domenica 23 ottobre 2011

Motogp: è morto Marco Simoncelli (il video) “Era il cuore della Romagna da corsa”




Cade in pista in Malesia e viene investito dalle moto di Edwards e del suo grande amico Valentino Rossi: un'ora di black out, poi l'annuncio della morte
E’ morto a 24 anni su una pista, quella della Malesia, che lo aveva incoronato ufficialmente campione. Marco Simoncelli se n’è andato mentre correva il suo gran premio, è morto da bandiera della Romagna da corsa, la terra che lo ha visto crescere e lo ha accompagnato fino al podio. Alcuni bar di Cattolica, paese di origine del pilota, dove stavano trasmettendo il gran premio, hanno preferito chiudere, abbassare la saracinesca in segno di lutto, anche per pochi minuti. Uno choc, la morte di Simoncelli, dicono. “Era la nostra bandiera, e non è giusto morire così a 24 anni”, dicono gli amici. “Diranno che le persone muoiono di lavoro, muoiono di fame, di guerre e drammi. Lo sappiamo che diranno tutto questo. Ed è tutto vero. Ma lui era uno sportivo, riusciva a farci sognare, questa era il suo mestiere. Ci regalava emozioni”.

Il pilota italiano della Honda è stato letteralmente investito da Colin Edwards e daValentino Rossi, che non è caduto. Nel fortissimo impatto Simoncelli ha perso il casco ed è rimasto a terra immobile riverso in pista. Probabilmente è morto sul colpo.

Il pilota 24enne è stato immediatamente portato al centro medico della pista. ma la notizia della morte è stata comunicata in maniera ufficiale soltanto dopo un’ora.

Non è ancora ben chiara la dinamica dell’incidente: dalle immagini si vede Simoncelli tagliare una curva in modo innaturale, probabilmente dopo aver perso aderenza. Cadendo il pilota italiano ha perso il casco, mentre due moto che lo seguivano gli sono passate sopra. Una era quella di Edwards, l’altra quella di Rossi, che ora ai box è molto scosso. Il pluri-iridato era un grande amico di Simoncelli.

Si era capito subito, che sui stava consumando un dramma, anche se tutti ai box cercavano di negare l’evidenza e di restare aggrappati alla speranza. “Simoncelli è arrivato già in arresto cardiocircolatorio, e ha un vistoso segno di una ruota sul collo. Stiamo cercando di rianimarlo ma è molto difficile”, aveva detto il dottor Giuseppe Russo, uno dei componenti dello staff medico del Motomondiale. Parole che lasciavano ben poche speranze per la vita del pilota di Cattolica.
”E’ una bruttissima giornata per tutti noi, Marco l’ho visto cadere, con la sua moto che andava verso l’interno e le altre che lo colpivano”. Cosi’ il pilota della Ducati Nick Hayden commenta la morte di Simoncelli. ”All’uscita di una curva gli è scappato il treno posteriore – dice ancora un Hayden visibilmente scosso – e probabilmente ha cercato di controbilanciare la moto e non ce l’ha fatta. Quando si è uno sopra l’altro c’è poco da fare”. ”Sento un dolore molto forte – sottolinea l’americano, ex campione del mondo -: in pista siamo tutti fratelli e facciamo parte della stessa famiglia. Marco ci mancherà tantissimo, era un ragazzo molto simpatico ed ora non so cos’altro dire, solo che possa riposare in pace. Sono vicino alla sua famiglia: in momento come questo bisogna esser forti”.

Marco Simoncelli comincia a correre a 7 anni sulla pista delle minimoto a Cattolica; a 12 anni è proclamato campione italiano, così come nel 2000, anno nel quale gareggia per il titolo europeo conquistando la 2° posizione. A 14 anni prende parte al Trofeo Honda NR (sale in 2 occasioni sul podio) e al campionato italiano 125 GP.

Nel 2002 è campione europeo classe 125cc e lo stesso anno, dopo un buon apprendistato a livello nazionale ed europeo, debutta nel Motomondiale 125cc come wild card e conquista la 13° posizione all’Estoril.

Il 2003 lo vede impegnato per la prima stagione completa del Campionato del Mondo e conclude 6 gare in zona punti, tra le quali spicca la 4° posizione ottenuta a Valencia in una gara molto combattuta.

Il 2004 è per lui un’annata difficile e gli riserva sensazioni contrastanti. La sua capacità di gestire al meglio la moto sul bagnato gli permette di trionfare a Jerez – dove firma pole e vittoria nonostante l’insidioso tracciato, letteralmente inondato dalla pioggia – e di confermarsi specialista sul bagnato a Brno, dove guadagna la pole in una sessione di qualificazione accompagnata da condizioni critiche. Ma è un’annata segnata anche da cadute e inconvenienti, che non gli permettono di superare l’11° posizione della classifica generale.

Il team NoCable.it Race lo ingaggia per il 2005, sperando di vederlo sempre tra i primi della classe.(motogp.com). Vince un altro gran premio a Jerez, il suo circuito preferito, e sale in tutto sei volte sul podio, ma pur lottando sempre per le posizioni di vertice, esce dalla lotta per il mondiale già a metà stagione, poiché ormai fatica ad adattarsi alla sua Aprilia 125 visto la notevole altezza (è uno dei piloti più alti di sempre nelle moto e pesa 72 kg), ma chiude comunque al quinto posto. La stagione successiva passa in 250, alla guida della Gilera.

Nel 2008, Marco Simoncelli in sella alla Gilera del Team Metis si è laureato Campione del Mondo della classe 250 al termine di una gara resa durissima dal caldo torrido con il terzo posto sulcircuito malese di Sepang. Lo stesso circuito dove è morto poche ore fa.

Proprio la settimana scorsa, in Australia, il suo migliore risultato, 2°, con la speranza di migliorarsi ancora, forte anche della rinnovata fiducia che la Honda gli accorda per il 2012, quando aveva strappato un contratto da ufficiale, sempre con il team Gresini. Aperto, sorridente, gioviale, un pilota disponibilissimo con tutti, Marco lascia il papà Paolo, che lo seguiva sulle piste, la mammaRossella, l’adorata sorellina Martina, la fidanzata Kate e un grande vuoto. Ma lascia un grande vuoto nel cuore di tutta la Romagna veloce, quello che da tempo lo aveva nominato l’erede di Valentino Rossi. Quello che avrebbe fatto sognare gli appassionati di motomondiale.

Cave nanum. - di Marco Travaglio



C’è un che di geniale nell’autodifesa di Er Pelliccia, arrestato per lancio di estintore alla manifestazione di sabato: “Volevo spegnere l’incendio di un cassonetto”. In effetti a che servono gli estintori? Il fatto che poi uno, anzichè azionarli per spruzzarne il liquido ignifugo, li lanci contro l’oggetto incendiato, è un dettaglio. Dietro la rocciosa linea difensiva di Er Pelliccia s’intravede lo zampino di uno degli avvocati del premier: un Ghedini, un Longo, un Paniz. Si deve infatti a questi principi del foro se B., sorpreso a finanziare una prostituta minorenne, s’è difeso dicendo: “La pagavo perchè non si prostituisse”. O se, beccato a telefonare in questura per farla rilasciare dopo un fermo per furto, ha dichiarato: “Per forza, è la nipote di Mubarak”. E se la sua maggioranza alla Camera e poi al Senato ha certificato unanime la sua credibilissima versione.

Ora, delle due l’una: o il premier, i suoi avvocati e parlamentari sono dei dementi assoluti, convinti di trovare un giudice disposto a credere alle baggianate che dicono, e allora nemmeno Er Pelliccia può sperare di esser assolto per aver cercato di domare l’incendio; oppure sono dei geni incompresi (almeno da noi), e allora i processi a B. per Ruby e al Pelliccia per l’estintore finiranno trionfalmente in assoluzione. Ci sarebbe pure una terza ipotesi: che certe boiate vengano credute solo se l’imputato è un politico. Ma non vogliamo nemmeno pensarci: significherebbe che l’art. 3 della Costituzione è stato abrogato a nostra insaputa. A questo proposito: Er Pelliccia che spegne incendi lanciando estintori è un filino più credibile di Scajola che compra casa ma gliela paga un altro senza dirgli niente; o di Minzolini che spende 65mila euro per fatti suoi con la carta di credito Rai e poi dice: “Sono innocente: ho restituito i soldi all’azienda” (come se un topo d’appartamenti potesse cavarsela restituendo la refurtiva e sostenendo che dunque non ha rubato). Si spera vivamente che i giudici di Roma, se condanneranno Er Pelliccia, facciano altrettanto con Scajola e Minzolingua. Altrimenti qualcuno potrebbe pensare che la legge è più uguale per qualcuno. Idem per D’Alema:viaggia sei volte gratis sul jet di un impreditore che finanzia la sua fondazione e paga tangenti al suo defelissimo Morichini. I pm lo indagano per illecito finanziamento (ogni volo a scrocco vale 6mila euro), ma lui fa il vago:“Pensavo pagasse Morichini”. E certo: uno s’imbarca su un aereo senza biglietto e non s’informa su chi paga.

Poi c’è Alemanno, che pare incredibile ma è il sindaco di Roma. Venerdì piove tre ore: càpita, specie in autunno. Ma lui non se l’aspetta, così non fa pulire i tombini, alcuni quartieri paiono Atlantide e ci scappa pure il morto. Lui, anzichè andarsi a nascondere, chiede lo stato di calamità e se la prende con la Protezione civile: “Non ha lanciato l’allarme meteo”. Da giorni le previsioni del tempo davano pioggia per venerdì. Ma a sua insaputa: lui, essendo solo il sindaco, scambia la Protezione civile per il servizio meteo. Poi c’è Bossi: a Bankitalia voleva Grilli. Ma non perchè è bravo: perchè “è nato a Milano”. Gli avessero proposto Vallanzasca, che è nato a Milano e con le banche se la cava benino, avrebbe accettato. Poi c’è ancora B.: ammazzano Gheddafi, che lui ha prima baciato e poi bombardato, e si rifugia nel latinorum per dire qualcosa senza dire niente: “Sic transit gloria mundi”. Come Totò e Macario ne “Il monaco di Monza”, che biascicano giaculatorie a base di “cave canem” e “linoleum”, poi partono con le orazioni: “Tony Curtis… ora pro nobis… Kurt Jurgens… ora pro nobis… Sophia Loren… ora pro nobis… Brigitte Bardot… Bardot…”. Aveva anche pensato di commentare: “Baciavo Gheddafi perchè non facesse il tiranno”, o “non ci ho messo la lingua”, o “l’ho scambiato per un’Olgettina”, o “non era un bacio,ma un morso”, o “il bacio è un apostrofo rosa tra le parole ‘ti’ e ‘sparo’”. Ma era troppo rischioso. Molto meglio linoleum.





http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/10/22/c%E2%80%99e-un-che-di-geniale-nell%E2%80%99autodifesa-di-er/165623/

sabato 22 ottobre 2011

QUATTRO BANCHE HANNO IL 95,9% DEI DERIVATI USA.



UNA BOMBA A OROLOGERIA DA 600 TRILIONI DI DOLLARI PRONTA A ESPLODERE
DI KEITH FITZ-GERALD
Global Research

Volete sapere le vere ragioni per cui le banche non stanno prestando e per cui i PIIGS hanno ancora il controllo della situazione?
Perché il rischio del mercato dei derivati da 600 trilioni di dollari di derivati non si è ancora materializzato. Al contrario, si sta sempre più concentrando in una serie di banche selezionati, specialmente qui negli Stati Uniti.

Nel 2009 cinque banche detenevano l’80% dei derivati dell’America. Ora, solo quattro ne hanno uno sbalorditivo 95,9 per cento, secondo un recente resoconto dell’ Office of the Currency Comptroller.
Le quattro banche in questione sono: JPMorgan Chase & Co. (NYSE: JPM), Citigroup Inc. (NYSE: C), Bank of America Corp. (NYSE: BAC) e Goldman Sachs Group Inc. (NYSE: GS).
I derivati hanno giovato un ruolo cruciale nell’affossare l’economia globale, quindi si potrebbe pensare che i più importanti decisori mondiali abbiano imbrigliato tutto ciò, ma non lo hanno fatto.
Invece di attaccare il problema, i controllori lo hanno lasciato andare fuori controllo e il risultato è una bomba a orologeria da 600 trilioni di dollari, chiamata il mercato dei derivati.
Pensate che io stia esagerando?
Si stima che il valore di facciata dei derivati mondiali sia superiore ai 600 trilioni di dollari. Il valore di facciata, naturalmente, è il valore totale degli asset scambiati con la leva finanziaria. Questa distinzione è necessaria, perché quando si parla di asset in leverage come le opzioni e i derivati, una piccola somma di denaro può controllare una posizione spropositatamente larga che può essere 5, 10, 30, o in qualche caso estremo 100 volte maggiore dell’investimento che potrebbe essere utilizzato in strumenti a pronti.
Il PIL mondiale è circa 65 trilioni di dollari, o circa il 10,83% del valore globale del mercato dei derivati, in base all’Economist. E quindi non ci sono in pratica abbastanza soldi sul pianeta per fermare gli scambi tra le banche di questi strumenti se dovessero finire nei guai.

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Paragone vs. Stracquadanio: rissa in studio. Byoblu vs Corruzione a L'Ultima Parola

Sei anni fa era un’azienda in salute oggi la Rai ha le casse semivuote. - di Carlo Tecce




A causa dei ritardi del Tesoro nel versare i soldi raccolti con l'abbonamento, le casse di via Mazzini sono vuote: a dicembre rischio blocco per tredicesima, stipendi e pagamenti ai fornitori.
Il palazzo della Rai a viale Mazzini
Non è un programma d’informazione domestica, ma l’ultima deriva di viale Mazzini: persino per la Rai è una fatica arrivare a fine mese. Non bastano 2,5 miliardi di euro l’anno fra canone e pubblicità. Non bastano fidi bancari che sfiorano 700 milioni di euro. Non bastano piani industriali che nascondono licenziamenti. E dicembre fa paura: c’è il rischio che l’azienda possa bloccare le tredicesime, forse pure gli stipendi, e tanti auguri ai 13 mila dipendenti. Nemmeno un euro, poi, per i fornitori che, ormai senza pazienza, aspettano i pagamenti.

La cassa è vuota, strangolata dai ritardi del Tesoro nel versare il malloppo pubblico, 1,6 miliardi di euro raccolti con l’abbonamento: consumata la metà, mancano 800 milioni. A settembre avevano promesso 400 milioni, poi rinviati in tre comode rate a ottobre; adesso per l’assegno finale di 400 milioni dicono dicembre: se slittano di due settimane, addio retribuzioni (un macigno da 80 milioni di euro al mese). La Rai ripara il pallone sgonfio con cuciture improvvisate. Più passa il tempo, più il buco s’allarga. Ecco, l’ennesimo palliativo: un prestito di 80 milioni di euro per gentile concessione di Bei, la Banca europea per gli investimenti. La rete per diffondere il segnale del servizio pubblico – antenne, piloni, ferro – è l’unica proprietà di viale Mazzini.

Dilapidato il patrimonio culturale, povero di contenuti e ricco di contenitori, l’azienda mostra le strutture di Raiway con l’illusione di chi, finito in disgrazia, cerca di salvarsi svendendo l’eredità. Raiway vale un miliardo di euro, estrema garanzia per chiedere o trovare soldi. Alessandro Penati, economista della Cattolica, intravede nuvoloni minacciosi su viale Mazzini: “Quando sei disposto a cedere il bene più solido e prezioso, significa che sei in corsa verso il fallimento e cerchi di mascherare il debito. La Rai può smobilitare Raiway, ma poi deve noleggiare le frequenze per andare in onda oppure vogliono chiudere le televisioni?”.

Nel bilancio 2011 i debiti consolidati superano i 350 milioni di euro. Il peggio è dietro l’angolo: nel 2012, per resistere sul mercato, la Rai deve comprare i diritti per le Olimpiadi e l’Europeo di calcio, una botta di 140 milioni di euro. Dove cercare 140 milioni di euro senza aumentare i 350 milioni di esposizione bancaria? Non con la pubblicità. La concessionaria Sipra ha raccolto 980 milioni di euro (50 in meno che nel 2010), e le previsioni sono pessime: “L’anno prossimo dovremo fronteggiare il calo di ascolti e la prevedibile crisi finanziaria, qualsiasi stima è troppo ottimistica”, spiegano fonti qualificate di Sipra. Dicembre sarà il primo esame di stabilità, ancora più dura sarà tra gennaio e marzo. Senza canone e senza tesoretti.

Sei anni fa, mica nel dopoguerra, la Rai era un’azienda sana. Il passaggio al digitale terrestre, una manna per Mediaset e una condanna per viale Mazzini, è costato 500 milioni di euro, soltanto il governo Prodi ha contribuito con 58 milioni di euro, Silvio Berlusconi ha pensato bene di non aggiungere. In Gran Bretagna per assorbire le nuove spese, la Bbc ha aumentato il canone di 20 sterline. Qui scherzano con le diffide: il Consiglio di amministrazione ha intimato al ministero dello Sviluppo di pagare 1,3 miliardi di euro per onorare il contratto di servizio (quel documento che giustifica la tassa chiamata canone, che però non copre i costi di quelle trasmissioni qualificate come “servizio pubblico”). Sai che paura, avrà detto il ministro Paolo Romani.

Senza sparare cifre colossali, seppur legittime, la Rai poteva confermare l’accordo con Sky per trasmettere sul satellite, 350 milioni di euro in 7 anni sdegnosamente rifiutati dall’ex direttore generale, Mauro Masi. Bellissimi quei 13 canali di offerta gratuita, anche inutili però: nessun inserzionista sgomita per piazzare un prodotto a Rai 5 o Rai Gulp. Guai a toccare l’appalto, ogni anno benedetto: 224 milioni di euro per società esterne, 200 milioni per le serie televisive; profumati contanti per imprenditori che vengono, incassano e salutano, che sia un successo o un disastro. Dentro, il nulla: “La Rai si costruisce fuori, non nei suoi studi – commenta il professor Penati – . Non può vantare una scuola per sceneggiature o varietà, né marchi né autori. Logico che finisci con i creditori che ti circondano, e devi tranquillizzarli subito perché altrimenti sei spacciato. Mi ricorda un po’ la logica del San Raffaele di Milano che rinviava i pagamenti ai fornitori, fin quando ha portato i libri contabili in tribunale”. La soluzione non è vendere: “Chi acquista un’automobile vecchia e rotta con pochi pregi e tanti difetti? La Rai ha due strade: o taglia i costi del 30 per cento o morirà per rinascere male come Alitalia con i soliti salvatori della patria”. E i cittadini costretti a svenarsi ancora.


Gasparri a Bologna difende il latitante Lavitola. “Cerchiamo di capire se ha violato la legge”. - di David Marceddu




Il capogruppo in Senato del Pdl poi attacca i magistrati anche sui fatti di Roma: “Se per individuare gli estremisti che hanno messo a ferro e fuoco Roma avessero fatto 5 mila intercettazioni, e non 100 mila come hanno fatto per le cene di Berlusconi, si saprebbero molte cose di più”.
Valter Lavitola? “È coinvolto in mille problemi, mille indagini, ma potrebbe essere una qualunque persona che intrattiene rapporti internazionali e attività economiche in varie parti del mondo”. Parole di Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato del Popolo della libertà, oggi in visita a Bologna dove si è svolto un incontro con gli iscritti al partito.
Alla domanda de ilfattoquotidiano.it su cosa pensasse di quanto sta emergendo riguardo agli incontri nel 2009 tra il ministro degli Esteri, Franco Frattini e il faccendiere appena dichiarato latitante dalla procura di Bari, Gasparri prima dice che comunque il suo collega di governo “dovrà chiarire e spiegare”, anche se “non ci sarebbe stato alcun incontro ufficiale a cui avrebbe partecipato questa persona”. Poi il capo dei senatori del Pdl cerca di buttare acqua sul fuoco sulla figura di Lavitola: “Prima cerchiamo di capire chi sono le persone e se hanno violato la legge”. La difesa di Gasparri arriva due giorni dopo che lo stesso Frattini in una nota aveva espresso “forte rammarico per un fatto che certamente non si sarebbe verificato se all’epoca si fosse saputo dell’esistenza di vicende poco chiare intorno alla persona del dottor Lavitola”.
Il tema della giustizia del resto è stato il leit motiv di quasi tutta la trasferta bolognese dell’ex ministro delle telecomunicazioni. Durante il suo discorso di 40 minuti il tema della giustizia e “dell’accanimento giudiziario” nei confronti del suo premier ne ruba almeno 20. Prima se la prende proprio con la procura di Napoli che per prima aveva indagato sul caso Lavitola-Tarantini-Berlusconi a settembre scorso. “Il procuratore Lepore – ha detto Gasparri – con tutti i problemi che ha la città, questa estate stava tutte le sere in tv, per impicciarsi di fatti che non erano avvenuti a Napoli”. Poi Gasparri prova a buttarla sui black block: “Se per individuare gli estremisti che hanno messo a ferro e fuoco Roma avessero fatto 5 mila intercettazioni, e non 100 mila come hanno fatto per le cene di Berlusconi, si saprebbero molte cose di più”.
Poi Gasparri rievoca il caso Penati, che ha travolto l’ex presidente della Provincia di Milano: “L’altro giorno la procura ha detto che non deve essere arrestato. La magistratura usa i guanti bianchi solo con gli indagati rossi. Questo è un paese dove c’è una omertà a favore della sinistra, altro che strapotere dell’informazione a favore della sinistra”, ha detto l’ex ministro Gasparri, proprio colui che ha dato il nome alla più importante riforma berlusconiana delle telecomunicazioni.
La sala, dove un centinaio di persone (e tanti posti vuoti) assistono il dirigente berlusconiano, non ha però modo di sentire ricette per l’economia o strategie politiche. Oltre alle arringhe difensive di Gasparri a favore del presidente del Consiglio, il passaggio politico più interessante è quello in cui il senatore pidiellino scongiura il ritorno sinistra al potere: “Certo, facciamo fatica in questo momento dell’economia. Ma se avessimo seguito le ricette di Pierluigi Bersani saremmo tuttimorti di fame. Sono dei pericolosi somari in economia”. Altra sortita politica è stata la stoccata al suo ex segretario in Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini: “Noi siamo rimasti coerenti altri hanno seguito la strada dell’avventurismo”. Ormai da anni la fedeltà di Maurizio Gasparri (e la sua difesa d’Ufficio) è tutta per un’altra persona.

Le pressioni di Lavitola su Frattini per l’amico dilpomatico


In una mail del 2011, il faccendiere amico di Berlusconi chiede al ministro degli Esteri la promozione dell'attuale ambasciatore italiano di Panama. La Farnesina si difende: "Non gli abbiamo mai risposta".
“Caro Franco, per piacere hai notizie della promozione dell’Ambasciatore Curcio? Ti abbraccio Valter”. Non ci sarebbe nulla di strano in una lettera così: sarebbe una comune richiesta di informazioni che somiglia a una raccomandazione, come se ne fanno tante al ministero. Se non fosse per il mittente, Valter Lavitola, attualmente latitante a Panama, e per il destinatario: Franco Frattini. È da giorni che il ministro degli Esteri prova a prendere le distanze da Lavitola: sorpreso in una fotografia durante un incontro con il ministro albanese in compagnia di Lavitola, ha dichiarato “Allora nessuno immaginava chi fosse, nel senso che non si parlava di affari illeciti e di indagini. Era lì come tante altre persone e se non ricordo male conosceva il ministro albanese assai prima di quando lo conoscessi io”. Insomma Lavitola era presente all’incontro del novembre 2009 alla Farnesina perché amico del ministro albanese e non perché aveva tampinato la segretaria di Frattini per essere presente.

Purtroppo per Frattini Il Fatto ha rintracciato una mail inviatagli dall’amico Valter un anno e mezzo dopo, alle 17,44 del 24 febbraio 2011. E in quella data Lavitola non era certo uno sconosciuto: era stato protagonista della rocambolesca acquisizione della lettera del ministro dell’isola di Saint Lucia che metteva nei guai Gianfranco Fini.

A rendere imbarazzante la mail non c’è solo il tono, ma anche il contenuto. Il terzo uomo della mail, quello per cui Lavitola chiede della promozione, è Giancarlo Maria Curcio, attuale ambasciatore di Panama. Lavitola si interessa della sua promozione. Curcio era stato appena nominato ambasciatore a Panama, ma nella carriera diplomatica era rimasto fermo al grado di Consigliere di ambasciata. Il suo nome era tra i promuovibili al rango di “ministro” e Lavitola tifava per lui. Dal tono della mail sembrerebbe che la questione fosse nota a Frattini.

Al Fatto la Farnesina, informata della mail, prima smentisce e poi precisa che “anche se ricevuta, (la mail, ndr), non è stata data risposta a Lavitola”. Quindi la segnalazione c’è, ma secondo la Farnesina a vuoto: “Curcio non è stato né proposto per la promozione a ministro plenipotenziario né promosso”. E comunque, prosegue la nota, “Lavitola in quel periodo non era indagato”. Lavitola non ci riesce ma ci prova e che il suo tentativo sia andato a vuoto lo scopriamo solo oggi. E scopriamo anche che l’ambasciatore Curcio si occupa attivamente degli affari panamensi degli imprenditori italiani che interessano a Lavitola.

Il Fatto ha pubblicato alcuni giorni fa un documento interno del Governo panamense nel quale si preventiva una spesa di 112 milioni di euro per costruire 4 carceri. I penitenziari dovevano essere costruiti da un consorzio legato a Lavitola. Sei mesi dopo l’interessamento di Valter per Curcio, l’ambasciatore scrive a Palazzo Chigi. Il Fatto ha visionato una mail del 2 agosto 2011, da Curcio a Luigi Maccotta, direttore centrale per l’America Latina del ministero e a MassimilianoMazzanti, che a Palazzo Chigi è lo sherpa del G20 competente per America. In copia l’addetto commerciale all’ambasciata di Panama. Curcio riferisce di avere ricevuto una telefonata del presidente panamense Martinelli il quale è furioso, perché Berlusconi non mantiene le promesse. Martinelli attende la costruzione di un ospedale pediatrico a Veraguas e la consegna di quattro motovedette alla Marina panamense. Curcio nella sua mail spiega quali sono i rischi: “La telefonata è da mettere in relazione ad alcuni contatti per cercare di sbloccare la questione della realizzazione delle carceri modulari dell’azienda italiana Svenmark”. La “questione delle carceri”, aggiunge Curcio, è già prevista dal Memorandum d’Intesa firmato da Martinelli e Berlusconi, ma il presidente panamense, irritato per la mancata consegna delle navi e dell’ospedale, non vuole saperne. Prosegue Curcio: “Sarebbe oltre modo opportuno un urgente contatto del Presidente Berlusconi con il Presidente Martinelli per cercare di rasserenare gli animi”.

Curcio quindi chiede a Berlusconi di intervenire per ridefinire gli impegni in favore dell’impresa che deve fare le carceri: la Svemark. E di chi è il consorzio Svemark? Come il Fatto ha già raccontato tra i suoi soci figura, oltre al ligure Paolo Passalacqua con la sua Precetti, anche l’imprenditore romano Angelo Capriotti, che fa affari con Lavitola e ha assunto la moglie di Giampaolo Tarantini. Insomma Curcio sta muovendo i massimi livelli della nostra diplomazia anche nell’interesse dell’amico di Valter, amico del “caro Franco”.

di Francesca Biagiotti e Antonio Massari