venerdì 26 agosto 2011

Da travaglio forever - FB







Il premier:

“Nel 2013
riconsegneremo un paese più
forte”.

La buona notizia è che
pensa di ridarcelo.

( w w w. s p i n o z a . i t ))


Sacra Forza Italia. By ilsimplicissimus


Il meeting di Rimini, l’appuntamento annuale di Cl, è ormai una specie di fiera campionaria della nullità italiana, un bazar dove si vendono battitappeti e sospetti miracoli, conti correnti e acquasanta in bottiglia, castità ed evidenti afrori giovanili. I valori devoti servono agli affari e gli affari moltiplicano i gadget della devozione più corriva, per rialimentare il circolo vizioso degli alibi morali di cui si ciba la pubblica immoralità.

Eppure dentro questo kapali karsi della decadenza civile italiana, si sono visti in questi giorni personaggi improbabili dal Presidente Napolitano a impavidi nuclearisti, dal gatto e la volpe della Fiat, Marchionne e Montezemolo che si tirano la volata a vicenda, ai fautori della svendita di beni pubblici che peraltro sta per essere attutata alla faccia dei referendum. Da banchieri illustri come Corrado Passera a Enrico Letta, dai numeri uno di Enel e Finmeccanica ai fautori della sussidiarietà, che nasconde grandi affari e che ormai ha preso il posto della solidarietà. In compagnia dell’immancabile Bonanni. Oltre a ospiti defilati, ma molto concreti: la compagnia delle opere e tutte le altre organizzazioni da soldi del mondo cattolico che come sappiamo godono di uno status privilegiato.

Ovvio che dentro quel mercatone si sta praticando l’inciucio per il dopo Berlusconi, qualcosa di più che la creazione di un terzo polo che possa evitare la iattura di un possibile governo di centro di sinistra, anche se è sempre più evidente che quel sinistra sta lì più per bellezza che per altro: di passare in un bel pediluvio di acqua di Lourdes il berlusconismo per farlo rinascere a nuova vita. Insomma la creazione di una Sacra Forza Italia che si ispiri ai dogmi del liberismo e alle esigenze materiali del Vaticano dentro un nuovo sincretismo tutto laissez faire e chiesa.

I personaggi, i temi, gli slogan che corrono sottopelle in assenza di pensiero sociale, non lasciano dubbi: si va dalla commistione fra stato e affari, al disamore per i diritti, dalle improrogabili esigenze dei bassi salari, alla svendita di ogni tipo di beni pubblici per essere dati in pasto ai pescicani delle cricche, all’economia che invece della concorrenza conosce il cartello e l’indolenza. Insomma tutta la classe dirigente del declino è lì per studiare i modi di salvare se stessa, buttando a mare il suo benefattore, l’Italia dei conflitti di interesse, delle indulgenze, degli sprechi ad personam, delle esenzioni, l’Italia dei condoni e dei 160 milioni concessi al condannato Brancher, l’Italia dei fondi neri e delle conventicole, degli appartamenti pagati a propria insaputa, delle tangenti, dell’evasione e della corruzione.

Si è tutta lì questa Italia immorale e perdente, tutta presente al mercato che cerca di farsi benedire per l’ultimo banchetto. Così il titolo retorico e astruso del meeting acquista una straordinaria quanto ambigua concretezza: “E l’esistenza diventa una immensa certezza”. Si, ci provano. E non è detto che non ci riescano in un Paese incazzato, ma non lucido. Dopotutto la cultura non è acqua santa.

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Quanto paghiamo per la Chiesa. - di Mauro Munafò




L'esenzione da Ici e Ires. L'Irpef dei dipendenti vaticani. L'otto per mille, incluso quello di chi non sceglie di darlo alla Santa Sede. Lo stipendio degli insegnanti di religione. I finanziamenti alle scuole cattoliche. Perfino l'acqua e i depuratori del papa. Ecco, voce per voce, quali sarebbero i tagli 'sacrosanti'.

Durante il week end la pagina Facebook'Vaticano pagaci tu la manovra fiscale' ha superato di slancio le centodiecimila adesioni. Un "partito" che tuttavia non trova sponde o quasi nella politica: di tagliare i privilegi della Chiesa, ad esempio, non c'è traccia nella contromanovra che il Pd sta studiando in questi giorni. «Quello dei soldi Oltre Tevere è un tabù che nessuno ha intenzione di affrontare», scuote la testa Mario Staderini, segretario dei Radicali, che ha per primo lanciato la proposta di eliminare le esenzioni fiscali di cui godono gli enti ecclesiastici. «Si potrebbero recuperare 3 miliardi di euro all'anno senza neppure rivedere il Concordato», sostiene.

Ha ragione? Quantificare con precisione il "costo" della Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un'operazione quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e in altri casi solo su stime.

Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono le spese principali a carico dello Stato italiano, trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più complesso è stabilire quali sono i mancati introiti derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto gli enti ecclesiastici.

Per fare un po' di ordine è meglio dividere i capitoli.

Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria si possono far rientrare i prelievi dell'Irpef diretti alla Conferenza Episcopale Italiana (l'otto per mille), i fondi per gli stipendi dei professori di religione cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti alle scuole paritarie e alle università private che in buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da circa 2,5-3 miliardi di euro l'anno, solo per lo Stato centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità, ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano in questi conteggi.

La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più contestate, è l'otto per mille, ovvero la percentuale Irpef che il cittadino può destinare ad un credo religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la Chiesa Cattolica l'otto per mille ha fruttato nel 2011 la cifra record di un miliardo e 118 milioni di euro, circa l'85% dell'intera torta.

A essere contestati nell'otto per mille sono almeno tre aspetti: il metodo di ripartizione, la "mancata concorrenza" e l'ammontare dell'aliquota Irpef. A differenza delle altre tasse infatti, l'otto per mille di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei fondi viene stabilita solo dai "votanti".

Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme, riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli spot pubblicitari: le confessioni più piccole non possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo Stato non investe un centesimo sull'argomento, lasciando nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica.

Un aspetto sottovalutato dell'otto per mille è però l'ammontare dell'aliquota di prelievo, che secondo la legge può essere ridefinita da una apposita commissione ogni tre anni. L'articolo 49 della legge 222/85, che ha istituto l'otto per mille, prevede che "Al termine di ogni triennio successivo al 1989, un'apposita commissione paritetica, nominata dall'autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell'importo deducibile di cui all'articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all'articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche".

Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento del passaggio dall'assegno di Congrua (con cui lo Stato pagava fino agli anni ?€˜80 lo stipendio dei preti) al nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. "Abbiamo chiesto di accedere agli atti della commissione incaricata di valutare l'aliquota – spiega Mario Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato che quei documenti devono restare riservati".



La prescrizione salva Penati dal carcere “Gravi indizi di corruzione, ma episodi vecchi”






Tangenti a Sesto San Giovanni, il gip di Monza respinge la richiesta d'arresto per il dirigente Pd e per il suo braccio destro Vimercati. In carcere l'ex assessore Di Leva e l'architetto Magni. Nel mirino dell'inchiesta della Procura di Monza, la riqualificazione delle aree Falck e il Piano di governo del territorio.

A carico di Filippo Penati, le indagini “dimostrano l’esistenza di numerosi e gravissimi fatti di corruzione”. Ma dato che gli episodi “risalgono agli anni Novanta e agli anni dal 2000 al 2004″ è scattata ormai la prescrizione. Quindi l’ex presidente della Provincia di Milano e alto dirigente del Pd non deve essere arrestato, nonostante “i gravi indizi di colpevolezza” e la presenza “delle esigenze cautelari”.

Così il gip di Monza Anna Magelli respinge la richiesta di custodia cautelare chiesta dalla Procura brianzola a carico dell’ex capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani, numero uno del Pd. Con le stesse motivazioni resta libero il braccio destro di Penati, Giordano Vimercati, mentre sono finiti in carcere per corruzione Pasqualino Di Leva, ex assessore all’edilizia di Sesto San Giovanni, e l’architetto Marco Magni, indicato come l’uomo cerniera tra gli imprenditori interessati al business edilizio e l’amministrazione comunale dell’ex Stalingrado d’Italia.

Di Leva e Magni sono stati arrestati stamattina, nelle rispettive località di vacanza, dagli uomini del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Milano, che da mesi segue l’indagine coordinata dai pm Franca Macchia e Walter Mapelli, sul presunto sistema delle tangenti sestesi, che vede Penati accusato di corruzione, concussione e illecito finanziamento dei partiti. Le indagini puntano a ricostruire alcune procedure amministrative relative a interventi urbanistici, in merito alle quali la guardia di Finanza aveva eseguito numerose perquisizioni, lo scorso luglio, anche presso il Comune di Sesto. Secondo l’accusa, sarebbero state corrisposte, o promesse, somme di denaro per agevolare il rilascio di alcune concessioni o per impostare secondo determinati criteri il Piano di Governo del Territorio. Per Penati e Vimercati, è nella lunga vicenda della riqualificazione urbana della vasta area ex industriale Falck che il gip ravvisa i “gravissimi indizi di colpevolezza” dei due, “quali richiedenti il pagamento della tangente”.

I pm avevano chiesto l’arresto di Penati per concussione (pena massima 12 anni di reclusione), ma il gip Magelli ha derubricato il reato in corruzione (pena massima cinque anni), ed è questo che ha consentito di applicare la prescrizione. Non ci sono sconti, però, nelle motivazioni contenute nell’ordinanza: nelle trattative sull’acquisizione dell’area Falck, nel 2000, da parte del costruttoreGiuseppe Pasini, uno dei grandi accusatori del dirigente Pd, “emerge che la pretesa di Penati (allora sindaco di Sesto, ndr) di vedersi corrispondere somme di denaro è stata in realtà discussa e accettata da Pasini, fin dai primi formali incontri che avevano preceduto l’acquisto dei terreni”. Insomma la presunta megatangente da 20 miliardi di lire, di cui 4 secondo l’accusa effettivamente versati, non sarebbe stata imposta dal politico (concussione), ma in qualche modo concordata tra le parti (corruzione).

Da qui le conclusioni del gip, che da un lato “graziano” Penati, dall’altro suonano come una pesante conferma del quadro accusatorio: “Gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari dimostrano l’esistenza di numerosi e gravissimi fatti di corruzione posti in essere da Filippo Penati e da Giordano Vimercati nell’epoca in cui rivestivano la qualifica di pubblici ufficiali prima presso il Comune di Sesto San Giovanni e poi presso la Provincia di Milano e successivamente da Pasqualino Di Leva, assessore della Giunta comunale, nonché da Marco Magni”.

I “fatti di corruzione posti in essere da Penati e da Vimercati”, continua però il gip, “risalgono agli anni Novanta e agli anni dal 2000 al 2004, rispetto ai quali, pur in presenza dei prescritti requisiti dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, l’applicazione di qualsivoglia misura cautelare è preclusa dall’intervenuta casua di estinzione del reato rappresentata dal decorso del termine massimo di prescrizione”.

Eppure l’ex presidente della Provincia, che dall’inizio di questa vicenda esplosa a luglio si protesta totalmente estraneo a ogni accusa, esprime soddisfazione: ”Oggi si sgretola e va ulteriormente in pezzi la credibilità dei miei accusatori”, commenta Penati. “Nei giorni scorsi, dalle notizie di stampa erano già apparse evidenti le contraddizioni e l’infondatezza delle ricostruzioni dei fatti unilaterali e false dei due imprenditori inquisiti, che sono il pilastro su cui si regge l’impianto accusatorio nei miei confronti”. Il gip di Monza, afferma ancora, “ne ha riconosciuto l’inattendibilità, smentendoli nei fatti. Infatti le loro dichiarazioni relative alla concussione si sono rivelate non attendibili. Come è del tutto evidente, questo aggiunge un’ulteriore e importante elemento all’inaffidabilità di tali dichiarazioni. Continuo a ribadire la mia totale estraneità ai fatti che mi sono addebitati. Più passa il tempo e più appare chiaro che le dichiarazioni dei miei accusatori sono false”.

Quanto all’ex assessore di Leva e all’architetto Magni, il gip di Monza ha accolto la richiesta di arresto anche “a fronte della gravità dei fatti, che si inseriscono nella cornice di un sistema di corruzioni che ha contraddistinto per lungo tempo la gestione della cosa pubblica da parte di alcuni pubblici amministratori”. Non singoli episodi di malaffare, insomma, ma un vero e proprio sistema.

E’ l’imprenditore Piero Di Caterina, l’altro grande accusatore di Penati, a tirare in ballo l’architetto Magni, arrestato oggi. L’imprenditore, tra l’altro, ha messo a verbale la vicenda del vecchio circolo operaio San Giorgio, alla periferia di Sesto San Giovanni, che in un primo tempo doveva diventare una struttura per studenti, ma poi è passato il progetto di un hotel di lusso, il Falck Village Hotel, in cui era interessato Di Caterina stesso: ”In questa pratica non ho eseguito alcun pagamento illecito”, ha detto ai pm nell’interrogatorio del 16 febbraio 2011, “ma la scelta di Magni è stata una mia decisione derivante dalla precisazione di Di Leva che se mi fossi avvalso della sua collaborazione le cose sarebbero andate per il verso giusto. Il dato certo”, proseguiva Di Caterina, è che con il reclutamento di Magni “il numero delle camere passò da 48 a 62”.

E ancora: “Magni mi ha detto in più occasioni che sugli interventi edilizi da lui progettati venivano pagati dei corrispettivi all’assessore di Leva” e a un altro funzionario comunale “con acquisizione della provvista attraverso la formula ‘oneri conglobati’; per la precisione mi ha detto che gli oneri conglobati servivano per far girare la macchina”. L’architetto ha smentito Di Caterina. La figlia dell’assessore Di Leva, inoltre, è andata a lavorare nello studio professionale di Magni.

Il gip Magelli non ha ritenuto sufficientemente provata l’accusa di finanziamento illecito al Partito democratico, evocato nelle testimonianze di Di Caterina e di Pasini. I due “hanno supposto e ipotizzato” che parte dei soldi versati a Penati finissero nelle casse del partito, ma non hanno mai reso alcuna “dichiarazione sufficientemente precisa e circostanziata” in merito.


A Brancher 160 milioni di euro. - di Paolo Biondani


Aldo Brancher

Avete presente l'ex ministro di Berlusconi appena condannato in via definitiva a due anni? Bene: il governo lo ha nominato presidente con pieni poteri di un nuovo ricchissimo ente. Così l'esecutivo italiano ha un nuovo record: è l'unico al mondo che in tempi di sacrifici e di tagli affida una valanga di denaro a un pregiudicato.

Per distribuire preziosi pacchi di soldi pubblici mentre l'Italia rischia la bancarotta, cosa c'è di meglio di un bel comitato politico, presieduto da un onorevole marchiato dalla giustizia come ladrone? Spesso in Italia, come insegnava Ennio Flaiano, la situazione è grave, ma non seria: a riconfermarlo è un atto del governo che affida un tesoretto di 160 milioni di euro a un nuovo ente presieduto e diretto da Aldo Brancher. Sì, proprio lui, il deputato berlusconiano fresco di condanna definitiva per i reati di ricettazione e appropriazione indebita.

Il neonato ente parastatale si chiama "Odi" ("Organismo di indirizzo") ed è stato istituito il 14 gennaio 2011 con un apposito decreto firmato nientemeno che da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Richiamandosi a un codicillo semi-nascosto nella legge finanziaria 2010 ("articolo 2, comma 107, lettera h"), il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia autorizzano la spartizione di 160 milioni tondi entro la fine di quest'anno. I soldi sono destinati ai soli comuni veneti e lombardi delle fasce di confine con Trento e Bolzano. L'idea era stata lanciata già nel 2008 per frenare la mini-secessione dei centri di montagna, che progettavano di abbandonare le regioni padane per entrare nelle ricche province a statuto speciale. Allora però era previsto uno stanziamento di soli 20 milioni. Adesso il fondo è quadruplicato: 80 milioni all'anno. E la prima spartizione riguarda il biennio 2010-2011, per cui la cifra in gioco raddoppia. Il nuovo ente ha pieni poteri sulla distribuzione dei soldi. Mentre i costi sono a carico delle due province autonome, che non sono amministrate dal centrodestra. Oltre a nominare gli otto componenti dell'Odi (quattro per il governo, quattro per gli enti locali), è lo stesso decreto Berlusconi-Tremonti a regalare a Brancher la poltronissima di "presidente, in rappresentanza del ministero dell'Economia, per i prossimi cinque anni".

L'atto governativo, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 22 marzo, è entrato in vigore d'urgenza la mattina successiva. Appena tre settimane prima, l'onorevole ex dirigente Fininvest si era visto confermare dalla Corte d'appello la condanna a due anni di reclusione, graziati dall'indulto, con l'accusa di aver intascato fondi neri per 827 mila euro. In parte attraverso contratti di comodo intestati a sua moglie Luana; in parte ritirati di persona, in contanti, in luoghi indimenticabili come il parcheggio dell'autogrill di San Giuliano Milanese. Soldi sporchi, perché sottratti alle casse di una banca, la Popolare di Lodi, tra il 2001 e il 2005, quando a guidarla era Gianpiero Fiorani, che dopo l'arresto confessò anche quelle mazzette versate "in cambio dell'appoggio del politico". In luglio la Cassazione ha riconfermato la colpevolezza del deputato, denunciando pure un suo tentativo di far saltare l'udienza finale, inventandosi un domicilio fittizio, nella speranza di salvarsi con la prescrizione, come era riuscito a fare già due volte, ai tempi di Tangentopoli. Tra un processo e l'altro, nel 2001 Brancher è diventato parlamentare, sottosegretario del premier Berlusconi e nel 2010 ministro per 17 giorni, giusto il tempo di avvalersi della legge sul legittimo impedimento, poi dichiarata incostituzionale. Ora è un onorevole pregiudicato. Per reati che dovrebbero sconsigliare di affidargli denaro pubblico: tecnicamente l'appropriazione indebita equivale a un furto aggravato, mentre l'accusa di ricettazione colpisce chi incassa un bottino rubato da altri ladri.

CORSA ALL'ORO
Nonostante questi precedenti penali e nuove accuse recentissime (caso Di Lernia), il decreto Berlusconi-Tremonti ha nominato Brancher presidente non solo dell'Odi, cioè dell'organismo che "fissa gli indirizzi" per distribuire i soldi ai Comuni, ma anche della "Commissione di approvazione dei progetti" (in sigla "Cap"), che valuta concretamente quali giunte beneficiare e con quanto denaro. La "Cap" ha solo quattro membri, per metà scelti a rotazione, ma in modo che il centrodestra abbia sempre una maggioranza di tre a uno. Della cabina di regia fanno parte almeno altri due amici di Brancher. L'immedesimazione tra il nuovo ente e l'onorevole condannato è tanto forte che decine di sindaci veneti e lombardi parlano direttamente di "fondo Brancher", come se i 160 milioni da distribuire fossero suoi. E in tempi di crisi sempre più nera e tagli rovinosi per i Comuni, il tesoretto dell'Odi sta scatenando scene da assalto alla diligenza. Il termine per presentare i progetti di "sviluppo dei territori" scadeva il 30 giugno. Con buona pace delle promesse di evitare una pioggia clientelare di micro-finanziamenti, nella sede dell'Odi risultano "pervenute" almeno 179 buste chiuse, ognuna delle quali può contenere più progetti: 68 da Belluno, 60 da Brescia, 33 da Vicenza, altre 18 da Verona e Sondrio. I dati sono ufficiosi, perché l'Odi per ora non pubblicizza neanche i progetti in gara. Le domande, secondo le prime indiscrezioni, sono le più disparate: centraline energetiche, piste ciclabili, sistemazioni dei sentieri, funivie, strutture turistiche, incentivi all'agricoltura, opere idrauliche... Nel timore di perdere il treno targato Brancher, decine di piccoli comuni, anziché spedire le richieste per raccomandata o per e-mail certificata, hanno preferito la consegna a mano: camion e furgoni stipati di documenti che scendono dalle montagne strombazzando il clacson per arrivare in tempo a Verona, in Lungadige Capuleti 11, negli uffici che ospitano l'Odi e i suoi 15 dipendenti in prestito dal ministero dell'Economia.


L’antimafia? La fa un benzinaio.


L’antimafia? La fa un benzinaio
Il distributore di carburante gestito da Annunziato Iacopino, l'unico a Reggio Calabria che fornisce la benzina per le auto della Dda

Procure in affanno. A Reggio le auto blindate del ministero camminano perché il titolare di un distributore di carburante fa credito alla Dda.

Un’autovettura per cinque magistrati. Sostituti procuratori che rientrano in ufficio con un passaggio. Benzinai che fanno credito al ministero della Giustizia. Straordinari non pagati. Giudici costretti a fare la colletta per comprare il toner e ricevere fax in ufficio. Pc obsoleti. E se arrivano computer nuovi restano negli scatoloni perché i software non sono comunque aggiornati.
Così si vuole combattere la ’ndrangheta in Calabria. Se da una parte viene indicata come una delle organizzazioni mafiose più potenti e ricche al mondo, padrona di imperi miliardari e meritevole di essere inserita addirittura nella Black list degli Stati Uniti, dall’altra lo Stato risponde destinando risorse che definire esigue è un eufemismo. I proclami della politica lasciano il tempo che trovano quando quasi tutte le Procure calabresi non riescono a gestire neanche l’ordinaria amministrazione.
Capita che una semplice fotocopia diventi un problema, gli autisti dei magistrati debbono addirittura calcolare i chilometri percorsi con le auto blindate per poter raggiungere l’unico distributore di carburante dove è possibile rifornirsi senza rimetterci soldi di tasca propria.
Succede a Reggio come a Vibo, a Paola come a Catanzaro, a Crotone come a Palmi e Cosenza. Non c’è una Procura che non abbia sofferto i tagli disposti dal governo con le Finanziarie degli ultimi anni. Tagli che fanno il paio con le carenze di personale. Basta pensare che, su una pianta organica di 107 sostituti procuratori, ben 22 sono i posti attualmente vacanti ai quali va sommato uno di aggiunto a Catanzaro.
Il caso numericamente più rilevante è quello reggino dove mancano 8 pm di cui 3 in servizio alla Direzione distrettuale antimafia. Al momento la situazione è gestibile per il procuratore capo Giuseppe Pignatone poiché i trasferimenti disposti dal Consiglio superiore della magistratura diventeranno operativi solo nei prossimi mesi. Occorrerà capire quante, e se, saranno presentate domande di magistrati disposti a recarsi in riva allo Stretto, in un ufficio di frontiera dove non è tutto scontato, i rischi sono più alti e la mole di lavoro è di gran lunga superiore a quella di altre regioni. Il rischio è avere la stessa sorte del procuratore di Crotone Raffaele Mazzotta che, per diversi mesi e fino ad aprile, ha retto il suo ufficio solo con l’aiuto di due magistrati applicati temporaneamente.
A Palmi la situazione è certamente migliore: un solo posto vacante sulla carta. Di fatto quel posto è al momento occupato da un magistrato applicato per altri otto mesi nell’ufficio giudiziario diretto dal procuratore Giuseppe Creazzo. Sarà stato, forse, l’effetto dell’originale invito che Creazzo due anni fa ha rivolto ai colleghi, esortandoli via mail a venire a lavorare a Palmi a poche centinaia di metri da una «magnifica spiaggia con vista sullo Stretto di Messina e le isole Eolie sullo sfondo». Quasi uno spot pubblicitario per sopperire a una carenza cronica di magistrati.
Ma i problemi della giustizia calabrese non riguardano soltanto l’organico. Le risorse sono all’osso. I soldi non bastano e il fondo della cassa è un qualcosa con cui i procuratori da tempo fanno i conti. Servono salti mortali per sostenere le spese “ordinarie” degli uffici requirenti della regione. L’emergenza, da anni, è diventata la normalità. La riforma della giustizia, intesa così come vuole il governo, è lontana dalla razionalità e dalle reali esigenze delle nostre Procure. «Ci sono debiti in sostanza» dice sconfortato il procuratore aggiunto di Reggio Nicola Gratteri. Eppure lui con le sue proposte sull’informatizzazione delle notifiche e la posta elettronica certificata, ha dimostrato come il ministero può evitare spese inutili, oltre a perdere tempo prezioso tolto alle indagini. Con le dovute modifiche normative, una semplice mail potrebbe sostituire un ufficiale giudiziario o un agente spedito in tutta Italia per notificare un avviso di conclusione indagini.
Vediamo di capire qual è la reale situazione degli uffici requirenti.
«Sono diversi anni che dobbiamo ricorrere ai decreti ingiuntivi per farci pagare gli straordinari dal ministero della Giustizia – confida un autista, che vuole restare anonimo, in servizio negli uffici giudiziari della Procura di Reggio –. Dovremmo fare 800 ore all’anno. Ma c’è chi ne fa 1200 per esigenze d’ufficio. E se non lavori, perché sai che quelle ore non ti verranno pagate, rischi una denuncia per interruzione di pubblico servizio».
In riva allo Stretto, le blindate del ministero camminano solo grazie alla disponibilità del titolare di una colonnina di carburante che, «quando arrivano i buoni», viene pagato per una parte della benzina fornita «a credito» alle auto dei magistrati. Non tutta, quindi rimane sempre il debito. A volte pm ed autisti sono costretti ad anticipare i soldi per poter almeno raggiungere l’Agip di via Sbarre centrali, gestita da Annunziato Iacopino. Proprio quest’ultimo conferma che «il debito non viene saldato mai per intero». Tuttavia ci tiene a sottolineare che non si lamenta perché conosce la serietà dei magistrati e nutre «massima fiducia in loro». Nonostante i sacrifici, infatti, Iacopino è soddisfatto di questo rapporto che va avanti da un paio d’anni: «Spero che continui così sempre».
Tragica, invece, la situazione che, poche settimane fa, ha fotografato il procuratore di Vibo Valentia Mario Spagnuolo in una lettera aperta al ministro Angelino Alfano. Un misto tra rabbia e rassegnazione di chi «continua a barcamenarsi nell’emergenza», e vede il proprio lavoro ridotto a quello di un equilibrista, dovendo far quadrare i conti a ogni costo. I mezzi del carcere di Palmi non avevano la benzina e gli autisti quindi non potevano accompagnare i detenuti al Tribunale di Vibo. Risultato: «Processo rinviato». «Cinque anni fa avevamo un budget per le spese di ufficio di circa 15mila euro – si sfoga il magistrato –. Adesso è di 4mila. Negli uffici di frontiera, questo problema si avverte maggiormente».
Ne sa qualcosa anche il procuratore di Cosenza, Dario Granieri. Il bilancio del suo ufficio è quasi completamente prosciugato dalla spesa dei toner per le stampanti: «Un anno fa siamo stati costretti a ricorrere ai fondi straordinari del ministero dell’Istruzione per fare le fotocopie di un fascicolo importante del quale non potevamo fare a meno».
A Paola la situazione non cambia. Fino ad aprile soltanto due sostituti hanno lavorato a casi scottanti come “nave dei veleni” e “fiume Oliva”. Attualmente ne sono arrivati altri due. Resta solo un posto scoperto. Qui gli uffici sono stati dotati di personal computer nuovi, ma i programmi non sono aggiornati quindi restano negli scatoloni. Pure sul Tirreno ci si rimbocca le maniche oltre il dovuto. Si collabora: magi- strati che diventano tecnici informatici, amministrativi che riparano fax o fotocopiatrici. Il procuratore aggiunto di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, riassume con una metafora lo stato dell’arte: «Presto dovremo prendere atto di giocare a calcio senza pallone. Non si possono fare le nozze con i fichi secchi. La situazione è insostenibile. Siamo consapevoli che è necessario fare sacrifici. Ma i rappresentanti delle forze dell’ordine spesso non possono utilizzare le automobili perché manca la benzina, il parco macchine non è adeguato. Bisogna canalizzare le risorse e rendersi conto che siamo in Calabria, non in Veneto dove ci si occupa di furti nelle ville».
Per il magistrato l’emergenza va contestualizzata: la Procura della Dda di Catanzaro ha competenza sul distretto di Cosenza, Rossano, Vibo, Paola, Castrovillari, Crotone, Lamezia e sul territorio dove ha sede la giunta regionale.
L’organico dovrebbe essere costituito da 18 sostituti, due aggiunti e un procuratore. Ma la situazione attuale è di 15 sostituti, un aggiunto e un procuratore. Ci sono posti vacanti, ma è da evidenziare che i magistrati «non vogliono venire nella nostra regione. Anzi – precisa Borrelli – in particolare non vogliono venire a Catanzaro perché non ha un collegamento diretto con la linea ferroviaria. Adesso ci sono sei colleghi alla Dda e nove all’ordinario. Ma è ovvio che con questi numeri è difficile combattere la ’ndrangheta. Lo scenario è altrettanto grave per quanto riguarda gli organi giudicanti: il Tribunale della libertà è composto da 5 persone che ammiro perché riescono in dieci giorni a leggere migliaia di carte e prendere decisioni importanti. Nonostante uno sforzo notevole riescono a farlo. Sul fronte gip, sono in otto per tutto il distretto. Come è possibile – si chiede Borrelli – garantire al cittadino la possibilità di vivere in un contesto libero dalla criminalità organizzata, se poi questa libertà è condizionata dal problema della carenza di personale? Non ci sono più soldi. Che si fa? Quando la carta finirà non si scriverà più, quando non ci sarà più il toner non si riceveranno fax. All’ufficio gip del capoluogo i magistrati si sono dovuti autotassare per ricevere fax». E c’è chi arriva in soccorso delle Procure.
Infatti, il Comune di San Lorenzo del Vallo fornirà al Tribunale di Catanzaro risme di carta: gli amministratori hanno deciso di tagliare le loro indennità per rispondere all’sos giustizia.
«Così appena arriverà – spiega Borrelli – la daremo ai colleghi dell’ufficio gip, che al momento stanno facendo la colletta. Quando finiremo il toner e dovremo fare un fermo, che faremo? Manca tutto. Ad esempio se dovesse arrivare il sedicesimo magistrato, non abbiamo un cancelliere da affiancargli. Aspettiamo che il governo faccia delle scelte ma non possiamo rimanere con il cerino in mano. Non è possibile – aggiunge - che alla prossima scarcerazione per decorrenza dei termini, vengano attribuite delle colpe. Non si può far ricadere le responsabilità, anche di una non scelta, sui magistrati. Noi abbiamo trovato qualche soluzione, digitalizzando una serie di provvedimenti e risparmiando fogli. La Regione non ha stanziato neanche un centesimo (almeno a Catanzaro) per l’amministrazione della giustizia. A volte si fa per mantenere distinta la politica dalla giustizia, ritengo che non sia questo il punto. È un atto dovuto, non un’agevolazione». Dopo l’ennesima lamentela sono arrivati 18 pc
nuovi a Catanzaro, «ma – conclude il magistrato – i computer sono obsoleti, si bloccano; alcuni non hanno il lettore cd».
Storie di Calabria. La regione nella quale la lotta alla ’ndrangheta dovrebbe essere una priorità assoluta. E che, invece, diventa il luogo dove le passerelle dei ministri e dei parlamentari seguono alle operazioni antimafia portate, sempre e comunque, a termine con mille difficoltà.

Lucio Musolino
Mirella Molinaro


Fitto, viaggio dorato per le vacanze Trenitalia garantisce confort speciali.


Scorta, personale scelto e puntualità. Scambio di mail fra i vertici delle Ferrovie prima di partire verso Bolzano per assicurargli l'assistenza. Un gruppo di ferrovieri: "Vergognoso". Il ministro: "Tutto falso".


di PIERO RICCI
Dopo le leggi, ecco i viaggi ad personam. Se le prime riguardano il premier Silvio Berlusconi, i secondi li ha inaugurati il suo ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto. Galeotto è stato il suo trasferimento da Lecce a Renon, la meta delle sue vacanze con la famiglia in Trentino. Viaggio in treno con vagone letto, classe Excelsior, aggiunto per l'occasione con tanto di personale di Trenitalia messo a disposizione del ministro, dopo uno scambio di mail scoperto da "Il Manifesto" e pubblicato ieri. Il ministro replica al quotidiano comunista: "Vicenda paradossale".


"Nessun privilegio", assicurano dall'azienda ferroviaria. Ma un gruppo di ferrovieri, sul sito della rivista "ancora IN MARCIA", dice di provare "profondo imbarazzo".
Il viaggio in questione è del 7 agosto. Espresso 924 Lecce-Bolzano. La macchina per l'accoglienza dell'ospite illustre parte il 2 agosto con una mail. "Un ministro - rivela il giornale - viaggerà con famiglia (2 adulti+ 2 bambini) in Excelsior sul seguente itinerario: 7 agosto Lecce/Bolzano, 21 agosto Bolzano/Lecce". Poi la specificazione che il ministro intende essere trattato con i guanti: "Il ministro si è raccomandato per sicurezza a bordo treno ed assistenza (avranno 2 compartimenti adiacenti sia all'andata che al ritorno). Cordiali saluti".

Il ministro Fitto spiega: "Ho avuto già modo di inviare al direttore del quotidiano una secca, puntuale e totale smentita. Mi auguro che questo sia sufficiente per chiudere una vicenda per me paradossale"

Trenitalia reagisce. E minaccia azioni legali: "Il ministro ha prenotato e pagato il viaggio autonomamente. Non è stata approntata alcuna modifica speciale alla composizione del treno. La vettura su cui ha viaggiato era infatti quella regolarmente prevista. L'altra, di cui si fa cenno nell'articolo, era 'fuori serviziò per un normale invio tecnico, insieme a una seconda vettura. Erano entrambe chiuse e non prenotabili. Trenitalia non ha accordato al ministro alcun trattamento di favore. È prassi aziendale che, ogniqualvolta Trenitalia venga a conoscenza della presenza, sui propri treni, di rappresentanti delle istituzioni e di alte autorità dello Stato, attivi le proprie strutture per assicurare massima attenzione, in particolare sotto il profilo della security".

Ma i ferrovieri rilanciano: "Mentre il Paese discute di tagli e sacrifici, sembra una vera e propria offesa al buon senso e a tutti i viaggiatori che in questi stessi giorni soffrono disagi d'ogni tipo. Ai dirigenti Fs, così proni e zelanti di fronte al potere - conclude la nota - chiediamo se esistono particolari regole per i viaggi dei vip sui nostri treni e, nel caso, di renderle note a tutti: sarebbe un ottimo contributo alla trasparenza e un ulteriore spunto per il dibattito in corso sui privilegi della casta".