sabato 6 aprile 2019

Pensioni, come cambia l’adeguamento al costo della vita: taglio delle rivalutazioni inferiore a quelli degli ultimi governi. - Chiara Brusini

Pensioni, come cambia l’adeguamento al costo della vita: taglio delle rivalutazioni inferiore a quelli degli ultimi governi

Per i pensionati con gli assegni più bassi, fino a 1.539 euro lordi, non cambierà nulla. Gli altri riceveranno qualche euro in più rispetto alle cifre incassate negli ultimi sette anni. Mentre subiranno un piccolo taglio rispetto agli aumenti previsti dalla legge che sarebbe tornata in vigore l’anno prossimo se non ci fossero stati interventi. Con un’eccezione: chi prende tra i 1.539 e i 2.052 euro lordi avrà comunque un mini vantaggio. Sarà questo l’effetto del “raffreddamento” dell’indicizzazione delle pensioni inserito nel maxi emendamento del governo alla manovra che ha appena ottenuto il via libera definitivo della Camera. A conti fatti il nuovo schema di rivalutazione per il triennio 2019-2021, contro il quale si sono già mobilitati i sindacati, è più generoso rispetto a quelli adottati a partire dal 2011.

Il punto di partenza è che la legge di Bilancio per il 2019 non interviene su una situazione di completo adeguamento degli assegni previdenziali all’aumento del costo della vita. Anzi: fin dagli anni Novanta la perequazione di quelli superiori a tre volte il minimo non è piena e nel dicembre 2011 è stata completamente congelata dal Salva Italia del governo Monti. Dal 2014, con Letta, è tornata in forma parziale e quel regime è stato prorogato fino a fine 2018 dal governo Renzi (vedi tabella). L’anno prossimo, senza interventi, sarebbe tornata in vigore la legge 388 del 2000 che prevedeva comunque una perequazione piena, pari all’1,1% dell’assegno, solo per quelli inferiori a tre volte il minimo. Cioè 1.539 euro, visto che nel 2019 (al netto delle pensioni di cittadinanza prossime venture) il minimo sale a 513 euro. Gli assegni tra tre e cinque volte il minimo (da 1.539 a 2.565 euro) sarebbero stati rivalutati solo di uno 0,99% e quelli oltre cinque volte il minimo di uno 0,825%.

L’adeguamento diventa più progressivo: sette scaglioni – La manovra appena varata modifica quel meccanismo rendendo più progressivo l’adeguamento, che sarà differenziato in base a sette scaglioni. Fino a tre volte il minimo nulla cambia: la rivalutazione sarà piena e pari all’1,1%, percentuale fissata da un decreto del Tesoro. Tra tre e quattro volte il minimo la rivalutazione sarà pari al 97% dell’indicizzazione piena. Vale a dire che ci sarà un aumento dell’1,067%: poco più di 19 euro al mese per chi ne riceve 1.800 lordi. Se fosse tornata in vigore la legge del 2000, l’incremento per questa fascia si sarebbe invece fermato allo 0,99%, meno di 18 euro. Questi assegni, che stando alla Relazione tecnica della legge di Bilancio costituiscono il 18,7% del monte pensioni complessivo, saranno quindi incrementati più di quanto prevedeva il quadro a legislazione vigente.






Al contrario, oltre i 2.052 euro lordi la rivalutazione sarà meno generosa rispetto a quanto previsto dalla legge del 2000, anche se l’indicizzazione resta superiore a quella riconosciuta fino al 2018. Per le pensioni tra le quattro e le cinque volte il minimo la rivalutazione sarà infatti dello 0,847%: il 77% di quella piena, contro il 90% previsto dalla manovra 2001 e il 75% applicato fino all’anno scorso. Per la fascia successiva (tra cinque e sei volte il minimo, cioè da 2.565 a 3.078 euro) l’indicizzazione sarà riconosciuta al 52%, pari a un aumento dello 0,572%, anche in questo caso superiore a quello del 2018 e inferiore a quello previsto dalla legge del 2000.
Tagli di 25 euro solo per chi prende oltre 10 volte il minimo – Per i trattamenti superiori a sei volte il minimo le norme precedenti non facevano distinzioni: con lo “schema Letta” tutti gli assegni erano indicizzati al 40% mentre con il ritorno in vigore della 388/2000 l’indicizzazione sarebbe stata riconosciuta al 75%. La manovra prevede invece una riduzione progressiva del beneficio: 47% (cioè aumenti dello 0,517%) fino a otto volte il minimo, 45% (con aumenti dello 0,495%) tra otto e nove volte e 40% (pari a un incremento dello 0,44%) oltre nove volte il minimo, 4.617 euro lordi. Il taglio, rispetto alla normativa precedente, supererà i 25 euro al mese solo per chi riceve un assegno oltre 10 volte il minimo. Come chiarito dall’Inps, comunque, gli effetti non si vedranno sugli assegni di gennaio, che sono già stati calcolati in base alla legge 388: una circolare disciplinerà in seguito le modalità e i tempi per i conguagli.

Le tappe: dal 1996 indicizzazione piena solo agli assegni più bassi – Fin dal 1996 l’indicizzazione piena è stata riconosciuta solo alle pensioni più basse: in particolare fino al Duemila solo gli assegni non superiori a due volte il minimo venivano aumentati di anno in anno tenendo conto pienamente dell’aumento del costo della vita e quelli oltre otto volte il minimo erano congelati. Poi, fino al 2008, il 100% di rivalutazione è stato garantito a quelli fino a tre volte il minimo. Da quell’anno il sistema è diventato più generoso, con un ampliamento dell’indicizzazione completa ai trattamenti fino a cinque volte il minimo e il riconoscimento di un 75% di rivalutazione alle pensioni oltre quella soglia. A fine 2011 il governo Monti con il decreto salva Italia (riforma Fornero) ha azzerato per gli anni 2012 e 2013 la perequazione delle pensioni di importo superiore a tre volte il minimo. Nel 2013 il governo Letta ha previsto un sistema a cinque scaglioni con indicizzazione del 95% per gli assegni tra tre e quattro volte il minimo, del 75% tra quattro e cinque volte il minimo, del 50% tra cinque e sei volte il minimo e del 40% (45% nel 2015 e 2016) oltre sei volte il minimo. Il governo Renzi ha prorogato lo schema Letta al 2017 e 2018. Il prossimo anno sarebbe dovuta tornare in vigore la legge del 2000.
Nel frattempo, ad aprile 2015 la Corte costituzionale ha bocciato il blocco della riforma Fornero e l’esecutivo Renzi con il decreto Poletti ha rimediato concedendo ai pensionati solo un rimborso parziale dei soldi persi a causa della mancata rivalutazione. La Consulta ha rigettato i ricorsi contro il decreto ritenendo che abbia realizzato “un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica“.

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