Nicola Latorre - braccio destro di D'Alema del PD - suggerisce le risposte a Bocchino del PdL
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 18 agosto 2009
lunedì 17 agosto 2009
La mia risposta ad un commento di un blogger.
Nel tuo discorso c'è un fondo di verità.
Gli italiani, abbrutiti da anni di pessima propaganda politica, si sono visti soffiare da sotto il naso e senza muovere un dito, qualsiasi diritto acquisito con lotte e sacrifici.
Vigliacchi lo siamo, fancazzisti anche, piacioni pure, amanti dell'estetica dippiù, ma da qui a dire che la mafia è migliore, ce ne vuole!
Berlusconi, però, è il peggio del peggio, perchè platealmente si avvale solo di personaggi mafiosi, suo padre lo ha ben introdotto nell'ambiente.
Non che gli altri politici siano di molto migliori di lui, per carità, nessuno potrebbe asserire ciò, ma lui resta sempre il peggiore, perchè avvantaggia solo le mafie e le grosse industrie, lasciando andare alla deriva la parte migliore della nazione, noi, quelli che il paese lo sostengono.
Lui è colpevole di aver introdotto leggi che impoveriscono di contenuti e di valori la vita dell'essere umano, lui rappresenta la parte peggiore del paese.
Lui propende per chi lo tiene al guinzaglio, i poteri occulti, le lobby.
Lui non è adatto a governare, perchè altamente ricattabile e, pertanto, nocivo.
Gli italiani, abbrutiti da anni di pessima propaganda politica, si sono visti soffiare da sotto il naso e senza muovere un dito, qualsiasi diritto acquisito con lotte e sacrifici.
Vigliacchi lo siamo, fancazzisti anche, piacioni pure, amanti dell'estetica dippiù, ma da qui a dire che la mafia è migliore, ce ne vuole!
Berlusconi, però, è il peggio del peggio, perchè platealmente si avvale solo di personaggi mafiosi, suo padre lo ha ben introdotto nell'ambiente.
Non che gli altri politici siano di molto migliori di lui, per carità, nessuno potrebbe asserire ciò, ma lui resta sempre il peggiore, perchè avvantaggia solo le mafie e le grosse industrie, lasciando andare alla deriva la parte migliore della nazione, noi, quelli che il paese lo sostengono.
Lui è colpevole di aver introdotto leggi che impoveriscono di contenuti e di valori la vita dell'essere umano, lui rappresenta la parte peggiore del paese.
Lui propende per chi lo tiene al guinzaglio, i poteri occulti, le lobby.
Lui non è adatto a governare, perchè altamente ricattabile e, pertanto, nocivo.
domenica 16 agosto 2009
Lista d'attesa alitaliana (cronaca di un sabato a Fiumicino)
di Roberta Corradin.
Roma, 8 agosto.
Ignara passeggera troppo assorbita dai bagagli per leggere i giornali e dare uno sguardo alla tivù, mi presento al check-in dei voli nazionali a Fiumicino con ben un’ora e mezza di anticipo. La pur gentile hostess di terra razzola sulla tastiera per dieci minuti, dopo di che mi comunica che sono in lista d’attesa (informazione che peraltro, dato l’esito dei fatti, sospetto conoscesse sin da subito). Come sarebbe a dire lista d’attesa? Abbiamo fatto overbooking, spiega lei. Io le spiego a mia volta che vado a Ceglie Messapica a cucinare thailandese per una cena multietnica con Antonella Ricci e Vinod Sookar, che en passant mi sembra un bel messaggio contro il razzismo neanche tanto strisciante di questi tempi, visto che i miei tratti somatici non parlano asiatico e che la mia tesi è che la cucina parla il linguaggio dei gesti, non quello delle parole. La pur gentile hostess di terra annuisce, trattiene il mio bagaglio con una precaria fascetta stand by, mi instrada all’uscita A 23, “Proprio lì davanti c’è il banco della lista d’attesa, si presenti, se si libera un posto la fanno salire”. Spergiura. Il posto si libererà ma faranno salire una tale Simona o Monica del Grande Fratello, che fino all’ultimo ha bivaccato in vip lounge. Il banco della lista d’attesa Alitalia è una fossa dei leoni al contrario, con al centro le leonesse, due poverette una mora una bionda che chissà che peccati dovevano espiare, e i cristiani tutt’intorno ad assediarle e ringhiare da fuori le gabbie, pardon, il bancone. I cristiani minacciano di chiamare il 113, o il 118 (c’è un po’ di confusione sui numeri, sarà colpa anche del jackpot del superenalotto). Le leonesse invitano a fare come meglio gli pare, ma sempre usando espressioni garbate. Sono leonesse coi nervi ben saldi, se la caverebbero anche in compagnie aeree peggiori. Svariati passeggeri lasciati a terra dal volo per Catania, digiuni di studi statistici e ignari di calcoli della probabilità, inveiscono increduli: «E pur intero pagai il prezzo di questo biglietto»… Vagli a spiegare che la fortuna è cieca e la statistica è guercia. Un compito ricercatore di un’università di Boston, visibilmente soddisfatto di appartenere al blasonato team della fuga dei cervelli, rimpiange di non avere scelto Lufthansa per tornare a ferragosto da mammà. Due attempate sorelle catanesi, anche loro in possesso di biglietto «Pagato carissimo, mi creda» implorano «Un chiarimento, prego…» Le leonesse, anche per questione di decibel, non se le filano, nonostante le due si siano infiltrate in prima fila. Dimentica del prudente adagio ebreo “Non far del bene se non te l’hanno chiesto” invito le signore a porgere direttamente la domanda, cosa vogliono sapere? Non lo sanno, e se la prendono con me che improvvisamente appaio, anche ai miei occhi, maleducata.
Mi zittisco, e in attesa che le leonesse sbranino il Bari, mi distraggo con il Catania e il Palermo, e pure con l’Alghero e il Lamezia Terme, obiettando in cuor mio che va bene l’overbooking, però purché sia attuato con discernimento statistico, mentre qui appare improntato a un neo-sadico “lasciane a terra quanti più puoi”. Se è vero come dicono che il sistema dell’aeroporto è andato in tilt, causando overbooking a catena, non mi è chiaro come la sola compagnia così colpita risulti Alitalia. O forse anche Alitalia è vittima delle statistiche, proprio come noi passeggeri lasciati a terra. La calca dei cristiani infuria. Alle due leonesse se ne aggiunge una terza, coi modi di una gattina costernata. Le tre fanno il possibile per far salire qualcuno a bordo, anche se talvolta i loro sforzi dividono famiglie (felicissimo l’adolescente romano che vede partire i genitori e prenderà il volo dell’indomani, ci guadagna pure 250 € di rimborso, sai che festino stanotte con gli amici rimasti in città) e separano sorelle psicologicamente siamesi (come le due catanesi del chiarimento, che arrivano a rinunciare al rimborso pur di salire sullo stesso volo). Lo spettacolo d’arte varia degli aspiranti passeggeri rifiutati e incazzati mi assorbe tanto che non mi accorgo del passare delle ore, in tutto cinque, che trascorro in piedi appoggiata al bancone, rapita dal gioco di volée come una spettatrice di Wimbledon.A un certo punto le leonesse piegano le statistiche alla ragione: la doxa deve pur riconoscere all’episteme che un bimbo di due anni non può viaggiare da solo senza mamma e papà. Un gruppo famigliare francese si avvia trionfante all’imbarco per Cagliari capitanato dalla figlioletta di due anni in posa alla Delacroix tipo La libertà guida il popolo.Le leonesse ogni tanto spariscono nel retro, non si sa se per iniettarsi purea di camomilla, ma la folla non infuria perché a volte, dal retro, escono brandendo una carta d’imbarco e scandendo un cognome, ché ormai partire dà un’euforia come vincere all’enalotto, è un evento scisso da cause razionali quali ad esempio l’acquisto del biglietto e la prenotazione online del posto. Un signore di Lamezia massiccio e barbuto che aveva augurato ad Alitalia le peggio cose, pure con valore retroattivo, ritratta tutto quando le leonesse gli porgono la carta d’imbarco con relativa promessa di rivedere i suoi cari in serata. «Ida! Ida!». E mo’ questa chi è? Circa ottanta cristiani inferociti si voltano a guardare la raccomandata che dà del tu alla leonessa e la chiama persino per nome. Eh no, favoritismi per la cognatina o l’amichetta, non è giornata… Ma la chiamante non è una raccomandata, e neppure un’amica di Ida, né la cognata. Trattasi di cittadina statunitense street smart, come dicono da quelle parti: una che se la sa cavare nelle vicissitudini della vita vissuta. Con dinamiche e tempismo newyorkese, l’astuta yankee ha letto quello che a noi italiani pare dettaglio trascurabile: la targhetta sul taschino con il nome dell’operatrice. Mentre noi la apostrofiamo con un generico facente funzioni di vocativo «Scusi», la newyorkese si è appropriata del nome, e l’ha fatta cosa (persona) propria: «Ida ma allora cosa devo fare adesso, mi metti su quello delle 20.40 o no?». Persino Ida si sorprende, fa lo sguardo di una che non riesce a scorgere l’amico da cui si è sentita chiamare, poi si ricompone e dà una risposta professionale in inglese. Non è mica scema, Ida: si difende come una leonessa anche dai tentativi di appropriarsi di lei attraverso il suo nome.Piove sempre sul bagnato. Dall’alto, un repentino crack: la furia dell’empireo si scatena su Alitalia sotto forma di doccia. Un tubo del condizionamento si rompe d’emblée in una sorta di diluvio universale, se non proprio catartico almeno umoristico, che lava via le carte d’imbarco impilate sul bancone neanche si credesse l’Arno in piena nel ’66. La scena, più che fantozziana, è onirica: ci starebbe benissimo che un passeggero impazzito improvvisasse una doccia con saponetta e shampoo in piedi nudo sul banco Alitalia. Ai pochi fortunati ammessi sull’ultimo volo della sera, le leonesse porgono carte d’imbarco fradicie, e compilano tra miagolii di contrizione le autorizzazioni alla riscossione del rimborso. Va da sé che quando arrivi in biglietteria, dove il bonus dovrebbe venire pagato, ti senti rispondere «Abbiamo finito il contante». Si viene congedati tutti con un bonus che qualche passeggero distratto finirà col dimenticare insieme a questa giornata, lavata via dall’ilarità di un tubo rotto e una doccia. Come nuovo logo Alitalia mi piacerebbe proporre un pulcino bagnato.
http://antefatto.ilcannocchiale.it/
Roma, 8 agosto.
Ignara passeggera troppo assorbita dai bagagli per leggere i giornali e dare uno sguardo alla tivù, mi presento al check-in dei voli nazionali a Fiumicino con ben un’ora e mezza di anticipo. La pur gentile hostess di terra razzola sulla tastiera per dieci minuti, dopo di che mi comunica che sono in lista d’attesa (informazione che peraltro, dato l’esito dei fatti, sospetto conoscesse sin da subito). Come sarebbe a dire lista d’attesa? Abbiamo fatto overbooking, spiega lei. Io le spiego a mia volta che vado a Ceglie Messapica a cucinare thailandese per una cena multietnica con Antonella Ricci e Vinod Sookar, che en passant mi sembra un bel messaggio contro il razzismo neanche tanto strisciante di questi tempi, visto che i miei tratti somatici non parlano asiatico e che la mia tesi è che la cucina parla il linguaggio dei gesti, non quello delle parole. La pur gentile hostess di terra annuisce, trattiene il mio bagaglio con una precaria fascetta stand by, mi instrada all’uscita A 23, “Proprio lì davanti c’è il banco della lista d’attesa, si presenti, se si libera un posto la fanno salire”. Spergiura. Il posto si libererà ma faranno salire una tale Simona o Monica del Grande Fratello, che fino all’ultimo ha bivaccato in vip lounge. Il banco della lista d’attesa Alitalia è una fossa dei leoni al contrario, con al centro le leonesse, due poverette una mora una bionda che chissà che peccati dovevano espiare, e i cristiani tutt’intorno ad assediarle e ringhiare da fuori le gabbie, pardon, il bancone. I cristiani minacciano di chiamare il 113, o il 118 (c’è un po’ di confusione sui numeri, sarà colpa anche del jackpot del superenalotto). Le leonesse invitano a fare come meglio gli pare, ma sempre usando espressioni garbate. Sono leonesse coi nervi ben saldi, se la caverebbero anche in compagnie aeree peggiori. Svariati passeggeri lasciati a terra dal volo per Catania, digiuni di studi statistici e ignari di calcoli della probabilità, inveiscono increduli: «E pur intero pagai il prezzo di questo biglietto»… Vagli a spiegare che la fortuna è cieca e la statistica è guercia. Un compito ricercatore di un’università di Boston, visibilmente soddisfatto di appartenere al blasonato team della fuga dei cervelli, rimpiange di non avere scelto Lufthansa per tornare a ferragosto da mammà. Due attempate sorelle catanesi, anche loro in possesso di biglietto «Pagato carissimo, mi creda» implorano «Un chiarimento, prego…» Le leonesse, anche per questione di decibel, non se le filano, nonostante le due si siano infiltrate in prima fila. Dimentica del prudente adagio ebreo “Non far del bene se non te l’hanno chiesto” invito le signore a porgere direttamente la domanda, cosa vogliono sapere? Non lo sanno, e se la prendono con me che improvvisamente appaio, anche ai miei occhi, maleducata.
Mi zittisco, e in attesa che le leonesse sbranino il Bari, mi distraggo con il Catania e il Palermo, e pure con l’Alghero e il Lamezia Terme, obiettando in cuor mio che va bene l’overbooking, però purché sia attuato con discernimento statistico, mentre qui appare improntato a un neo-sadico “lasciane a terra quanti più puoi”. Se è vero come dicono che il sistema dell’aeroporto è andato in tilt, causando overbooking a catena, non mi è chiaro come la sola compagnia così colpita risulti Alitalia. O forse anche Alitalia è vittima delle statistiche, proprio come noi passeggeri lasciati a terra. La calca dei cristiani infuria. Alle due leonesse se ne aggiunge una terza, coi modi di una gattina costernata. Le tre fanno il possibile per far salire qualcuno a bordo, anche se talvolta i loro sforzi dividono famiglie (felicissimo l’adolescente romano che vede partire i genitori e prenderà il volo dell’indomani, ci guadagna pure 250 € di rimborso, sai che festino stanotte con gli amici rimasti in città) e separano sorelle psicologicamente siamesi (come le due catanesi del chiarimento, che arrivano a rinunciare al rimborso pur di salire sullo stesso volo). Lo spettacolo d’arte varia degli aspiranti passeggeri rifiutati e incazzati mi assorbe tanto che non mi accorgo del passare delle ore, in tutto cinque, che trascorro in piedi appoggiata al bancone, rapita dal gioco di volée come una spettatrice di Wimbledon.A un certo punto le leonesse piegano le statistiche alla ragione: la doxa deve pur riconoscere all’episteme che un bimbo di due anni non può viaggiare da solo senza mamma e papà. Un gruppo famigliare francese si avvia trionfante all’imbarco per Cagliari capitanato dalla figlioletta di due anni in posa alla Delacroix tipo La libertà guida il popolo.Le leonesse ogni tanto spariscono nel retro, non si sa se per iniettarsi purea di camomilla, ma la folla non infuria perché a volte, dal retro, escono brandendo una carta d’imbarco e scandendo un cognome, ché ormai partire dà un’euforia come vincere all’enalotto, è un evento scisso da cause razionali quali ad esempio l’acquisto del biglietto e la prenotazione online del posto. Un signore di Lamezia massiccio e barbuto che aveva augurato ad Alitalia le peggio cose, pure con valore retroattivo, ritratta tutto quando le leonesse gli porgono la carta d’imbarco con relativa promessa di rivedere i suoi cari in serata. «Ida! Ida!». E mo’ questa chi è? Circa ottanta cristiani inferociti si voltano a guardare la raccomandata che dà del tu alla leonessa e la chiama persino per nome. Eh no, favoritismi per la cognatina o l’amichetta, non è giornata… Ma la chiamante non è una raccomandata, e neppure un’amica di Ida, né la cognata. Trattasi di cittadina statunitense street smart, come dicono da quelle parti: una che se la sa cavare nelle vicissitudini della vita vissuta. Con dinamiche e tempismo newyorkese, l’astuta yankee ha letto quello che a noi italiani pare dettaglio trascurabile: la targhetta sul taschino con il nome dell’operatrice. Mentre noi la apostrofiamo con un generico facente funzioni di vocativo «Scusi», la newyorkese si è appropriata del nome, e l’ha fatta cosa (persona) propria: «Ida ma allora cosa devo fare adesso, mi metti su quello delle 20.40 o no?». Persino Ida si sorprende, fa lo sguardo di una che non riesce a scorgere l’amico da cui si è sentita chiamare, poi si ricompone e dà una risposta professionale in inglese. Non è mica scema, Ida: si difende come una leonessa anche dai tentativi di appropriarsi di lei attraverso il suo nome.Piove sempre sul bagnato. Dall’alto, un repentino crack: la furia dell’empireo si scatena su Alitalia sotto forma di doccia. Un tubo del condizionamento si rompe d’emblée in una sorta di diluvio universale, se non proprio catartico almeno umoristico, che lava via le carte d’imbarco impilate sul bancone neanche si credesse l’Arno in piena nel ’66. La scena, più che fantozziana, è onirica: ci starebbe benissimo che un passeggero impazzito improvvisasse una doccia con saponetta e shampoo in piedi nudo sul banco Alitalia. Ai pochi fortunati ammessi sull’ultimo volo della sera, le leonesse porgono carte d’imbarco fradicie, e compilano tra miagolii di contrizione le autorizzazioni alla riscossione del rimborso. Va da sé che quando arrivi in biglietteria, dove il bonus dovrebbe venire pagato, ti senti rispondere «Abbiamo finito il contante». Si viene congedati tutti con un bonus che qualche passeggero distratto finirà col dimenticare insieme a questa giornata, lavata via dall’ilarità di un tubo rotto e una doccia. Come nuovo logo Alitalia mi piacerebbe proporre un pulcino bagnato.
http://antefatto.ilcannocchiale.it/
Bocca della verita' - di Marco Travaglio.
Meno male che c’è Giorgio Bocca, ultimo grande vecchio del giornalismo italiano, che a quasi novant’anni ha avuto il coraggio di scrivere sull’ultimo numero dell’Espresso ciò che tutti sanno, ma nessuno osa dire: e cioè che anche insigni esponenti dell’Arma dei Carabinieri hanno avuto (e probabilmente hanno ancora) una parte importante nella connivenza-convivenza fra Stato e mafia.
Bocca non ha scritto, naturalmente, ciò che qualche furbastro tenta di attribuirgli per squalificare il suo pensiero: e cioè che “i Carabinieri”, nel senso di tutti e di sempre, hanno convissuto e convivono con Cosa Nostra. Ha scritto invece che: “il problema numero uno della nazione non è il conflitto fra il legale e l'illegale, fra guardie e ladri, fra capi bastone e le loro vittime inermi, ma il loro indissolubile patto di coesistenza. L'essere la mafia la mazza ferrata, la violenza che regola economia e rapporti sociali in province dove la legge è priva di forza o di consenso. Eppure la maggioranza degli italiani non se ne vuol convincere, si rifiuta di crederlo e quando il capo della mafia Totò Riina fa sapere che l'assassinio del giudice Paolo Borsellino è stato voluto o vi hanno partecipato i tutori dell'ordine, ufficiali dei carabinieri o servizi speciali, il buon italiano si dice: è l'ultima scellerataggine di Riina, mette male nel nostro virtuoso sistema sociale… Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo, ha detto o lasciato capire che i carabinieri 'nei secoli fedeli' si attennero nelle operazioni di mafia ad attenzioni speciali, clamorosa quanto rimasta senza spiegazioni credibili la mancata perquisizione nella villetta in cui Riina aveva abitato e guidato per anni la ‘onorata società’… Una ragione del ‘comportamento speciale’ della più efficiente polizia italiana verso la mafia c'è ed è evidente: i Carabinieri, come la mafia, non sono qualcosa di estraneo e di ostile alla società siciliana, fanno parte e parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia”.
Apriti cielo: una raffica di Gasparri, Cicchitto, Latorre, Minniti, La Russa, Casini, Maroni - insomma tutti i partiti tranne Leoluca Orlando (Idv) - ha investito il grande giornalista. Casini ha osato persino dargli dell’”infame”: lui, il leader del partito di Totò Cuffaro, con una densità di imputati di mafia che nemmeno a Corleone. Anche i soliti impuniti del Giornale berlusconiano, tradizionali protettori dell’ala deviata dell’Arma, hanno sparato a palle incatenate contro Bocca. Il gioco è semplice e spudorato: far dire a Bocca che tutti i carabinieri sono mafiosi. Il che, oltrechè una palese falsità, è anche una sciocchezza e un sintomo di ignoranza storica: nel 1982, poco prima di morire nei suoi 100 giorni a Palermo, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (promosso superprefetto senza poteri dal governo dell’epoca) chiamò proprio Bocca per dettargli la sua ultima intervista-testamento sulla mafia. Da grande giornalista e storico antimafia, Bocca sa benissimo che Cosa Nostra ha eliminato nella sua storia anche 33 carabinieri, oltre a centinaia fra magistrati, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, politici, cittadini comuni. Ma sa anche che erano carabinieri coloro che inscenarono la pantomima dell’omicidio di Salvatore Giuliano per coprire i mandanti di Portella della Ginestra; che sono carabinieri il generale Mori e il colonnello De Donno che trattavano con il mafioso Vito Ciancimino durante le stragi del 1992 e che, secondo Ciancimino jr., ricevettero il celebre “papello” di Totò Riina, ma si guardarono bene dal denunciare alla magistratura quell’estorsione mafiosa allo Stato; che erano carabinieri gli ufficiali filmati per ultimi in via d’Amelio mentre portavano via la borsa di Paolo Borsellino appena assassinato, borsa contenente (secondo la vedova del giudice) la famosa “agenda rossa” scomparsa; erano carabinieri gli uomini del Ros che arrestarono Riina il 15 gennaio ’93, ma “dimenticarono” di perquisirne il covo, lasciandolo svuotare con tutte le sue carte compromettenti dai mafiosi rimasti a piede libero e ingannando la Procura di Palermo; che sono carabinieri il generale Mori e il colonnello Obinu, imputati a Palermo per favoreggiamento alla mafia con l’accusa di aver lasciato scappare Provenzano nel 1995; che sono carabinieri il generale Ganzer (nientemeno che comandante del Ros) e alcuni suoi uomini imputati a Milano per traffico di droga; e che sono ancora carabinieri quelli che nel 2005 perquisirono la casa di Ciancimino jr., ma si scordarono di aprire la sua cassaforte, in cui secondo il padrone di casa era all’epoca custodito il papello di Riina; e potremmo andare avanti ancora. Su queste vicende gravissime, i vertici dell’Arma sono rimasti “nei secoli silenti”: mai una parola, mai un provvedimento per censurare certe condotte indecenti e per allontanarne o almeno sospenderne i responsabili (l’assoluzione di Mori per il covo di Riina, per esempio, parla di pesanti responsabilità disciplinari, rimaste ovviamente impunite). Silenzio di tomba, copertura totale (esattamente come fa la Polizia di Stato con i torturatori e i picchiatori del G8 di Genova 2001, vedi Diaz e Bolzaneto).
Invece, rompendo una lunga tradizione di silenzio stampa, il comando generale dell’Arma ha deciso di replicare a Bocca con un comunicato del generale Leonardo Gallitelli che “respinge con fermezza e con indignazione” le “ingiustificate e infamanti accuse che si risolvono nella delegittimazione dell'operato di fedeli servitori dello Stato”. Il generale fa il furbo, scrivendo che Bocca “sorprendentemente accosta Dalla Chiesa a figure come Totò Riina e Massimo Ciancimino, entrambi arrestati dai Carabinieri”. Già, peccato che quegli stessi carabinieri del Ros (Mori e De Donno) stessero trattando col mafioso Riina tramite il mafioso Ciancimino, come hanno essi stessi ammesso dinanzi alla magistratura, ma solo quando non potevano più negarlo (ne aveva parlato Giovanni Brusca, persino lui più pronto di loro a raccontare la verità). Profittando dell’improvvisa loquacità del Comando Generale, sarebbe interessante sapere se i vertici dell’Arma erano informati di quella trattativa; e chi l’aveva autorizzata; e perché uomini in divisa negoziavano con noti mafiosi mentre Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte saltavano in aria a Capaci e in via d’Amelio; e perché sono ancora al loro posto, anzi hanno fatto carriera. Finchè il generale Gallitelli o chi per lui non risponderà a queste domande, è meglio che lasci in pace Giorgio Bocca. Anche perché ciò che il grande giornalista ha scritto sull’Espresso è ampiamente confermato dalle sentenze definitive sulla strage di via d’Amelio: per esempio quella emessa il 18 marzo 2002 dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel processo Borsellino-bis, confermata dalla Cassazione il 3 luglio 2003, a carico dei mandanti diretti (ma non di quelli occulti, esterni a Cosa Nostra). Chi volesse darci un’occhiata, trova le sentenze sul sito della rivista Antimafia 2000 e su quello di Salvatore Borsellino (19luglio1992.org). Al capitolo V (pagina 732 e seguenti), i giudici esaminano la possibile convergenza di interessi palesi e occulti nella strage, individuando tre moventi che portarono all’accelerazione della fase esecutiva dell’omicidio Borsellino.
Questi:1) L’intervista rilasciata il 21 maggio 1992 da Borsellino ai giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, in cui si parla del riciclaggio del denaro mafioso al Nord e di un’indagine ancora aperta sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e lo “stalliere di Arcore” Vittorio Mangano, “testa di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia per il traffico di eroina”. “Non è detto - scrivono i giudici di appello a pagina 756 - che i contenuti di quell’intervista non siano circolati tra i diversi interessati, che qualcuno non ne abbia informato Salvatore Riina e che questi ne abbia tratto autonomamente le dovute conseguenze, visto che, come abbiamo detto in precedenza, questa Corte ritiene, come Brusca e non come Cancemi, che il Riina possa aver tenuto presente nel decidere la strage gli interessi di persone che intendeva ‘garantire per ora e per il futuro, senza per questo eseguire un loro ordine o prendere formali accordi o intese o dover mantenere promesse’…”.
2) “La seconda ‘anomalia’ o ‘patologia’ che spiega l’anticipazione della strage - aggiunge la Corte a pagina 758 - attiene alla vicenda della ‘trattativa’ con Cosa nostra di cui ha parlato Giovanni Brusca. Le indicazioni che offre il Brusca sono illuminanti. Per Brusca, Borsellino muore il 19 luglio 1992 per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato era venuto a conoscenza della trattativa e si era rifiutato di assecondarla e di starsene zitto. Nel giro di pochi giorni dall’avvio della trattativa Borsellino viene massacrato”. E’ la trattativa di Mori e De Donno con i vertici di Cosa Nostra tramite Ciancimino: “Non disponiamo di riscontri al se, come e quando Borsellino abbia saputo della trattativa che era stata avviata. Che la trattativa vi sia stata è stato confermato dal generale Mori e dal capitano De Donno. E che Riina legasse la strage eseguita e quelle pianificate dopo Capaci a questa trattativa ci è dichiarato a chiare lettere da Brusca… L’ufficiale (Giuseppe De Donno) precisava che l’obiettivo ultimo era di arrivare ad una collaborazione formale del Ciancimino ma che la proposta iniziale era stata di farsi tramite, per conto dei carabinieri, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa per un dialogo finalizzato all’immediata cessazione della strategia stragista (…). In tutti i casi, questa vicenda rappresenta un fattore che ha interferito con i processi decisionali della strage. Al di là delle buone intenzioni dei carabinieri che vi hanno preso parte, chi decise la strage dovette porsi il problema del significato da attribuire a quella mossa di rappresentanti dello Stato; il significato che vi venne attribuito, nella complessa partita che si era avviata, fu che il gioco al rialzo poteva essere pagante” (pagine 765-766). In parole povere: anziché fermare le stragi, la trattativa del Ros le incentivò e le moltiplicò. Infatti, dopo Capaci, vi fu subito via d’Amelio e, visto che i due alti ufficiali dell’Arma continuavano a trattare, venne pianificata la strategia terroristica del 1993 (che sfociò nelle bombe di Roma, Milano e Firenze fra il maggio e il luglio del 1993).
3) “La terza chiave interpretativa dell’‘anomalia’ e ‘patologia’ nella tempistica della strage si aggancia alla proposta (da parte del governo dell’epoca, ndr) di Paolo Borsellino quale candidato al posto di Procuratore nazionale antimafia dopo la morte di Giovanni Falcone” (pagina 767).
Ce n’è abbastanza per dare ragione a Giorgio Bocca e torto ai suoi infami detrattori. E per dimostrare ancora una volta, semmai ve ne fosse bisogno, che non è più questione di destra o di sinistra. Oggi la scelta è fra il partito della menzogna, dell’impunità e dell’oblio, e quello della verità, della giustizia e della memoria
Mosca tzé tzé
Tratto da: Antefatto.it
http://www.antimafiaduemila.com/content/view/18670/78/
Bocca non ha scritto, naturalmente, ciò che qualche furbastro tenta di attribuirgli per squalificare il suo pensiero: e cioè che “i Carabinieri”, nel senso di tutti e di sempre, hanno convissuto e convivono con Cosa Nostra. Ha scritto invece che: “il problema numero uno della nazione non è il conflitto fra il legale e l'illegale, fra guardie e ladri, fra capi bastone e le loro vittime inermi, ma il loro indissolubile patto di coesistenza. L'essere la mafia la mazza ferrata, la violenza che regola economia e rapporti sociali in province dove la legge è priva di forza o di consenso. Eppure la maggioranza degli italiani non se ne vuol convincere, si rifiuta di crederlo e quando il capo della mafia Totò Riina fa sapere che l'assassinio del giudice Paolo Borsellino è stato voluto o vi hanno partecipato i tutori dell'ordine, ufficiali dei carabinieri o servizi speciali, il buon italiano si dice: è l'ultima scellerataggine di Riina, mette male nel nostro virtuoso sistema sociale… Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo, ha detto o lasciato capire che i carabinieri 'nei secoli fedeli' si attennero nelle operazioni di mafia ad attenzioni speciali, clamorosa quanto rimasta senza spiegazioni credibili la mancata perquisizione nella villetta in cui Riina aveva abitato e guidato per anni la ‘onorata società’… Una ragione del ‘comportamento speciale’ della più efficiente polizia italiana verso la mafia c'è ed è evidente: i Carabinieri, come la mafia, non sono qualcosa di estraneo e di ostile alla società siciliana, fanno parte e parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia”.
Apriti cielo: una raffica di Gasparri, Cicchitto, Latorre, Minniti, La Russa, Casini, Maroni - insomma tutti i partiti tranne Leoluca Orlando (Idv) - ha investito il grande giornalista. Casini ha osato persino dargli dell’”infame”: lui, il leader del partito di Totò Cuffaro, con una densità di imputati di mafia che nemmeno a Corleone. Anche i soliti impuniti del Giornale berlusconiano, tradizionali protettori dell’ala deviata dell’Arma, hanno sparato a palle incatenate contro Bocca. Il gioco è semplice e spudorato: far dire a Bocca che tutti i carabinieri sono mafiosi. Il che, oltrechè una palese falsità, è anche una sciocchezza e un sintomo di ignoranza storica: nel 1982, poco prima di morire nei suoi 100 giorni a Palermo, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (promosso superprefetto senza poteri dal governo dell’epoca) chiamò proprio Bocca per dettargli la sua ultima intervista-testamento sulla mafia. Da grande giornalista e storico antimafia, Bocca sa benissimo che Cosa Nostra ha eliminato nella sua storia anche 33 carabinieri, oltre a centinaia fra magistrati, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, politici, cittadini comuni. Ma sa anche che erano carabinieri coloro che inscenarono la pantomima dell’omicidio di Salvatore Giuliano per coprire i mandanti di Portella della Ginestra; che sono carabinieri il generale Mori e il colonnello De Donno che trattavano con il mafioso Vito Ciancimino durante le stragi del 1992 e che, secondo Ciancimino jr., ricevettero il celebre “papello” di Totò Riina, ma si guardarono bene dal denunciare alla magistratura quell’estorsione mafiosa allo Stato; che erano carabinieri gli ufficiali filmati per ultimi in via d’Amelio mentre portavano via la borsa di Paolo Borsellino appena assassinato, borsa contenente (secondo la vedova del giudice) la famosa “agenda rossa” scomparsa; erano carabinieri gli uomini del Ros che arrestarono Riina il 15 gennaio ’93, ma “dimenticarono” di perquisirne il covo, lasciandolo svuotare con tutte le sue carte compromettenti dai mafiosi rimasti a piede libero e ingannando la Procura di Palermo; che sono carabinieri il generale Mori e il colonnello Obinu, imputati a Palermo per favoreggiamento alla mafia con l’accusa di aver lasciato scappare Provenzano nel 1995; che sono carabinieri il generale Ganzer (nientemeno che comandante del Ros) e alcuni suoi uomini imputati a Milano per traffico di droga; e che sono ancora carabinieri quelli che nel 2005 perquisirono la casa di Ciancimino jr., ma si scordarono di aprire la sua cassaforte, in cui secondo il padrone di casa era all’epoca custodito il papello di Riina; e potremmo andare avanti ancora. Su queste vicende gravissime, i vertici dell’Arma sono rimasti “nei secoli silenti”: mai una parola, mai un provvedimento per censurare certe condotte indecenti e per allontanarne o almeno sospenderne i responsabili (l’assoluzione di Mori per il covo di Riina, per esempio, parla di pesanti responsabilità disciplinari, rimaste ovviamente impunite). Silenzio di tomba, copertura totale (esattamente come fa la Polizia di Stato con i torturatori e i picchiatori del G8 di Genova 2001, vedi Diaz e Bolzaneto).
Invece, rompendo una lunga tradizione di silenzio stampa, il comando generale dell’Arma ha deciso di replicare a Bocca con un comunicato del generale Leonardo Gallitelli che “respinge con fermezza e con indignazione” le “ingiustificate e infamanti accuse che si risolvono nella delegittimazione dell'operato di fedeli servitori dello Stato”. Il generale fa il furbo, scrivendo che Bocca “sorprendentemente accosta Dalla Chiesa a figure come Totò Riina e Massimo Ciancimino, entrambi arrestati dai Carabinieri”. Già, peccato che quegli stessi carabinieri del Ros (Mori e De Donno) stessero trattando col mafioso Riina tramite il mafioso Ciancimino, come hanno essi stessi ammesso dinanzi alla magistratura, ma solo quando non potevano più negarlo (ne aveva parlato Giovanni Brusca, persino lui più pronto di loro a raccontare la verità). Profittando dell’improvvisa loquacità del Comando Generale, sarebbe interessante sapere se i vertici dell’Arma erano informati di quella trattativa; e chi l’aveva autorizzata; e perché uomini in divisa negoziavano con noti mafiosi mentre Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte saltavano in aria a Capaci e in via d’Amelio; e perché sono ancora al loro posto, anzi hanno fatto carriera. Finchè il generale Gallitelli o chi per lui non risponderà a queste domande, è meglio che lasci in pace Giorgio Bocca. Anche perché ciò che il grande giornalista ha scritto sull’Espresso è ampiamente confermato dalle sentenze definitive sulla strage di via d’Amelio: per esempio quella emessa il 18 marzo 2002 dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel processo Borsellino-bis, confermata dalla Cassazione il 3 luglio 2003, a carico dei mandanti diretti (ma non di quelli occulti, esterni a Cosa Nostra). Chi volesse darci un’occhiata, trova le sentenze sul sito della rivista Antimafia 2000 e su quello di Salvatore Borsellino (19luglio1992.org). Al capitolo V (pagina 732 e seguenti), i giudici esaminano la possibile convergenza di interessi palesi e occulti nella strage, individuando tre moventi che portarono all’accelerazione della fase esecutiva dell’omicidio Borsellino.
Questi:1) L’intervista rilasciata il 21 maggio 1992 da Borsellino ai giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, in cui si parla del riciclaggio del denaro mafioso al Nord e di un’indagine ancora aperta sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e lo “stalliere di Arcore” Vittorio Mangano, “testa di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia per il traffico di eroina”. “Non è detto - scrivono i giudici di appello a pagina 756 - che i contenuti di quell’intervista non siano circolati tra i diversi interessati, che qualcuno non ne abbia informato Salvatore Riina e che questi ne abbia tratto autonomamente le dovute conseguenze, visto che, come abbiamo detto in precedenza, questa Corte ritiene, come Brusca e non come Cancemi, che il Riina possa aver tenuto presente nel decidere la strage gli interessi di persone che intendeva ‘garantire per ora e per il futuro, senza per questo eseguire un loro ordine o prendere formali accordi o intese o dover mantenere promesse’…”.
2) “La seconda ‘anomalia’ o ‘patologia’ che spiega l’anticipazione della strage - aggiunge la Corte a pagina 758 - attiene alla vicenda della ‘trattativa’ con Cosa nostra di cui ha parlato Giovanni Brusca. Le indicazioni che offre il Brusca sono illuminanti. Per Brusca, Borsellino muore il 19 luglio 1992 per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato era venuto a conoscenza della trattativa e si era rifiutato di assecondarla e di starsene zitto. Nel giro di pochi giorni dall’avvio della trattativa Borsellino viene massacrato”. E’ la trattativa di Mori e De Donno con i vertici di Cosa Nostra tramite Ciancimino: “Non disponiamo di riscontri al se, come e quando Borsellino abbia saputo della trattativa che era stata avviata. Che la trattativa vi sia stata è stato confermato dal generale Mori e dal capitano De Donno. E che Riina legasse la strage eseguita e quelle pianificate dopo Capaci a questa trattativa ci è dichiarato a chiare lettere da Brusca… L’ufficiale (Giuseppe De Donno) precisava che l’obiettivo ultimo era di arrivare ad una collaborazione formale del Ciancimino ma che la proposta iniziale era stata di farsi tramite, per conto dei carabinieri, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa per un dialogo finalizzato all’immediata cessazione della strategia stragista (…). In tutti i casi, questa vicenda rappresenta un fattore che ha interferito con i processi decisionali della strage. Al di là delle buone intenzioni dei carabinieri che vi hanno preso parte, chi decise la strage dovette porsi il problema del significato da attribuire a quella mossa di rappresentanti dello Stato; il significato che vi venne attribuito, nella complessa partita che si era avviata, fu che il gioco al rialzo poteva essere pagante” (pagine 765-766). In parole povere: anziché fermare le stragi, la trattativa del Ros le incentivò e le moltiplicò. Infatti, dopo Capaci, vi fu subito via d’Amelio e, visto che i due alti ufficiali dell’Arma continuavano a trattare, venne pianificata la strategia terroristica del 1993 (che sfociò nelle bombe di Roma, Milano e Firenze fra il maggio e il luglio del 1993).
3) “La terza chiave interpretativa dell’‘anomalia’ e ‘patologia’ nella tempistica della strage si aggancia alla proposta (da parte del governo dell’epoca, ndr) di Paolo Borsellino quale candidato al posto di Procuratore nazionale antimafia dopo la morte di Giovanni Falcone” (pagina 767).
Ce n’è abbastanza per dare ragione a Giorgio Bocca e torto ai suoi infami detrattori. E per dimostrare ancora una volta, semmai ve ne fosse bisogno, che non è più questione di destra o di sinistra. Oggi la scelta è fra il partito della menzogna, dell’impunità e dell’oblio, e quello della verità, della giustizia e della memoria
Mosca tzé tzé
Tratto da: Antefatto.it
http://www.antimafiaduemila.com/content/view/18670/78/
venerdì 14 agosto 2009
Silvio all news - di Denise Pardo
L'occupazione dei Tg e delle reti Rai. La militarizzazione dei giornali di famiglia. Le minacce al Tg3. La lunga marcia del Cavaliere per blindare l'informazione
Roma, giovedì 6 agosto, San Goderanno (e sarà probabile), ristorante del circuito politico e giornalistico a due passi da Montecitorio. Intorno a un tavolo, esponenti del gran mondo, nuovo, del potere tv: Mario Orfeo, fresco direttore del Tg2, carriera inappuntabile, votato all'unanimità dal cda Rai, stimato da Carfagna, Bocchino e da Lui, il Cavaliere in persona. Seduto al suo fianco, Massimo Liofredi, noto fra i buontemponi Rai come 'Phon man' o 'Bellicapelli' e si può immaginare perché. Da anni capo struttura di RaiUno, da poco assurto al vertice di RaiDue, in quota Forza Italia, l'uomo, per intenderci, a cui dovrà rispondere Michele Santoro, ha al suo attivo una comparsata nell'inchiesta della banda della Magliana: colpa dell'acquisto di una macchina, spiegò lui, intercettato mentre Antonio Nicoletti, figlio del cassiere della nota band, gli segnalava, tanto per cambiare, una bella figliola. Insieme tutti e due ad ascoltare attentamente le parole del terzo uomo. E che uomo! Antonio Verro, consigliere Rai, scelto (c'è bisogno di dirlo?) dai notabili azzurroni. Una colazione tra amici? O un vertice a tre? In altri tempi, l'incontro sarebbe stato considerato a dir poco inopportuno. Non ora, che lo spiegamento mediatico berlusconiano non conosce e non vuole conoscere confini. Né soprattutto ragioni.La fase è nuova. Non nella sostanza, che è ben nota. Ma nella potenza. Nella forma. Nella avidità esibita nelle minacce persino al Tg3. Da viale Mazzini a Cologno Monzese, dal laghetto di Segrate (Mondadori) a via Negri (sede del 'Giornale'), a via Asiago (storico indirizzo della radio pubblica) sull'impero dell'informazione nell'orbita berlusconiana non dovrà tramontare mai il sole. Tanto, united colors of Berlusconi, lato media, gran parte del dado è tratto e con le nuove province di tg, gr e delle direzioni della carta stampata, la marcia trionfale del Cavaliere va avanti alla grande. Lui, d'altra parte, non ha tempo da perdere.
L'autunno è alle porte. E il patriarca avrà bisogno di una primavera nei media. Lo aspettano mesi duri. Il lodo Alfano. Le trame degli alleati. Le questione etiche, eretiche, erotiche. Le elezioni amministrative del 2010. E sullo sfondo, la battaglia delle battaglie, il sogno dei sogni, il Colle dei colli. Impossibile affrontare tutto questo senza una gioiosa macchina da guerra mediatica in cui seggiole e poltrone non siano state approvate, se non scelte, da lui in persona. Così ha voluto. Così è stato.Prima, l'addio da Canale 5 dello scomodo grillo parlante Enrico Mentana. Dopo, il contratto per la conduzione di 'Matrix' ad Alessio Vinci che, nuovo dell'ambiente, e non autorevole come il fondatore del Tg5, è sotto continuo tentativo di mediasettizzazione ("Una puntata su Vito Ciancimino? Fantastico: aspettiamo, però, che vada in onda la fiction sulla mafia", gestiscono i capi dei palinsesti e del marketing). Poi Augusto Minzolini, il giornalista del cuore, l'ombra del Cavaliere piazzato alfine a firmare il Tg1, il più importante d'Italia. Circondato anche da un cordoncino sanitario di neo nominati: i vice direttori Susanna Petruni, giornalista assennata che rispose di preferire una serata con il Cavaliere a una con un George Clooney qualunque, e Gennaro Sangiuliano, culo di pietra e cervello fino, lobby Gianfranco Fini. Al Tg2, ecco salire la stella di Mario Orfeo, figura non organica, molto apprezzata nei raid napoletani dal premier, poi scritturata fra i direttori 'Door to door' , quelli delle poltrone bianche di Bruno Vespa, quando l'ospite è Berlusconi. Risultato: vari piccioni con varie fave, visto che al posto di Orfeo alla direzione del 'Mattino' del pluto-editore Franco Caltagirone, è stato nominato il vice, Virman Cusenza, professionista a modo, quasi di casa berlusconiana, cresciuto al 'Giornale' dove ha lavorato più di dieci anni prima di passare al 'Messaggero'.Così Napoli, i suoi guai e le future elezioni: tutto sistemato. Come l'altro obiettivo per la campagna d'autunno. Il fausto ritorno di Vittorio Feltri alla direzione del 'Giornale' (con tanto di entourage ex 'Libero': l'alter ego ed ex direttore responsabile Alessandro Sallusti, l'ex direttore generale Gianni Di Giore, forse Renato Farina e anche la santa firma Antonio Socci) con il compito di farne un quotidiano da bombardamento con licenza per artiglieria pesante e armi nucleari, pronto a piazzare quattro fotografi sotto casa di Antonio Di Pietro e capace di contrastare gli attacchi della stampa nemica. E anche di affiancare la fronda amica ma scapigliata, a volte poco pop del 'Foglio' di Giuliano Ferrara. Dopo aver disdegnato a lungo la carta stampata ("In Italia i giornali vengono letti con attenzione solo da 5 mila persona", era il refrain che faceva uscire pazzo Gianni Letta), ora il premier sembra rendersi improvvisamente conto che, per esempio, le cancellerie internazionali non accendono il Tg5 del caro fedele Clemente J. Mimun o il Tg4 dell'ancor più caro e fedelissimo Emilio Fede per farsi un opinione. Ma traducono, invece, i giornali.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/silvio-all-news/2106854/8
Roma, giovedì 6 agosto, San Goderanno (e sarà probabile), ristorante del circuito politico e giornalistico a due passi da Montecitorio. Intorno a un tavolo, esponenti del gran mondo, nuovo, del potere tv: Mario Orfeo, fresco direttore del Tg2, carriera inappuntabile, votato all'unanimità dal cda Rai, stimato da Carfagna, Bocchino e da Lui, il Cavaliere in persona. Seduto al suo fianco, Massimo Liofredi, noto fra i buontemponi Rai come 'Phon man' o 'Bellicapelli' e si può immaginare perché. Da anni capo struttura di RaiUno, da poco assurto al vertice di RaiDue, in quota Forza Italia, l'uomo, per intenderci, a cui dovrà rispondere Michele Santoro, ha al suo attivo una comparsata nell'inchiesta della banda della Magliana: colpa dell'acquisto di una macchina, spiegò lui, intercettato mentre Antonio Nicoletti, figlio del cassiere della nota band, gli segnalava, tanto per cambiare, una bella figliola. Insieme tutti e due ad ascoltare attentamente le parole del terzo uomo. E che uomo! Antonio Verro, consigliere Rai, scelto (c'è bisogno di dirlo?) dai notabili azzurroni. Una colazione tra amici? O un vertice a tre? In altri tempi, l'incontro sarebbe stato considerato a dir poco inopportuno. Non ora, che lo spiegamento mediatico berlusconiano non conosce e non vuole conoscere confini. Né soprattutto ragioni.La fase è nuova. Non nella sostanza, che è ben nota. Ma nella potenza. Nella forma. Nella avidità esibita nelle minacce persino al Tg3. Da viale Mazzini a Cologno Monzese, dal laghetto di Segrate (Mondadori) a via Negri (sede del 'Giornale'), a via Asiago (storico indirizzo della radio pubblica) sull'impero dell'informazione nell'orbita berlusconiana non dovrà tramontare mai il sole. Tanto, united colors of Berlusconi, lato media, gran parte del dado è tratto e con le nuove province di tg, gr e delle direzioni della carta stampata, la marcia trionfale del Cavaliere va avanti alla grande. Lui, d'altra parte, non ha tempo da perdere.
L'autunno è alle porte. E il patriarca avrà bisogno di una primavera nei media. Lo aspettano mesi duri. Il lodo Alfano. Le trame degli alleati. Le questione etiche, eretiche, erotiche. Le elezioni amministrative del 2010. E sullo sfondo, la battaglia delle battaglie, il sogno dei sogni, il Colle dei colli. Impossibile affrontare tutto questo senza una gioiosa macchina da guerra mediatica in cui seggiole e poltrone non siano state approvate, se non scelte, da lui in persona. Così ha voluto. Così è stato.Prima, l'addio da Canale 5 dello scomodo grillo parlante Enrico Mentana. Dopo, il contratto per la conduzione di 'Matrix' ad Alessio Vinci che, nuovo dell'ambiente, e non autorevole come il fondatore del Tg5, è sotto continuo tentativo di mediasettizzazione ("Una puntata su Vito Ciancimino? Fantastico: aspettiamo, però, che vada in onda la fiction sulla mafia", gestiscono i capi dei palinsesti e del marketing). Poi Augusto Minzolini, il giornalista del cuore, l'ombra del Cavaliere piazzato alfine a firmare il Tg1, il più importante d'Italia. Circondato anche da un cordoncino sanitario di neo nominati: i vice direttori Susanna Petruni, giornalista assennata che rispose di preferire una serata con il Cavaliere a una con un George Clooney qualunque, e Gennaro Sangiuliano, culo di pietra e cervello fino, lobby Gianfranco Fini. Al Tg2, ecco salire la stella di Mario Orfeo, figura non organica, molto apprezzata nei raid napoletani dal premier, poi scritturata fra i direttori 'Door to door' , quelli delle poltrone bianche di Bruno Vespa, quando l'ospite è Berlusconi. Risultato: vari piccioni con varie fave, visto che al posto di Orfeo alla direzione del 'Mattino' del pluto-editore Franco Caltagirone, è stato nominato il vice, Virman Cusenza, professionista a modo, quasi di casa berlusconiana, cresciuto al 'Giornale' dove ha lavorato più di dieci anni prima di passare al 'Messaggero'.Così Napoli, i suoi guai e le future elezioni: tutto sistemato. Come l'altro obiettivo per la campagna d'autunno. Il fausto ritorno di Vittorio Feltri alla direzione del 'Giornale' (con tanto di entourage ex 'Libero': l'alter ego ed ex direttore responsabile Alessandro Sallusti, l'ex direttore generale Gianni Di Giore, forse Renato Farina e anche la santa firma Antonio Socci) con il compito di farne un quotidiano da bombardamento con licenza per artiglieria pesante e armi nucleari, pronto a piazzare quattro fotografi sotto casa di Antonio Di Pietro e capace di contrastare gli attacchi della stampa nemica. E anche di affiancare la fronda amica ma scapigliata, a volte poco pop del 'Foglio' di Giuliano Ferrara. Dopo aver disdegnato a lungo la carta stampata ("In Italia i giornali vengono letti con attenzione solo da 5 mila persona", era il refrain che faceva uscire pazzo Gianni Letta), ora il premier sembra rendersi improvvisamente conto che, per esempio, le cancellerie internazionali non accendono il Tg5 del caro fedele Clemente J. Mimun o il Tg4 dell'ancor più caro e fedelissimo Emilio Fede per farsi un opinione. Ma traducono, invece, i giornali.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/silvio-all-news/2106854/8
Antimafia omeopatica. - Marco Travaglio
Meno male che c’è Roberto Formigoni, testè nominato «governatore della Lombardia a vita» dall’amico Silvio. Senza di lui, nessuno avrebbe potuto sospettare che le mafie stessero tentando di mettere le mani sui 15 miliardi di euro che stanno per piovere su Milano per la baracconata di Expo 2015. Invece, vigile come una talpa in letargo, il pio governatore ha ricevuto «segnali da più parti di tentativi molto preoccupanti di infiltrazioni mafiose nei cantieri».
Probabilmente, scartando il pesce, dev’essergli capitato un foglio di giornale con uno delle migliaia di articoli usciti negli ultimi due-tre anni sugli allarmi lanciati da magistrati, analisti, forze dell’ordine. Così, vivamente «preoccupato», ha varato in men che non si dica un «Comitato per la legalità» per la «prevenzione al crimine organizzato». Sfumate le candidature dell’eroico Vittorio Mangano, prematuramente mancato all’affetto dei suoi cari, e di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, molto devoti anche loro, si è optato alla fine per due ex giudici di chiara fama, Giuseppe Grechi e Salvatore Boemi. Per non lasciarli soli, i due saranno affiancati da due carabinieri provenienti dal Ros e dal Sisde: il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno.
In qualità, si presume, di esperti in materia: si tratta infatti degli stessi Mori e De Donno che nel 1992, subito dopo Capaci e poi anche dopo via d’Amelio, avviarono una trattativa con Vito Ciancimino e i capi di Cosa Nostra, Riina e Provenzano, che avevano appena assassinato Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte: la trattativa del «papello», consegnato da Riina a Ciancimino e da questo a Mori, almeno secondo le ultime rivelazioni del figlio del sindaco mafioso di Palermo. Mori, poi, è stato imputato per la mancata perquisizione del covo di Riina nel gennaio ’93 (assoluzione, ma con pesanti addebiti sul piano disciplinare) e lo è tuttora per favoreggiamento aggravato alla mafia con l’accusa di non aver arrestato Provenzano già nel 1995, quando l’ex mafioso Luigi Ilardo ne segnalò la presenza in un casolare di Mezzojuso al colonnello Michele Riccio.
Ora Mori aiuterà Formigoni a «monitorare, vigilare, studiare le procedure di controllo sugli appalti e dare consulenza alle imprese» perché stiano alla larga dalla mafia. Noi ovviamente non crediamo a una sola delle accuse che pendono sul suo capo, certamente frutto di «teoremi giudiziari» e «giustizia spettacolo», come direbbero Berlusconi e Vendola. Ma una domanda a Formigoni vorremmo porla lo stesso: non le pare che l’uomo che dimenticò di perquisire il covo di Riina, che si scordò di denunciare alla magistratura le richieste estorsive della mafia allo Stato nel famigerato papello, che pensò di combattere la mafia delle stragi trattando con chi le aveva appena realizzate e che è accusato di essersi lasciato sfuggire Provenzano, come sentinella antimafia sia un po’ sbadato?
http://www.unita.it/news/ora_d_aria/87241/antimafia_omeopatica
Probabilmente, scartando il pesce, dev’essergli capitato un foglio di giornale con uno delle migliaia di articoli usciti negli ultimi due-tre anni sugli allarmi lanciati da magistrati, analisti, forze dell’ordine. Così, vivamente «preoccupato», ha varato in men che non si dica un «Comitato per la legalità» per la «prevenzione al crimine organizzato». Sfumate le candidature dell’eroico Vittorio Mangano, prematuramente mancato all’affetto dei suoi cari, e di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, molto devoti anche loro, si è optato alla fine per due ex giudici di chiara fama, Giuseppe Grechi e Salvatore Boemi. Per non lasciarli soli, i due saranno affiancati da due carabinieri provenienti dal Ros e dal Sisde: il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno.
In qualità, si presume, di esperti in materia: si tratta infatti degli stessi Mori e De Donno che nel 1992, subito dopo Capaci e poi anche dopo via d’Amelio, avviarono una trattativa con Vito Ciancimino e i capi di Cosa Nostra, Riina e Provenzano, che avevano appena assassinato Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte: la trattativa del «papello», consegnato da Riina a Ciancimino e da questo a Mori, almeno secondo le ultime rivelazioni del figlio del sindaco mafioso di Palermo. Mori, poi, è stato imputato per la mancata perquisizione del covo di Riina nel gennaio ’93 (assoluzione, ma con pesanti addebiti sul piano disciplinare) e lo è tuttora per favoreggiamento aggravato alla mafia con l’accusa di non aver arrestato Provenzano già nel 1995, quando l’ex mafioso Luigi Ilardo ne segnalò la presenza in un casolare di Mezzojuso al colonnello Michele Riccio.
Ora Mori aiuterà Formigoni a «monitorare, vigilare, studiare le procedure di controllo sugli appalti e dare consulenza alle imprese» perché stiano alla larga dalla mafia. Noi ovviamente non crediamo a una sola delle accuse che pendono sul suo capo, certamente frutto di «teoremi giudiziari» e «giustizia spettacolo», come direbbero Berlusconi e Vendola. Ma una domanda a Formigoni vorremmo porla lo stesso: non le pare che l’uomo che dimenticò di perquisire il covo di Riina, che si scordò di denunciare alla magistratura le richieste estorsive della mafia allo Stato nel famigerato papello, che pensò di combattere la mafia delle stragi trattando con chi le aveva appena realizzate e che è accusato di essersi lasciato sfuggire Provenzano, come sentinella antimafia sia un po’ sbadato?
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