel frattempo infatti il quartier generale del consigliere regionale Bastoni è rimasto negli stessi locali. Ha anche ribadito di “impegnarsi per far confluire i voti dell’estrema destra su Luca Bernardo”. Ma l’Anpi alza il livello della richiesta spostando la responsabilità della scelta sugli elettori: “A questo punto confidiamo siano loro a dare un segnale, noi non arretriamo sul fatto che chi si candida a governare Milano debba necessariamente ispirarsi ai valori della Costituzione e della Resistenza”.

ILFQ

Le barriere coralline sanno reagire al riscaldamento globale.

Barriera corallina (fonte: Jim Maragos/U.S. Fish and Wildlife Service, modificata da Mielon, Wikipedia)

Le barriere coralline sono in grado di reagire al riscaldamento globale: le stime, basate sull'analisi delle specie che le popolano attualmente, indicano che la loro biodiversità è destinata a modificarsi ma non a ridursi. Lo indica la stima elaborata dall'università delle Hawai a Manoa e pubblicata sulla rivista dell'Accademia delle scienze degli Stati Uniti, Pnas.

Lo studio ha verificato infatti che le specie che dominano le comunità della barriera corallina si stanno modificando per via del cambiamento climatico, ma ciò non significa che in futuro vi sarà un calo della biodiversità complessiva per via del riscaldamento e dell'acidificazione previsti per la fine del secolo.

"Più che il collasso della biodiversità degli oceani, abbiamo osservato dei cambiamenti significativi nell'abbondanza di alcune specie, con una redistribuzione delle comunità della barriera", osserva la coordinatrice dello studio, Molly Timmers. "I minuscoli organismi che vivono nella struttura della barriera corallina - prosegue - sono noti come cryptobiota, che sono l'analogo degli insetti della foresta pluviale e hanno un ruolo fondamentale nel ciclo di nutrienti, cristallizzazione e le dinamiche della catena alimentare".

Nonostante la sua importanza, il cryptobiota è stato spesso sottovalutato nella ricerca sul cambiamento climatico per via delle difficoltà nell'identificare tutti gli organismi che lo compongono. Per valutare la sua risposta alle future condizioni degli oceani, il gruppo di Timmers ha condotto un esperimento in un acquario che riproduceva tutto l'ecosistema della barriera corallina, con acqua marina della barriera hawaiana, e le condizioni di riscaldamento e acidificazione previste per gli oceani alla fine del secolo. Dopo 2 anni, i ricercatori hanno esaminato i gruppi di organismi che si erano sviluppati, vedendo che il numero totale di specie non era cambiato, ma era variata la composizione delle varie comunità. "E' il primo studio a esaminare la diversità dell'intera comunità della barriera corallina - aggiunge Chris Jury, uno dei ricercatori - dai microbi alle alghe, fino ai coralli e pesci".

ANSA