mercoledì 30 giugno 2010

Pisanu: «Dietro le stragi intreccio tra politica e apparati deviati» -




L'ANALISI SVILUPPATA DAL PRESIDENTE DELL'ANTIMAFIA.


«Trattativa? Ci fu qualcosa del genere. Nel '92-'93 la democrazia è stata in pericolo». Grasso: servono prove.

MILANO - «È ragionevole ipotizzare che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra Cosa Nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica. Questa attitudine a entrare in combinazioni diverse è nella storia della mafia e, soprattutto è nella natura stessa della borghesia mafiosa». È questa l'analisi sviluppata dal presidente della commissione parlamentare Antimafia Beppe Pisanu nella sua relazione su «I grandi delitti e le stragi di mafia '92-'93», illustrata mercoledì all'organismo di inchiesta.

DUE TRATTATIVE - Pisanu ha ricostruito dettagliatamente i vari passaggi degli "omicidi eccellenti" e delle stragi a partire da quella mancata dell'Addaura, dicendo che ormai vi sono notizie «abbastanza chiare» su due trattative: «quella tra Mori e Ciancimino, che forse fu la deviazione di un'audace attività investigativa, e quella tra Bellini-Gioè-Brusca-Riina, da cui nacque l'idea di aggredire il patrimonio artistico dello Stato». Negli anni delle stragi, tra governo italiano e mafia «qualcosa del genere (una trattativa) ci fu e Cosa Nostra l'accompagnò con inaudite ostentazioni di forza» scrive il presidente della commissione.

INTERVENTI ESTERNI - «Anche la semplice narrazione dei fatti induce a ritenere che vi furono interventi esterni alla mafia nella programmazione ed esecuzione delle stragi - si legge ancora nella relazione -. Fin dall'agosto del '93 un rapporto della Dia aveva intravisto e descritto un'aggregazione di tipo orizzontale, in cui rientravano, oltre alla mafia, talune logge massoniche di Palermo e Trapani, gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti. Sulla stessa linea, pur restringendo il campo, il procuratore di Caltanissetta Lari ha sostenuto recentemente che Cosa Nostra non è stata eterodiretta da entità altre, ma che al tavolo delle decisioni si siano trovati, accanto ai mafiosi, soggetti deviati dell'apparato istituzionale che hanno tradito lo Stato con lo scopo di destabilizzare il Paese mettendo a disposizione un know-how strategico e militare». A luglio lo stesso procuratore - spiega Pisanu - aveva anticipato che, dopo le dichiarazioni di Spatuzza, «le investigazioni hanno lasciato la pista puramente mafiosa e puntano a scoprire un patto fra i boss di Cosa Nostra e servizi segreti». «Probabilmente - conclude l'ex ministro - Provenzano fu insieme a Ciancimino tra i protagonisti di trattative del genere, mentre Riina ne fu, almeno in parte, la posta. Trattative complesse e a tutt'oggi oscure, nelle quali entrarono a vario titolo, per convergenza di interessi, soggetti diversi, ma tutti dotati di un concreto potere contrattuale da mettere sul piatto. Altrimenti Cosa Nostra li avrebbe rifiutati».

L'ARTICOLO 41 BIS - Pisanu ha osservato che l'elemento probabilmente sottostante al confronto mafia-Stato era l'abolizione del 41bis e il «ridimensionamento di tutte le attività di prevenzione e repressione». A riscontro cita una «singolare corrispondenza di date che si verifica, a partire dal maggio del '93, tra le stragi sul territorio continentale e la scadenza di tre blocchi di 41bis emessi nell'anno precedente».

MAFIA E POLITICA - «Cosa Nostra ha forse rinunciato all'idea di confrontarsi da pari a pari con lo Stato, ma non ha certo rinunciato alla politica - afferma Pisanu nella sua relazione -. Bloccato il braccio militare, ha certamente curato le sue relazioni, i suoi affari, il suo potere. Ma dagli anni '90 a oggi ha perduto quasi tutti i suoi maggiori esponenti, mentre in Sicilia è cresciuta grandemente un'opposizione sociale alla mafia che ha i suoi eroi e i suoi obiettivi civili e procede decisamente accanto alla magistratura e alle forze dell'ordine».

«NARRACCI FORSE INDAGATO» - In particolare nel capitolo dedicato alla strage di via D'Amelio, Pisanu scrive che «le prime indagini avrebbero subito rilevanti forzature anche ad opera di funzionari della polizia di Stato legati ai servizi segreti. Ora è legittimo chiedersi se tali forzature nacquero dal'ansia degli investigatori di dare una risposta appagante all'opinione pubblica sconvolta o se invece nacquero da un deliberato proposito di depistaggio. Non ci sono, almeno per ora, risposte documentate. Sulla scena, comunque, riappaiono le ombre dei servizi segreti. Prima fra tutte, quella del dottor Lorenzo Narracci a quanto pare indagato a Caltanissetta». Sempre riferendosi al funzionario dell'Aisi, Pisanu scrive ancora: «Gaspare Spatuzza lo ha vagamente riconosciuto in fotografia come persona esterna a Cosa Nostra; mentre Massimo Ciancimino, testimone piuttosto discusso, lo ha indicato come accompagnatore del misterioso signor Franco o Carlo» che secondo il figlio dell'ex sindaco di Palermo avrebbe seguito Vito Ciancimino nel corso della «cosiddetta trattativa tra Stato e Cosa Nostra».

GRASSO: SERVONO PROVE - «Le teorie sono belle ma nei processi abbiamo bisogno delle prove giudiziarie. Le prove costruite su tante fonti non hanno mai consentito di costruire la prova penale individualizzante in grado di accertare responsabilità». Così il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano un commento sulla relazione di Pisanu sui delitti e le stragi di mafia del 1992-93 con riferimento ai passaggi sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Grasso ha parlato al termine dell'audizione sul ddl intercettazioni innanzi alla commissione Giustizia della Camera.

Redazione online
30 giugno 2010

http://www.corriere.it/politica/10_giugno_30/pisanu-strage-convergenza_98fe3bbe-8445-11df-a860-00144f02aabe.shtml


Ma adesso il governo tenta la spallata - Redazione Il Fatto Quotidiano


Dell’Utri condannato per mafia
Maggioranza all’attacco: “Subito legge bavaglio”.

Fini critica la decisione della maggioranza, Cicchitto lo minaccia: o ti allinei o fuori

La finta tregua è finita. La sentenza Dell’Utri ha suonato la carica del Pdl, che stamani ha infilato nei lavori di luglio della Camera la discussione del ddl Alfano sulle intercettazioni. Alla faccia delle rassicurazioni date a Giorgio Napolitano che aveva invitato la maggioranza a concentrarsi sulla manovra rinviando la discussione in aula sulle intercettazioni. Il partito di Berlusconi punta dritto alla meta: approvare la legge bavaglio prima dell’estate. E passato il timore di una condanna piena a carico di Dell’Utri, il Pdl archivia l’apparente rispetto delle istituzioni, adottato nelle ultime settimane, tornando all’attacco di Gianfranco Fini. Colpevole di aver violato la regola aurea di Forza Italia ricordata proprio ieri da Dell’Utri: non parlare.

Il presidente della Camera stamani si è permesso di confidare a pochi colleghi deputati di ritenere “irragionevole” pensare di discutere entro luglio il ddl Alfano sulle intercettazioni. Neanche il tempo di smentire (o confermare) l’indiscrezione, a Fini viene recapitata la minaccia: o ti allinei o sei fuori. La firma il presidente dei deputati del Pdl, il piduista
Fabrizio Cicchitto, sul giornale berlusconiano Il Foglio. Fini, scrive Cicchitto, “deve essere capace di separare il proprio ruolo politico da quello di presidente della Camera” perché “le uniche alternative sono o la sistemazione del dissenso o la separazione”.

La manovra economica non è sparita. E’ stata inserita nel calendario dei lavori della Camera per il 23 luglio. Ma secondo il premier potrebbe non servire più, considerato che ieri da San Paolo ha detto che l’Italia ha superato la crisi.
Silvio Berlusconi rientrerà dalla sua missione internazionale soltanto mercoledì prossimo, oggi è in visita a Panama. E difficilmente il pensiero andrà alla crisi economica, dal paradiso fiscale per antonomasia.

Il ddl Alfano preme, è il coronamento della serie di provvedimenti a tutela esclusiva della cricca e non può più aspettare. La vuole il premier. Essere riusciti a infilarla nei lavori della Camera di luglio è il regalo che il Pdl vuol far trovare a Berlusconi al suo rientro, ora però va impacchettato e infiocchettato. Chi si mette di mezzo è un nemico e come tale va trattato. E’ toccato a
Fini.

Il presidente della Camera stamani ha accolto la richiesta della maggioranza di calendarizzare la discussione del ddl limitandosi a prendere “atto dell’opinione prevalente dei gruppi”. A lavori ultimati, non pubblicamente ha commentato la scelta con un “irragionevole”. E’ bastato per scatenare il Pdl. Cicchitto prima ha detto che “è assolutamente improprio parlare di forzature”, poi ha pubblicato l’intervento su Il Foglio. “
Fini deve essere capace di separare il proprio ruolo politico di minoranza all’interno del Pdl da quello di Presidente della Camera. La terza carica dello stato deve essere super partes in ogni direzione. Fini non può dare mai l’impressione di svolgere il suo ruolo istituzionale in funzione di quello di capo della minoranza interna al Pdl. Dico ciò anche con l’obiettivo della valorizzazione della sua carica”. La “minoranza” di Fini, aggiunge Cicchitto, deve allinearsi alla maggioranza. “Le uniche alternative sono o la sistemazione del dissenso in un quadro di regole, o la separazione” perché “la guerriglia logora tutti”.



Dall'Europa nuovo no alla legge bavaglio - Chiara Avesani


Il Consiglio d’Europa boccia la legge bavaglio: “Favorisce mafia e corruzione”

Terza bocciatura internazionazionale al ddl intercettazioni. Dopo gli Usa e l’Ocse, oggi è il Greco a dire "in Italia i politici, per ragioni personali, approvano leggi che favoriscono corruzione e mafie"

Mentre in Italia, a stretto giro di ruota dalla condanna per fatti di mafia di Marcello Dell’Utri, le polemiche sulla legge bavaglio riprendono furiosamente quota, dall’estero arriva la terza bocciatura al disegno di legge sulle intercettazioni . Dopo quella del Dipartimento di giustizia americano, e quella dell’Ocse, è il Greco(Gruppo di Stati contro la corruzione) a prendere posizione. “Questa legge potrà creare gravi difficoltà alla lotta alla criminalità organizzata”, dice in un’intervista esclusiva a ilfattoquotidiano.it,Drago Kos, ex dirigente della polizia slovena, detto lo zar della guerra alle tangenti, dal 2002 Presidente di questo importante organo interno al Consiglio d’Europa, che ha il compito di sorvegliare le politiche nella lotta alla corruzione e identificare le lacune nelle norme, indicando i provvedimenti da prendere.

Il Greco comprende 46 paesi membri (45 Stati europei e gli Stati Uniti d’America). L’Italia ha aderito il 30 giugno 2007. E’ la seconda volta che il Greco esprime preoccupazione per una legge approvata in questa legislatura. L’allarme era già scattato per la prima versione del Lodo Alfano. Quella voluta da Silvio Berlusconi e riguardante la sospensione dei processi per le più alte cariche dello Stato. Allora l’organizzazione internazionale aveva espresso il timore che la norma mettesse i bastoni tra le ruote alla lotta alla corruzione e violasse un principio elementare: quello di uguaglianza. Un timore fondato, tanto che il 7 ottobre 2009 la Corte Costituzionale lo ha bocciato.
Signor Kos, qual è la situazione europea della lotta alla corruzione?
La lotta alla corruzione in Europa va a due velocità: da un parte le nuove democrazie che necessitano di norme specifiche e di un controllo sulla realizzazione delle pratiche anti corruzione, dall’altra parte le vecchie democrazie che si trovano a un livello migliore, tranne Spagna, Italia e Grecia. Negli ultimi anni la situazione della corruzione in Europa si è aggravata invece di migliorare. Molti Stati combattevano la corruzione solo per soddisfare le richieste europee e non per produrre un cambiamento interno anche di tipo sociale, inoltre la crisi è un terreno ideale per l’aumento della corruzione perché aumenta il livello di pressione sull’economia

E l’Italia a che punto è nella lotta alla corruzione?
La situazione da voi è molto particolare, primo perché il livello di corruzione e criminalità è molto alto, secondo perché la classe politica non vuole riconoscere la gravità del problema e terzo perché sempre la classe politica invece di incrementare la lotta alla corruzione, per ragioni personali, approva norme che la ostacolano.

Come il Lodo Alfano che voi avevate bocciato nella vostra ultima relazione?
La Corte ha fatto bene a dichiararlo incostituzionale e questa è semplicemente la prova che il tra i poteri dello Stato il ramo giudiziario è sano

E ora a che cosa si riferisce?

L’Italia oggi deve affrontare un’altra minaccia: la legge che ostacola le intercettazioni e le limita a una durata di 75 giorni e punisce i giornalisti che pubblicano le intercettazioni. Non si può seriamente combattere la corruzione né il crimine organizzato se il provvedimento che autorizza le intercettazioni può durare solo 75 giorni. In secondo luogo, la minaccia ai media di una sanzione in caso di pubblicazione delle intercettazioni non può essere una soluzione. Io non sono d’accordo con la pubblicazione dei verbali. Questa, però, è una responsabilità dei magistrati che devono evitare fughe di notizie. E’ chiaro. Qualsiasi giornalista al mondo, se riuscisse ad averle, scriverebbe le intercettazioni che si pubblicano da voi.

Nel nostro paese corruzione e mafia sono spesso sinonimi…
Proprio per questo la nuova legge potrà creare gravi difficoltà nella lotta alle mafie. Ufficialmente non è applicabile alle indagini sulla criminalità organizzata, ma non si può mai sapere quando si iniziano delle indagini se queste porteranno a casi che riguardano i clan.

Quindi condivide la posizione del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’Associazione Nazionale Magistrati?

Questo è quello che ci suggerisce la nostra esperienza: quando iniziano le investigazioni non si sa mai dove porteranno. Con il nuovo ddl si parte, invece, dal presupposto che potrai lavorare solo 75 giorni. E in 75 giorni spesso non è possibile nemmeno formulare una ipotesi d’imputazione. Mi spiace dirlo, ma saranno tempi duri per il sistema giudiziario italiano.

Ritiene che la legge sulle intercettazioni sia in contrasto con i principi del Greco? Ritiene che sia in contrasto con principi costituzionali?
La legge è certamente in contrasto con i principi di Greco. Non posso esprimere giudizi specifici sulla costituzionalità di una legge nel vostro ordinamento, ma si deve tenere conto di questo: ci sono principi fondamentali da bilanciare che sono diritti umani e quindi validi per tutti. Da un lato il diritto alla privacy, dall’altro lato il diritto fondamentale dei cittadini italiani a vivere in una realtà sicura e informati. Questi principi vanno bilanciati. Non si può proteggere un diritto fondamentale in modo tale da violare un altro diritto fondamentale a volte anche più importante, come la libertà di cronaca e di espressione. Sono certo che se la legge dovesse passare qualcuno in Italia solleverà questione di costituzionalità e i vostri giudici costituzionali avranno un compito molto duro da affrontare.



Troppo carino!



Quanto ci costa il porto voluto da Scajola - Ferruccio Sansa




Per il progetto di Bellavista, Caltagirone spese quintuplicate.

Neanche gli stadi dei Mondiali forse c’erano riusciti: il nuovo porto turistico di Imperia, fortissimamente voluto da Claudio Scajola,sarebbe costato cinque volte più del previsto. È scritto nel documento della Commissione di Vigilanza e Collaudo finito alla Procura di Imperia. “E’ necessario – scrivono i tecnici – osservare che l’ultimo certificato di pagamento emesso stima in 145,8 milioni il costo delle opere marittime, valore assolutamente non congruo rispetto al progetto approvato, il cui costo in fase di progettazione era stato stimato in maniera considerevolmente inferiore (29,3 milioni)”.

La colata di cemento
I riflettori si accendono ancora una volta su quest’opera faraonica: 1.440 posti barca più 117 appartamenti. Il tutto realizzato dall’Acquamare di Francesco Bellavista Caltagirone (non indagato), noto anche per aver partecipato alla cordata Alitalia sponsorizzata dal Governo. L’Acquamare a sua volta detiene il 33 per cento della società Porto di Imperia spa. Un altro terzo è del Comune di Imperia. L’ultima fetta è in mano a imprenditori locali tra cui risultava anche
Pietro Isnardi, consuocero di Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro, ma soprattutto suocero diMarco Scajola, fino a pochi mesi fa vicesindaco della città.
Il nuovo scalo è forse la più grande colata di cemento in una Liguria dove i porticcioli – benedetti da centrodestra e centrosinistra – sono stati il cavallo di Troia per milioni di metri cubi di costruzioni. Proprio quel porto di cui
Angelo Balducci era stato nominato commissario. E la presenza nella Riviera dei Fiori di uno dei protagonisti delle indagini sulla Cricca sta attirando sul progetto l’attenzione delle procure. Non soltanto di quella imperiese. Gli investigatori stanno valutando molti elementi, “come il mancato svolgimento di gare di evidenza europea”.

Caltagirone, Scajola e Fiorani
Ma il mega-porto, perfino nella Liguria scajolizzata, aveva suscitato perplessità già prima che arrivasse il cemento. Così qualcuno ricorda quel volo in elicottero compiuto nel 2003 per visionare dall’alto le opere. A bordo, oltre a Bellavista Caltagirone, c’erano Scajola e Gianpiero Fiorani che nel cemento ligure sognava di investire cento milioni.
L’episodio, nonostante le inchieste sulle scalate bancarie dell’estate 2005 (Francesco Bellavista Caltagirone partecipò all’operazione Antonveneta attraverso Hopa, ma non fu indagato), fu presto dimenticato. Nel 2006 ecco il taglio del nastro dei cantieri, presenti Scajola e il presidente della Regione Liguria,
Claudio Burlando. Soltanto la Cgil, guidata allora da Claudio Porchia, tentò di sollevare la questione. Scajola replicò: “Caro Porchia, non sei il sindaco di Imperia, sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”. L’ex ministro si beccò una querela, ma invocò l’immunità parlamentare. Le ruspe andarono avanti, nonostante un’inchiesta per le variazioni in corso d’opera (ammesse dagli stessi costruttori) per un enorme capannone portuale. Una situazione paradossale: per autorizzare la costruzione era necessaria una variante dello stesso comune che è proprietario di un terzo della società. Per non dire dell’ipotesi di una condanna: il Comune rischiava di pagare, attraverso la società, una sanzione a se stesso. Alla fine, però, è giunta la contestata richiesta di archiviazione.
Basta? Neanche per sogno, perché qui si affaccia
Balducci. All’inizio del 2008 gli enti pubblici dovevano nominare la Commissione incaricata di verificare la conformità del porticciolo alla concessione demaniale. Bisognava esaminare le opere a mare realizzate, ma soprattutto andavano stabiliti gli oneri che il concessionario doveva pagare allo Stato. Una verifica amministrativa, ma anche contabile, su cui puntavano gli occhi Bellavista Caltagirone e Beatrice Cozzi Parodi (sua compagna e socia, soprannominata “Nostra Signora dei porticcioli”). La prassi, in questi casi, è che si scelga un membro dell’amministrazione. Invece venne designato anche Balducci. Chi lo scelse? Tutti puntano il dito sull’allora sindaco di Imperia, Luigi Sappa (Pdl), vicino a Scajola (è stato poi scelto dal Pdl come presidente della Provincia di Imperia). Balducci venne nominato presidente della Commissione, ma dopo un paio di mesi si dimise.
Intanto i lavori procedevano: nel 2009 ecco l’inaugurazione del molo lungo, presenti Scajola e Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset.
Adesso, però, l’ultima tegola: il parere dei tecnici della Regione Liguria. Che non usano mezzi termini: “Il concessionario non ci ha fornito la documentazione necessaria per svolgere pienamente i propri compiti… nonostante richieste in tal senso siano state espresse e reiterate più volte”. E il documento conclude: “La Commissione ritiene che il comportamento del concessionario costituisca una violazione degli obblighi previsti”. La Commissione così sospende la propria attività chiedendo alle autorità di “valutare l’opportunità di procedere all’avvio del procedimento di decadenza della concessione”. Firmato: ingegner Roberto Boni, il tecnico indicato dalla Giunta Burlando che negli ultimi anni ha mostrato cautele sul progetto.

La concessione e le accuse
Il ritiro della concessione sarebbe un terremoto. La Porto di Imperia Spa replica alle accuse: “Le osservazioni sono incongruenti e fuorvianti, nonché destituite di fondamento. Abbiamo sempre fornito tutte le informazioni utili, l’assistenza necessaria e la massima disponibilità per i controlli a cui la Commissione è tenuta per legge”. E i costi cresciuti di 110 milioni? “L’aumento è dovuto a una maggiore qualità, bellezza e durata dell’opera. La spesa resta a carico della Acquamare, gli enti pubblici non pagheranno un euro”.
Tutti tranquilli? Niente affatto.
Giuseppe Zagarella e Paolo Verda, consiglieri comunali del Pd, da anni si oppongono al porticciolo: “Adesso devono essere fornite alla Commissione tutte le carte richieste sulle spese sostenute e la loro fatturazione. La società cui sono rivolte le fatture è partecipata dal Comune. Abbiamo paura che un terzo dei costi aggiuntivi, cioè quasi 40 milioni, possano essere a carico dei cittadini”. Anche di questo si occuperà la Procura.


Sette anni, ne dimostra di più - Marco Travaglio



Dunque, anche per la Corte d’appello di Palermo, Marcello Dell’Utri è un mafioso. Dopo cinque giorni di battaglia in camera di consiglio, i giudici più benevoli che lui abbia mai incontrato hanno stabilito quanto segue: fino al 1992, prima in casa Berlusconi, poi nella Fininvest, poi in Publitalia, ha sicuramente lavorato per Cosa Nostra (la vecchia mafia dei Bontate e Teresi, e la nuova mafia dei Riina e Provenzano) e contemporaneamente per il Cavaliere palazzinaro, finanziere, editore, tycoon televisivo.

Dopo il 1992, cioè negli anni delle stragi politico-mafiose e della successiva nascita di Forza Italia (un’idea sua), mancano le prove che abbia seguitato a farlo per il Cavaliere politico. Questo, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, è quanto si può dire a una prima lettura del suo dispositivo.

Qualche sito e qualche cronista (tra cui, sorprendentemente, quello di Sky) si sono subito affannati a concludere che “è stato smentito
Spatuzza”: ma questo, finchè non saranno note le motivazioni, non lo può dire nessuno. Molto più probabile che i giudici abbiano stabilito, com’è giusto, che le sue parole – né confermate né smentite – da sole non bastano, senza riscontri. Riscontri che avrebbe potuto fornire Massimo Ciancimino, se i giudici Dell’Acqua, Barresi e La Commare avessero avuto la compiacenza di ascoltarlo, prima di decidere apoditticamente, senza nemmeno averlo guardato in faccia, che è “inattendibile” e “contraddittorio”.

Riscontri che già esistevano prima che Spatuzza e Ciancimino parlassero: oltre alle dichiarazioni ultra-riscontrate di Nino Giuffrè e altri collaboratori sul patto
Provenzano-Dell’Utri, è proprio sul periodo successivo al 1992 che i magistrati hanno raccolto la maggiore quantità di fatti documentati e inoppugnabili: le intercettazioni del mafioso Carmelo Amato, provenzaniano di ferro, che fa votare Dell’Utri alle europee del 1999; le intercettazioni dei mafiosi Guttadauro e Aragona che organizzano la campagna elettorale per le politiche del 2001 e parlano di un patto fra Dell’Utri e il boss Capizzi nel 1999; le agende di Dell’Utri che registrano due incontri a Milano col boss Mangano nel novembre del 1994, mentre nasceva Forza Italia; la raccomandazione del baby calciatore D’Agostino per un provino al Milan, caldeggiato dai Graviano e propiziato da Dell’Utri; e così via. Vedremo dalle motivazioni come i giudici riusciranno a scavalcare questi macigni.

Ora, per Dell’Utri, il carcere si avvicina. Quello di oggi è l’ultimo giudizio di merito sulla sua vicenda: resta quello di legittimità in Cassazione, ma le speranze di farla franca attraverso una delle tante scappatoie previste dall’ordinamento a maglie larghe della giustizia italiana sono ridotte al lumicino. La prescrizione, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa doppiamente aggravato dall’elemento delle armi e da quello dei soldi, scatta dopo 22 anni e mezzo dalla data ultima di consumazione del reato: quindi dal 1992. Il calcolo è presto fatto: se la Cassazione deciderà che davvero il reato si interrompe nel 1992, la prescrizione scatterà nel 2014-2015, quanto basta alla Suprema Corte per confermare definitivamente la condanna a 7 anni. Che non potranno essere scontati ai domiciliari secondo la norma prevista dalla ex Cirielli per gli ultrasettantenni (Dell’Utri compirà 70 anni nel 2011), perché non vale per i reati di mafia (altrimenti sarebbero a casa anche Riina e Provenzano).

Se invece la Cassazione cassasse senza rinvio la condanna, Dell’Utri avrebbe risolto i suoi problemi. Ma c’è pure il caso che la Cassazione cassi la sentenza con rinvio, accogliendo il prevedibile ricorso della Procura generale contro l’assoluzione per i fatti post-1992. Nel qual caso si celebrerebbe un nuovo appello, ma per Dell’Utri sarebbe una magra consolazione: rinvierebbe soltanto di un paio d’anni l’amaro calice del carcere, visto che, allungandosi il periodo del suo reato, si allungherebbe anche il termine di prescrizione. Semprechè, naturalmente, non venga depenalizzato il concorso esterno in associazione mafiosa.

Questa sentenza, per quanto discutibile, compromissoria e anche un po’ furbetta, aiuta a comprendere la differenza che passa tra la verità giudiziaria e quella storica, politica, morale. Nessuna persona sana di mente potrebbe credere, alla luce del dispositivo, che Cosa Nostra sia un’accozzaglia di squilibrati che si alleva un concorrente esterno, lo infiltra nell’abitazione e nelle aziende di Berlusconi per tutti gli anni 70 e 80 fino al 1992 e poi, proprio quando diventa più utile, cioè quando s’inventa un partito che riempie il vuoto lasciato da quelli che avevano garantito lunga vita alla mafia fino a quel momento, lo scarica o se ne lascia scaricare senza colpo ferire.

Una banda di pazzi che per un anno e mezzo mettono bombe e seminano terrore in tutt’Italia per sollecitare un nuovo soggetto politico che rimpiazzi quelli decimati da Tangentopoli e dalla crisi finanziaria e politica del 1992, e quando questo soggetto politico salta fuori dal cilindro non di uno a caso, ma del vecchio amico Dell’Utri, interrompono le stragi, votano in massa per Forza Italia, ma rompono i rapporti col vecchio amico Dell’Utri, divenuto senatore e rimasto al fianco del nuovo padrone d’Italia.

I giudici più benevoli mai incontrati da Dell’Utri, dopo cinque anni di appello e cinque giorni di camera di consiglio, non hanno potuto evitare di confermare che, almeno fino al 1992, esistono prove insuperabili (perfino per loro) della mafiosità di Dell’Utri. Cioè dell’uomo che ha affiancato Berlusconi nella sua scalata imprenditoriale, finanziaria, editoriale, televisiva. E che nel 1992-’93 ideò Forza Italia, nel 1995 fu arrestato per frode fiscale e nel 1996 entrò in Parlamento per non uscirne più.

Intervistato qualche mese fa da Beatrice Borromeo per il Fatto quotidiano, Dell’Utri ha candidamente confessato: “A me della politica non frega niente. Io mi sono candidato per non finire in galera”. Ecco, mentre i giudici di Palermo scrivono le motivazioni, ora la palla passa alla politica. Un’opposizione decente, ma anche una destra decente, semprechè esistano, dovrebbero assumere subito due iniziative.

1) Inchiodare Silvio Berlusconi in Parlamento con le domande a cui, dinanzi al Tribunale di Palermo, oppose la facoltà di non rispondere. Perché negli anni 70 si affidò a Dell’Utri (e a Mangano)? Perché, quando scoprì la mafiosità di almeno uno dei due (Mangano), non cacciò anche l’altro che gliel’aveva messo in casa (Dell’Utri), ma lo promosse presidente di Publitalia e poi artefice di Forza Italia? Da dove arrivavano i famosi capitali in cerca d’autore degli anni 70 e 80? Si potrebbe pure aggiungere un interrogativo fresco fresco: il presidente del Consiglio è forse ricattato o ricattabile anche su queste vicende (ieri il legale di Dell’Utri, Nino Mormino, faceva strane allusioni al prodigarsi del suo assistito fino al 1992 per “salvare dalla mafia Berlusconi e le sue aziende”)?

2) Pretendere le immediate dimissioni di Marcello Dell’Utri dal Parlamento. Quello di oggi non è un avviso di garanzia, una richiesta di rinvio a giudizio, un rinvio a giudizio, una sentenza di primo grado: è la seconda e ultima sentenza di merito. Che aspetta la politica a fare le pulizie in casa? Che i carabinieri irrompano a Palazzo Madama per prelevare il senatore e condurlo all’Ucciardone?



Guai, a non considerare Mangano ''un eroe'' - Gioacchino Genchi



I rinnovati richiami all’eroismo di Vittorio Mangano del sen. Marcello Dell’Utri e dei suoi amici nell’ambito dei festeggiamenti per la condanna a soli 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa mi impongono di anticipare alcuni passi delle giustificazioni che ho prodotto, nel procedimento disciplinare per la “destituzione dal servizio“, promosso nei miei confronti dal Capo della Polizia a seguito dell’intervento pronunciato (mentre ero già sospeso dal servizio, Sic!) al congresso nazionale dell’Italia dei Valori del 6 febbraio 2010.

Sembra un assurdo, ma sono stato pure costretto a difendermi per avere osato criticare le affermazioni del Presidente del Consiglio che, come il sen. Marcello Dell’Utri, considera Vittorio Mangano “un eroe“.
Censurare una affermazione di tal guisa, con l’intento di “screditare il Capo del Governo” è stato ritenuto nella contestazione disciplinare “un comportamento eticamente scorretto e non ammissibile per un Funzionario dello Stato” e per questo io dovrei essere destituto dalla Polizia di Stato. In attesa di pubblicare per intero gli atti del procedimento disciplinare e della sospensione dal servizio (avverso la quale ho proposto ricorso al TAR), anticipo la parte delle giustificazioni riguardanti le considerazioni “sull’eroe” Vittorio Mangano e sui suoi fan, pronunciati al congresso dell’Italia dei Valori:

- OMISSIS -

Nel corpo della sua contestazione, nel susseguirsi del costrutto dei virgolettati di alcune espressioni pronunciate nel corso dell’intervento al congresso nazionale dell’Italia dei Valori del 6 febbraio 2010, manca la parte in cui, stigmatizzando l’originale modalità dell’on. Silvio Berlusconi di auto-gestire la propria sicurezza personale (con riguardo all’anomala composizione della scorta), ho riferito dell’arruolamento alla villa di Arcore del boss Palermitano Vittorio Mangano.

Nello stigmatizzare l’episodio ho anche considerato le definizioni con le quali l’on. Berlusconi ha nel tempo commentato i suoi rapporti con Mangano, fatto passare per “fattore” (e non per “stalliere”) quando era in vita, fino a definirlo “un eroe” dopo la morte, con la quale si sono estinti per Vittorio Mangano i giudizi in corso per i quali era già stato condannato in primo grado a due ergastoli, in due distinti giudizi per omicidi ed in uno anche per associazione mafiosa, oltre alle pene già espiate per le condanne riportate per associazione per delinquere con la mafia al processo Spatola, oltre che per traffico di droga al maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed altri tre omicidi.

Insomma a ben considerare, Vittorio Mangano era un “eroe” con un curriculum criminale di tutto rispetto. Anche in questo, come noterà, mi sono limitato a riferire al congresso dell’Italia dei Valori fatti storici e dichiarazioni dello stesso Silvio Berlusconi, rese nel corso dell’intervento alla trasmissione di RadioDue “28 minuti” del 9 aprile 2008, che può riascoltare su YouTube al link audio che segue, o nei numerosissimi altri blog che le propongono e le commentano, tanto in Italia che all’estero.

Il 9 aprile 2008, peraltro, quando l’on. Silvio Berlusconi ha rilasciato l’intervista in cui ha sostanzialmente definito un eroe Vittorio Mangano, non ricopriva nemmeno la carica di presidente del Consiglio dei Ministri, posto che il capo del Governo era ancora, sia pure ancora per pochi giorni (fino al 28 aprile 2008), l’on. Romano Prodi. Sulla base delle sue contestazioni, quindi, per avere esternato ”negative asserzioni” storicamente accertate sul conto dell’on. Silvio Berlusconi, quale quella di avere definito Vittorio Mangano un eroe, io dovrei essere destituito dalla Polizia di Stato.

Al riguardo voglio solo augurarmi che la definizione di “negative asserzioni”, riportata nella sua contestazione, era riferita al comportamento ed alle dichiarazioni dell’on. Silvio Berlusconi su Vittorio Mangano e non alle mie, che confermo e delle quali non intendo in alcun modo giustificarmi con riguardo al giudizio di valore che può desumersi, tanto sul conto di Vittorio Mangano, che dell’on. Silvio Berlusconi che l’ha considerato “un eroe”.

Tratto da:
ilfattoquotidiano.it del 30 giugno 2010