venerdì 20 gennaio 2012

Lo Stato si compra l’inceneritore di Acerra per 355 milioni. I privati ringraziano.



Il governo ha autorizzato l'acquisto da parte della Regione Campania dell'impianto al centro di un processo a carico di Impregilo. I soldi arriverebbero dai Fas, fondi destinati alle aree sottosviluppate che andrebbero nelle casse dei privati.



L'inceneritore di Acerra


La questione rifiuti campana entra nell’agenda del governo, lo schema di decreto legge su “misure urgenti in materia ambientale” contiene un comma che dovrebbe sancire la conclusione della querelle sulla proprietà dell’inceneritore di Acerra, oggetto di polemiche nel recente passato. Per quell’impianto e per l’intero ciclo di gestione dei rifiuti in Campania c’è un processo in corso davanti al Tribunale di Napoli a carico dei manager di Impregilo e dei vertici del commissariato di governo, a partire dall’ex governatore Antonio Bassolino. Ma, nonostante tutto, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, richiamando il decreto che sancì la fine dell’emergenza rifiuti, apre all’acquisto con fondi pubblici dell’inceneritore.

Sarà la Regione Campania a comprare il forno mentre la gestione è affidata, ormai dal 2008 e per 15 anni, alla multiutility bresciana A2a attraverso la controllata Partenope ambiente. Le modalità che sanciranno il passaggio da una spa ad un ente di stato con soldi pubblici vengono chiarite al comma 3 dell’articolo 1 della bozza di decreto: “La Regione Campania è autorizzata ad utilizzare le risorse del Fondo per lo Sviluppo e coesione sociale 2007-2013 relative al programma attuativo regionale, per l’acquisto del termovalorizzatore di Acerra ai sensi dell’articolo 7 del decreto legge n.195 del 2009. Le risorse necessarie vengono trasferite alla stessa regione”.

In realtà il fondo per lo sviluppo altro non è che, sotto altro nome, il fondo per le aree sottoutilizzate che verrà utilizzato per compare l’impianto di incenerimento al costo di 355 milioni di euro, secondo una valutazione dell’Enea del 2007, oggetto anche di un ricorso pendente presso la Corte Costituzionale. I dettagli della vicenda vengono chiariti da Gianfranco Polillo, sottosegretario all’economia, che, in commissione bilancio della Camera, ha spiegato: “Il decreto si limita a prorogare il termine per il trasferimento della proprietà dell’impianto” da fine dicembre 2011 a fine gennaio 2012. La cessione dovrebbe prevedere anche la risoluzione del contenzioso ancora pendente tra Impregilo e protezione civile.

L’inceneritore napoletano usufruisce dei Cip 6, gli incentivi destinati, solo in Italia, a chi produce energia bruciando rifiuti, incentivi che il primo ministro Mario Monti da Commissario Europeo definì “droga illiberale nel mercato delle tecnologie ambientali”. All’inizio del 2008, A2a rinunciò alla gestione dell’impianto perché privo dei Cip6. Successivamente un decreto del morente governoProdi introdusse i benefici pubblici, per un periodo di 8 anni, e A2a tornò interessata assumendone la gestione. La multiutility spiega al fattoquotidiano.it che il contratto, compresa la gestione dello Stir di Caivano, prevede che “La società venga remunerata con una quota pari al 49% dell’energia elettrica prodotta dal termovalorizzatore tramite la combustione dei rifiuti ad esso conferiti a seguito del trattamento negli Stir”. Produzione incentivata dal Cip6 di cui la A2a beneficia per la quota di energia che le spetta come compenso. I ricavi per A2a nel 2010 sono intorno ai 57 milioni di euro da cui vanno sottratti i costi di gestione dell’impianto. Un dato in crescita nel 2011 visto che l’inceneritore ha raggiunto il 100% della capacità produttiva bruciando600mila tonnellate di rifiuti. Un ottimo investimento per A2a nella gestione del forno di Acerra così come Impregilo nella vendita. A perderci saranno le tasche dei cittadini che vedranno volatilizzarsi 355 milioni di euro di denaro pubblico destinato al fondo per le aree sottoutilizzate.

di Nello Trocchia e Matteo Incerti

L'economista Serge Latouche (intervista di Giulia Innocenzi Servizio Pubblico 19 gennaio 2012)




http://www.ilfattoquotidiano.it | Secondo l'economista Serge Latouche, I governi europei sono post democrazie dominate dai media e dalla finanza. Il social-liberismo in cui ci vogliono far credere è in realtà un ossimoro: il liberismo non è per niente sociale. La crisi potrebbe segnare la fine del capitalismo per come lo conosciamo, a vantaggio di una forma di fascismo che consenta ai ceti alti di mantenere il loro tenore di vita. Servizio pubblico decima puntata del 19 gennaio 2012. Decimo appuntamento con il programma di Michele Santoro, dedicata alla fase due del governo Monti. Ospiti in studio Benedetto Della Vedova, Alessandra Mussolini e il segretario della Fiom Maurizio Landini, Marco Travaglio e Vauro.


Schettino, Berlusconi e chi vive a sua insaputa - di Marco Travaglio - Servizio Pubblico 10




Caricato da  in data 19/gen/2012
Silvio Berlusconi e il comandante Schettino: gli italiani non fanno altro che cercare un salvatore della patria, da poter sacrificare quando la "nave affonda", per scaricare le proprie responsabilità. Ma le analogie tra i due non si fermano qui, e si possono estendere ad altre figure della politica italiana...

decima puntata di Servizio Pubblico

giovedì 19 gennaio 2012

Pensieri.



Il mondo che abbiamo creato è il prodotto del nostro pensiero, e dunque non può cambiare se prima non modifichiamo il nostro modo di pensare.


di: Ecco Cosa Vedo


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Palermo, «capitale» senza speranza. Ora impugna i forconi.

La protesta del «Movimento dei forconi»
La protesta del «Movimento dei forconi»

La caccia ai politici e la cronaca di un fallimento.

PALERMO — Palermo è fallita. E non per i debiti. Per la mancanza di prospettive, di speranze. Restano rabbia e dolore, cui un capopopolo scaltro e disperato ha dato un simbolo: i forconi.
Prendiamo il sindaco, Diego Cammarata, che si è dimesso lunedì scorso. Ha governato per dieci anni la quinta città italiana, la capitale di un’isola-nazione conosciuta nel mondo intero, e nessuno se n’è accorto. Sui quotidiani nazionali finì solo quando Striscia intervistò il dipendente pagato dal Comune per tenergli la barca.
Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranzaUna città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza
«Il peggior sindaco di tutti i tempi» ha sentenziato il presidente della Regione, Lombardo. Ma no, Cammarata non è stato neppure il peggiore. Semplicemente, non è stato. Fu eletto in quanto famiglio di Micciché, famiglio di Dell’Utri, famiglio di Berlusconi. «Nuddu ammiscatu cu’ nenti» lo definisce un ambulante al mercato del Capo: il Nulla. Poi ride spalancando la bocca sdentata.
La prima azienda è la Regione: 28 mila dipendenti, precari compresi. La seconda è il Comune: 19 mila. Un apparato produttivo da Nord Africa, costi burocratici da Nord Europa. La Palermo del 2012 ha angoli di bellezza struggente e altri da Terzo Mondo. Impossibile restituire con le parole l’incanto dei mosaici della Cappella Palatina appena restaurati; poi esci, entri nei vicoli, e a duecento metri dalla sede del Parlamento più antico e più pagato al mondo ti inoltri tra le macerie dei bombardamenti del ‘43, entri in una stalla con abbeveratoio, biada e tutto, cammini su selciati da asfaltare, avanzi a zigzag per evitare l’immondizia. Oggi la città è strozzata da una nuova emergenza: la jacquerie, la rivolta spontanea, senza partiti né sindacati, che ha preso il nome immaginifico di «Movimento dei forconi» e firma comunicati come questo, scritto tutto maiuscolo:
«È INIZIATA LA RIVOLUZIONE IN SICILIA! STANOTTE TUTTI I TIR AI PRESIDI! GRIDIAMO FORTE L’INDIGNAZIONE CONTRO UNA CLASSE POLITICA DI NEPOTISTI E LADRONI! ».
Sono camionisti, contadini, pescatori. Bloccano i rifornimenti alla città: vuoti e quindi chiusi i distributori di benzina, nei supermercati cominciano a mancare frutta e verdura. Ce l’hanno con tutti, da Lombardo a Sarkozy, da Cammarata alla Merkel, con Roma e con Bruxelles. I camionisti, molti con il ritratto di Padre Pio sul cruscotto, chiedono aiuti per il gasolio. I contadini vogliono più controlli sui prodotti stranieri e più sussidi per i propri: «Vendiamo il grano a 23 centesimi il chilo, paghiamo il pane a 3 euro e 50». I pescatori hanno occupato l’ingresso del porto per denunciare che le norme europee impediscono il lavoro, il pescespada è specie protetta, il novellame neanche a parlarne, «intanto i giapponesi che avrebbero due oceani a disposizione vengono qui a pescarci sotto gli occhi il tonno migliore». Il capopopolo che si è inventato il logo si chiama Martino Morsello, ha 57 anni, gira con un forcone di legno in pugno e firma mail come questa:
«IL SISTEMA ISTITUZIONALE È AL COLLASSO! I POLITICI RUBANO A DOPPIE MANI, E LO STESSO FANNO I BUROCRATI. LA RIVOLTA DEI SICILIANI È NECESSARIA E URGENTE. A MORTE QUESTA CLASSE POLITICA COME SI È FATTO CONTRO I FRANCESI CON IL VESPRO!».
Anche se su Facebook lancia proclami sanguinosi, nella realtà Morsello è un ex assessore socialista di Marsala, fondatore di un allevamento di orate finito male. Vive in camper con la moglie. Tre figli, tutti disoccupati. Esposti al prefetto e processi in corso contro le banche e la Serit, versione isolana di Equitalia. Una passione per la storia siciliana, in particolare per le rivolte che, sostiene, scoppiano quasi sempre tra gennaio e marzo: i Vespri appunto, ma anche i Fasci siciliani. «Nel 1893 qui vicino, a Caltavuturo, cinquecento contadini che avevano occupato le terre furono attaccati dai carabinieri. Tredici morti. Esplose una rivolta nazionale. E sa che giorno era? Il 20 gennaio! Oggi in Sicilia, domani in Italia!». Boato dei camionisti del presidio. I carabinieri li guardano con aria interrogativa. Sul camper c’è anche Rossella Accardo, vedova del capocantiere Antonio Maiorana, madre di Stefano, entrambi scomparsi, forse uccisi dalla mafia. L’altro figlio, Marco, è caduto dal settimo piano, non si sa come. Ecco l’ultimo proclama:
«NELLE PROSSIME ORE I MANIFESTANTI AGIRANNO CON MANIERE FORTI PER CHIEDERE AL GOVERNO REGIONALE I PROVVEDIMENTI ADEGUATI. IL 70% DEL COSTO DEL CARBURANTE È TASSA CHE ALIMENTA GLI STIPENDI DI POLITICI CORROTTI E MAFIOSI. LA RIVOLTA DIVENTERA’ NAZIONALE».
Ai blocchi sono partite le prime coltellate, un venditore ambulante di carciofi ha sfregiato un camionista. Più che i forconi, la Palermo borghese teme però gli ex carcerati della Gesip, la società che riunisce le cooperative sociali: duemila dipendenti, molti reduci dall’Ucciardone, che finora campavano di lavori socialmente utili. I soldi finiscono a marzo, loro minacciano di «mettere la città a ferro e a fuoco». L’espressione in questi giorni si spreca, ma loro hanno già mostrato di intenderla alla lettera, incendiando i cassonetti dei rifiuti che l’Amia fatica a smaltire: dopo i fasti delle consulenze d’oro e dei funzionari in vacanza a Dubai, la municipalizzata è inmano a tre commissari e sull’orlo del fallimento. L’Amat, l’azienda dei trasporti, attende 140 milioni dal Comune e da tempo non garantisce la revisione dei bus, come segnala la velenosa nuvola nera che si alza a ogni fermata come dalla coda di uno scorpione. La linea di pullman per l’aeroporto ha gasolio per una sola settimana. I tassisti non lavorano. Pure il museo di arte contemporanea, nuovo di zecca, è già a rischio chiusura.
A quanto ammontino i debiti del Comune non lo sa nessuno, neppure il sindaco dimissionario, che annuncia una ricognizione definitiva. Fino a qualche mese fa, una pezza la metteva il governo Berlusconi. A ogni Finanziaria qualche decina di milioni arrivava, magari per intercessione di Schifani che, come già i Borboni, ogni Natale distribuisce ai poveri il pane con la milza della focacceria San Francesco, marchio esportato in tutta Italia. Ora i soldi sono finiti, la manovra di agosto ha tagliato i contratti, migliaia di precari perderanno anche quei 500 euro al mese che non garantivano futuro, crescita, dignità, ma almeno sopravvivenza. E Morsello col forcone ha buon gioco a dettare alle agenzie:
«IL MOVIMENTO CHIAMA A RACCOLTA TUTTI I SICILIANI PER LIBERARE LA SICILIA DALLA SCHIAVITU’ DI QUESTA CLASSE POLITICA!».
Un’occasione ci sarebbe già a maggio: Palermo elegge il nuovo sindaco. Ma la confusione è massima. Per dire, l’emergente Gaetano Armao, assessore regionale all’Economia, è dato ora come candidato di Pd e Lombardo, ora di Pdl e Udc. In realtà, il centrodestra punta sul rettore dell’università, Roberto Lagalla. Ci proverebbe volentieri pure Ciccio Musotto, ex presidente della Provincia incarcerato per mafia e assolto, figlio di un grande personaggio della Palermo borghese, la pittrice Rosanna, discendente di garibaldini («il Generale è per me persona di famiglia, ho ancora il suo portaocchiali, quando scendeva Craxi a Palermo dovevamo nascondergli i cimeli»). Il Pd, che qui non tocca palla da quindici anni — «la sinistra siciliana è più debole che ai tempi del fascismo» ama dire Calogero Mannino —, si divide tra chi vorrebbe un candidato centrista, appoggiato da Lombardo e Terzo polo, e chi vorrebbe risolvere la questione con le primarie del prossimo 26 febbraio: Rita Borsellino contro il trentenne Davide Faraone, allievo di Matteo Renzi. Poi ci sarebbe Giuseppe Lumia, ex presidente dell’Antimafia. Ma di mafia a Palermo nessuno parla volentieri. Al più, ci si scherza. Come l’albergatrice che racconta: «I clienti stranieri mi chiedono sempre se nel quartiere c’è la mafia. All’inizio rispondevo di no, per tranquillizzarli. Loro però ci restavano malissimo, e uscivano delusi. Ora ho imparato a dire che sì, certo che c’è la mafia. Così escono con l’aria circospetta, strisciando lungo i muri, e si sentono davvero in un altrove».
Un altrove resta Palermo, di cui è giusto denunciare ogni guaio ma anche ricordare la commovente bellezza, gli stucchi del Serpotta più elaborati di quelli di Versailles, i fregi liberty del Basile degni dell’art nouveau parigina. Una terra da sempre produttrice di miti, oggi inaridita. Ci sarebbe Camilleri, che però ha quasi novant’anni e da sessanta vive a Roma; qui non tutti lo amano, se Lombardo lo voleva assessore Micciché lo definì «grandissimo nemico, prezzolato ideologico, assassino del Polo». Più che da miti, Palermo sembra abitata da fantasmi. La grande editrice Elvira Sellerio. I grandi preti: il cardinale Pappalardo, che si ritirò a contemplare la città dall’alto dell’eremo, e padre Pintacuda, che salì sulla montagna di fronte, nel Castello Utveggio, a dirigere per conto di Forza Italia il centro studi della Regione. Anime morte, come don Turturro, cugino dell’attore americano, il parroco antimafia che faceva innamorare popolane devote e giornaliste straniere: condannato per pedofilia.
Dal carcere sono usciti i killer del dodicenne Di Matteo sciolto nell’acido, ed è entrato—lontano, a Roma—Totò Cuffaro, cui non è bastato collezionare crocefissi, santi, ritratti di don Bosco e immagini della Bedda Madri (dell’Atto di affidamento della Sicilia al Cuore Immacolato di Maria stampò un milione di copie, «e le assicuro che l’Atto funziona, lo sa che abbiamo avuto due terremoti senza un solo morto?»). Dal carcere è uscito Mannino — «al terzo mese cominciai a pisciare sangue» —, dopo anni di processi per stabilire se il suo soprannome fosse Lillo, come lo chiamano i parenti, o Caliddu, come dicevano i pentiti. Leoluca Orlando, che vorrebbe candidarsi a sindaco per l’ennesima volta, colleziona invece nella sua villa liberty statuette di elefanti e ceramiche Florio («il massimo sarebbe un elefante in ceramica Florio. Lo cerco da sempre. Mai trovato»). Sotto la camicia, porta una mano di Fatima e la piastrina che lo certifica come affetto dalla sindrome di Kartagener, «siamo in quattro in tutto il mondo, stampati al contrario, il cuore a destra il fegato a sinistra». Ma in tutto il mondo non si trova una città come questa, nel bene e nel male.
Palermo (pan-ormos: tutto porto) è città madre, tonda, avvolgente, che accoglie ogni cosa come in un abbraccio, e ogni cosa racchiude: i mosaici come a Bisanzio, i suq come a Fes; il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis è più bello di qualsiasi danza macabra germanica; nella chiesa della Catena, gotico catalano, sembra di essere a Barcellona; San Domenico, barocco coloniale spagnolo, pare Cuzco. All’apparenza basta a se stessa, i calabresi disprezzati, i napoletani ignorati, i padani compatiti. In realtà, è figura dell’intero Paese.
Di una città come Palermo, di una Palermo risanata, l’Italia ha bisogno. Oggi si impugnano i forconi e si grida di rabbia; domani una soluzione si deve cercare. Perché non possiamo dire: se la cavi da sola. Se Palermo fallisce per sempre, è un fallimento nostro.

Malpensa: ecco come i dipendenti trafficavano chili di coca.


4 dipendenti arrestati dalla guardia di finanza. Nel video le preoccupazioni degli arrestati intercettati.


Beni per oltre un milione di euro, questa la fortuna accumulata da quattro dipendenti dello scalo di Malpensa, fino ad ora incensurati. La Guardia di finanza di Torino ha scoperto che erano proprio loro a garantire, all'insaputa dei datori di lavoro, l'uscita della cocaina dall'aeroporto milanese. Complici di un'organizzazione di narcotrafficanti che li ripagava a suon di euro. 

La droga purissima proveniva da Santo Domingo e arrivava a Malpensa in pacchi da 20/30 chili, all'interno di una stiva di servizio degli aeroplani. Uno degli indagati ritirava personalmente i pacchi e li consegnava ai complici, eludendo i normali controlli. Nel video le voci sgomente di due di loro, ormai consapevoli di esser stati scoperti. 

Fassino & Chiampa hanno una banca. - di Giorgio Meletti



Giorgio Meletti


La promessa gliel’aveva fatta il sindaco di Torino Piero Fassino appena eletto, nel maggio scorso. E il suo predecessore Sergio Chiamparino, da allora alla ricerca spasmodica e vana di uno sbocco politico che l’ha portato finanche a bussare alla porta dell’ex emergente sindaco di Firenze Matteo Renzi, adesso passa all’incasso: “Sono stato contattato per la presidenza della Compagnia di San Paolo e ho dato la mia disponibilità”. Ecco fatto.
Se vi chiedete chi l’ha contattato, lasciate perdere. Certe cose non si dicono. Il bravo politico-banchiere dev’essere un eccellente dissimulatore. Per dire, fino a poche settimane fa Chiamparino faceva finta di non volerne sapere della Compagnia: “Il mondo è già pieno di banchieri che non sanno fare il loro mestiere”, diceva, forse preparando il colpo di scena, la sorpresa: il politico che crede di saper fare il banchiere. Del resto funziona così il galateo opaco delle Fondazioni bancarie, giuridicamente enti privati, di fatto ultimo tesoretto a disposizione della casta, che difende con le unghie e con i denti il potere di fare i suoi comodi con quei 50-60 miliardi di patrimonio. Sarebbero soldi pubblici, e farebbero tanto comodo a uno Stato costretto a tagliare le pensioni, ma non c’è niente da fare.

Guai a chi tocca l’autonomia delle Fondazioni. Che nel caso della Compagnia San Paolo funziona così: dei 21 membri del consiglio d’amministrazione il comune di Torino ne nomina due, eppure, per prassi, tradizione e convenzione tacita, comanda. Il presidente della Compagnia lo sceglie il sindaco, e tutti i 21 consiglieri, grati di aver avuto la poltrona (chi dal comune di Genova, chi dalla regione Piemonte, chi dall’Accademia dei Lincei, chi dall’Unione Europea, e via dicendo) alzano la manina. Stavolta però Chiamparino abbatte il muro del suono: ci va lui direttamente, facendosi prescegliere dall’amico-nemico Fassino. Potrebbe sembrare una farsa municipale se non fosse preceduta da una tragedia nazionale.

La Compagnia di San Paolo è il primo azionista della prima banca italiana, Intesa Sanpaolo, con il 10 per cento delle azioni. E fa una certa impressione constatare che negli ultimi anni il contributo di Chiamparino al governo del gigante del credito, come tutte le banche sull’orlo di un abisso chiamato crisi finanziaria mondiale, sia stata la difesa dei coefficienti di torinesità della banca. Avete letto bene: torinesità. Chiamparino è affezionato alla Compagnia di San Paolo e ad altre cose torinesi come la Fiat e le partite a scopone con Sergio Marchionne per distrarsi un po’ tutti insieme tra una chiusura di stabilimento e una perdita di quote di mercato. Nel 2004 ha voluto alla presidenza della Compagnia l’avvocato dell’Avvocato, Franzo Grande Stevens. Nel 2008 ha scelto Angelo Benessia, ex consigliere Fiat. Adesso i salotti trasversali torinesi sono stufi di Benessia, perché (indovinate?) non si è fatto valere con i “milanesi”, che poi erano il bresciano Giovanni Bazoli (presidente di Intesa), il comasco amministratore delegato Corrado Passera, il lecchese Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, secondo azionista della banca dopo la San Paolo.

Il problema di Chiamparino è che Intesa Sanpaolo è nata dalla fusione della milanese Intesa e della torinese Imi-Sanpaolo, nata a sua volta dalla fusione della torinese San Paolo con la romana Imi. Banche gigantesche, di livello internazionale alle quali però giustamente uno come Chiamparino guarda la targa, perché i mercati globali sono chiacchiere, mentre chi comandano sono i politici locali. E così quando ci fu la fusione, nel 2007, il numero uno Passera entrò in rotta di collisione con il numero due Pietro Modiano, che veniva dal Sanpaolo, ma era l’unico vero milanese al vertice. Il sindaco di Torino, con l’occhio ai mercati internazionali, tuonò: “Il siluramento di Modiano verrebbe vissuto come un atto ostile alla città”. Nientemeno. Modiano infatti, benché milanese, e blasonato per la discendenza dalle carte da gioco, fu cacciato dai milanesi. Per riscattare lo scorno, Chiamparino mise in pista per la presidenza del consiglio di sorveglianza l’ex ministro Domenico Siniscalco, lanciandolo così: “Ho cercato un nome che avesse i quarti di professionalità e di torinesità utili per non lasciare la palla in mano ai milanesi”.

Lui parla così. Anche Siniscalco è stato abbattuto, e ha devoluto la sua torinesità alla Morgan Stanley. Adesso l’ex sindaco vuole andare in prima persona a cantargliela ai milanesi. Ma a Torino, dove come in ogni paesone preferiscono l’odio intestino a quello per i milanesi, qualcuno teme che alla fine si limiti a usare la Fondazione, impoverita dalla crisi bancaria, come Bancomat per il comune, pure impoverito, del suo grande elettore Fassino.



http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/19/fassino-chiampa-hanno-una-banca/184858/