giovedì 21 giugno 2012

ALDO PATRICIELLO. L’europarlamentare che prende lo stipendio ma non si vede (quasi mai). Andrea Succi




Due condanne passate in giudicato, grande amico di Berlusconi e Cosentino, esponente molisano di un Pdl alla deriva, nonché europarlamentare assenteista. O meglio: uno dei più assenteisti, secondo la classifica di presenza stilata da Votewatch, il database pubblico di tutte le votazioni registrate a Bruxelles. Eppure i circa 12.000 euro di stipendio mensile (che comprensivi di benefit vari, nel 2011, potevano arrivare ad un massimo di 21.209 euro) non tardano mai a finire nelle tasche di Aldo Patriciello…
LO CHIAMAVANO BERLUSCHINO - Tra televisioni private, squadre di calcio e aziende attive nei settori di sanità e costruzioni, l’europarlamentare venafrano Aldo Patriciello non si è fatto mancare praticamente nulla. Comprese due condanne passate in giudicato: una per finanziamento illecito alla campagna elettorale di un politico amico, l’attuale Presidente della Regione Molise Michele Iorio, con cui ha sempre fatto cartello, nonostante le finte diatribe (sentenza della Cassazione n° 1678 del 25.6.1997); la seconda, “per aver attivato un nuovo impianto di bitumazione senza la prescritta autorizzazione alle emissioni e senza aver dato la preventiva comunicazione alle autorità competenti” (sentenza della Cassazione n° 1211 del 23.9.1996).
Ma il tempo passa, la gente dimentica e i processi – colpiti a morte dal piduismo berlusconiano – si complicano maledettamente. Nonostante Patriciello venga più volte coinvolto in pesanti procedimenti giudiziari – tra cui Piedi D’Argilla, sfiorato dal reato di 416 bis (poi archiviato per insufficienza di prove) – riesce sempre a uscirne pulito.
E la smania di potere a tutti i costi, caratteristica del Patriciello anni ’90, si attenua, lasciando spazio a una politica più ragionata, in cui tessere rapporti imprenditoriali ed elettorali diventa un tutt’uno. Le aziende di famiglia crescono, su tutte la Neuromed, gioiello di sanità privata, e concorrono a creare quel bacino di voti necessario per diventare un politico di razza.
NEMO PROPHETA IN PATRIA - Dalla vecchia Dc a Forza Italia è un battito d’ali. Attratto da uno specchio ipnotico, Patriciello si lascia conquistare da Mr. B. e inizia una guerra per la leadership berlusconiana in Molise contro l’amico/nemico di sempre, Michele Iorio. Il Pdl è oramai nato ma il dualismo continua fino a quando l’imprenditore venafrano capisce che l’avversario è troppo ostico e ben piazzato. Morale della favola, si ricicla come europarlamentare candidandosi per la prima volta nel 2004, nella circoscrizione meridionale (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia) con l’Udc, partito con cui ha sempre avuto un certo feeling.
Prende 60 mila e rotti voti, non ce la fa, mastica amaro. Ma il destino è dietro l’angolo: alle politiche del 2006 Lorenzo Cesa, primo eletto nella circoscrizione, vince il terno al lotto e va a sedersi dritto in Parlamento, cosicché il mai domo Patriciello riesce (finalmente) a volare a Bruxelles.
L’EUROPARLAMENTARE CHE C’È MA NON SI VEDE - Chi nasce tondo non muore quadrato, direbbero gli anziani saggi che coltivano le splendide terre molisane e che conoscono molto bene il figliol prodigo (?) Patriciello. E infatti la percentuale di presenza sfiora il 58%: praticamente una volta su due l’inviato meridionale a Bruxelles ha altro da fare. C’è, ma non si vede né si sente. Appena 24 interrogazioni, un quasi record. Tuttavia raggiunge un primato, diventando uno dei pochissimi europarlamentari cui hanno tolto l’immunità parlamentare. Lì per lì stava per farsela sotto, poi si è improvvisamente ricordato come funziona la giustizia in Italia – soprattutto nei confronti della Casta – e ha tirato un sospiro di sollievo.
L’EUROPARLAMENTARE CHE C’È MA NON SI VEDE, 2.
Viste le premesse c’erano tutti i presupposti per una ricandidatura facile facile. E nel 2009 ci riprova. Exploit: passa da 68 mila a oltre 110 mila preferenze, di cui solo 20.000 nel natio Molise. Il resto? È nella roccaforte campana che Patriciello dà il meglio di sé, raccogliendo più di 50 mila voti nelle province di Caserta e Napoli.
Sono in tanti ad avergli fatto le pulci in quanto secondo eletto, appena dietro Silvio Berlusconi, in comuni “a rischio” quali Mondragone, San Cipriano D’Aversa, Santa Maria Capua Vetere, Santa Maria La Fossa. Non ti curar di loro e passa avanti, ecco il motto di Patriciello, ribattezzato Mr. 110 (mila preferenze) e, quindi, forte del suo consenso personale.
Talmente forte da sentirsi onnipotente e ubiquo: ci sono anche se non ci sono, ci sono anche se non mi vedete. Come una sorta di Houdini all’italiana, l’europarlamentare Aldo Patriciello si è barcamenato tra apparizioni, poche, e sparizioni, di più: risulta infatti al 739° posto, su 753 europarlamentari, nella classifica globale stilata da Votewatch, con una percentuale di presenza del 61%. Bassa, certo, ma migliore rispetto al 58% del primo mandato.
Lo stipendio invece, quello sì, arriva puntuale come un treno svizzero: ogni mese, al di là di assenze o presenze, Patriciello si ritrova in saccoccia circa 12 mila euro, che - secondo il bilancio 2011 dell'Europarlamento - possono arrivare fino ad un massimo di 21 mila euro per deputato, benefit compresi.
Chissà che al terzo mandato, se dio vorrà, non saprà riscattarsi.

Barry White - Jusy the way You are




L’emergenza corruzione. - Salvatore Brigantini




Nel 2009, lasciando l' Italia, l' ex ambasciatore Usa Spogli affermò che la nostra grande piaga è la corruzione; la muta reazione confermò la diagnosi - certo umiliante - di un male che trabocca ogni giorno dalle cronache. Sfugge sempre il danno che esso fa, anche all' economia. La corruzione, beninteso, esiste ovunque, la colpa non è nel Dna nostro; il tema vero è perché la nostra società civile non riesce a prevenirla, e poi a bloccarne le prime manifestazioni. Il solo argine alla corruzione da noi è nel lavoro della magistratura, ma essa è un' estrema rete di sicurezza che deve entrare in gioco solo quando qualche intoppo fa saltare i filtri del sistema. Se però questi sono sempre occlusi, essa fa, dopo e male, il lavoro che altri avrebbe dovuto fare bene prima. Quando la casa brucia, i pompieri sparano con violenza l' acqua; di quadri e arredi del salotto buono non si curano. Inutile poi lamentarsi se qualche pompiere va giù pesante. È la mancanza di preveggenza dei padroni di casa ad aver innescato il fuoco. Un effetto collaterale di questa mancanza del «filtro civile» è il logorìo dei carri dei pompieri, usati troppo e male, invece dei furgoni delle pulizie, che restano fermi in garage. 

Qualche esempio? Un lobbista amico del presidente della Lombardia Formigoni, con lui assai munifico, riceve in 10 anni 60 o 70 milioni, a titolo di consulenza, da un Istituto di cura privato con il quale la Regione, a sua volta, è stata assai munifica. Il lobbista, pur di sanità ignaro, coltivava i suoi contatti in Regione lavorando molto «sul lato umano». L' hanno stoppato solo i Pm. Ferma l' ammirazione per chi sia dotato di psicologia così fine, preziosa anzi, sorgono ovvie domande. Fino all' arrivo dei Pm andava tutto bene? Perché - negli infiniti dibattiti in Regione - sono mancate aspre domande sui rapporti stretti fra il presidente della Regione e un lobbista che così apertamente ne sfruttava l' amicizia? Nessuno dei molti, influenti e pii, amici del presidente Formigoni gli ha mai intimato, a brutto muso, la fine di tale malcostume? 

Poi ci sono le distrazioni dei fondi che l' Italia - cioè noi tutti - paga ai partiti. La denuncia del caso Lusi non è venuta dai suoi, troppo distratti, amici di partito. Non parliamo della Lega, che a Roma ladrona si trovava tanto bene; mesta attende l' imminente ritorno alle amate valli. Anche qui, chi sapeva - ed erano tanti - ha taciuto; se imbraccia oggi fiero la ramazza, fa solo ridere. Alcune centinaia (o migliaia?) di calciatori e addetti ai lavori sapevano del calcio-scommesse, eppure nessuno ha squarciato il velo. Chi doveva consigliare la Regione Sicilia nella copertura dei suoi rischi finanziari non può decentemente dire che quanto ha ricevuto da controparti della Regione remunerava una consulenza. Non succede mai nulla fino all' ululato delle sirene! 

Se una società di giochi facente capo a soggetti con legami malavitosi riceve 148 milioni da Bpm, si arcua giusto qualche sopracciglio. All' arrivo degli inquirenti, accorre il deputato Laboccetta, che gli sfila il computer del titolare spacciandolo per proprio, per cancellare con calma tutto. Ovviamente il benemerito pastura quieto fra i banchi di Montecitorio. Chi in Bpm s' era opposto è stato bruscamente zittito: avrà cercato consensi nella struttura, senza frutto. In questi e in altri casi qualcosa era pur trapelato, prima dell' arrivo dei Pm, nelle cronache nere finanziarie, ma senza che si smuovesse l' opinione pubblica, come invece accade in Germania se un ministro copia la tesi di laurea, o se la moglie del presidente riceve soldi da un poco di buono. 

Non si pretende che il Paese sia composto di tanti Giorgio Ambrosoli, che da soli scoperchiano il malaffare. Basterebbe che si levasse spontaneo un moto di simpatia - nel senso originario della parola - verso chi lo fa. Una volta «contagiato» un sufficiente numero di cittadini attenti al bene pubblico, la partita sarebbe vinta. I 148 milioni al clan Corallo, i 60 al munifico lobbista, il loro multiplo che l' ospedale ha bellamente incassato, i «tesoretti» sperperati in corruzione da tanti partiti, sono rubati a famiglie e imprese meritevoli. Essi tuttavia tacciono: se lo scandalo tocca il loro settore, per il timore di contraccolpi, se non li tocca, perché non li tocca. Alzino finalmente la testa! È questa la zavorra che ci impiomba, scoraggiando nuove iniziative di italiani e stranieri. Il governo fa bene contro l' evasione; faccia ancor di più. Raccolga lo spunto del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco: aumentiamo il peso delle donne, meno aduse alla corruzione, nell' economia. Ammutolita la Lega, aiutiamo però il Sud, gran riserva di sviluppo economico e civile, a superare le storiche debolezze sul tema. Monti parli, oltre che alle menti, ai cuori. Dica la verità: la pervasiva corruzione divora il futuro dei nostri figli.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/lemergenza-corruzione/

Lo scippo della Costituzione. - Stefano Rodotà




Nel silenzio generale stiamo assistendo alla manomissione di alcuni importantissimi articoli della Costituzione. Può un Parlamento di non eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sul testo fondativo della nostra Repubblica?


Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di guardare oltre l’emergenza. È stato modificato l’articolo 81 della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio. Un decreto legge dell’agosto dell’anno scorso e uno del gennaio di quest’anno hanno messo tra parentesi l’articolo 41. E ora il Senato discute una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo, ruolo del Presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona “manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all’emergenza così perentori che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia.

In tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti. Proprio perché s’invocano condivisione e coesione, non si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da chiudere negli spazi ristretti d’una commissione del Senato, senza che i partiti presenti in Parlamento promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata.
Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes. 

L’orrore del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei principi costituzionali. La Costituzione contro se stessa? Per mettere qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto rivolte di piazza, ma l’uso accorto degli strumenti della democrazia. Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di esprimere la loro opinione con un referendum. 

Il saggio invito non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d’occhio invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate oggi le norme costituzionali. Privati della possibilità di usare il referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere le firme per una legge d’iniziativa popolare che preveda l’obbligo di introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all’istruzione, alla salute, com’è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero almeno ritrovare la parola.

L’altro fatto compiuto riguarda la riforparlamentari, costituzionale strisciante dell’articolo 41. Nei due decreti citati, il principio costituzionale diviene solo quello dell’iniziativa economica privata, ricostruito unicamente intorno alla concorrenza, degradando a meri limiti quelli che, invece, sono principi davvero fondativi, che in quell’articolo si chiamano sicurezza, libertà, dignità umana. Un rovesciamento inammissibile, che sovverte la logica costituzionale, incide direttamente su principi e diritti fondamentali, sì che sorprende che in Parlamento nessuno si sia preoccupato di chiedere che dai decreti scomparissero norme così pericolose.

È con questi spiriti che si vuol giungere a un intervento assai drastico, come quello in discussione al Senato. Ne conosciamo i punti essenziali. Riduzione del numero dei modifiche riguardanti l’età per il voto e per l’elezione al Senato, correttivi al bicameralismo per quanto riguarda l’approvazione delle leggi, rafforzamento del Presidente del Consiglio, poteri del governo nel procedimento legislativo, introduzione della sfiducia costruttiva. Un “pacchetto” che desta molte preoccupazioni politiche e tecniche e che, proprio per questa ragione, esigerebbe discussione aperta e tempi adeguati. Su questo punto sono tornati a richiamare l’attenzione studiosi autorevoli come Valerio Onida, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti, e Gaetano Azzariti, e un documento di Libertà e Giustizia, che hanno pure sollevato alcune ineludibili questioni generali. 

Può un Parlamento non di eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sulla Costituzione? Può l’obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza essere affidato a una operazione frettolosa e ambigua? Può essere riproposta la linea seguita per la modifica dell’articolo 81, arrivando a una votazione con la maggioranza dei due terzi che escluderebbe la possibilità di un intervento dei cittadini? Quest’ultima non è una pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il referendum del 2006, dissero “no” alla riforma berlusconiana.

A questi interrogativi non si può sfuggire, anche perché mettono in evidenza il rischio grandissimo di appiattire una modifica costituzionale, che sempre dovrebbe frequentare la dimensione del futuro, su esigenze e convenienze del brevissimo periodo. Le riforme costituzionali devono unire e non dividere, esigono legittimazione forte di chi le fa e consenso diffuso dei cittadini.

Considerando più da vicino il testo in discussione al Senato, si nota subito che esso muove da premesse assai contestabili, come la debolezza del Presidente del Consiglio. Elude la questione vera del bicameralismo, concentrandosi su farraginose procedure di distinzione e condivisione dei poteri delle Camere, invece di differenziare il ruolo del Senato. Propone un intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere che, da una parte, attribuisce a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e, dall’altra, ridimensiona il ruolo del Presidente della Repubblica. Aumenta oltre il giusto il potere del governo nel procedimento legislativo, ignorando del tutto l’ormai ineludibile rafforzamento delle leggi d’iniziativa popolare. Trascura la questione capitale dell’equilibrio tra i poteri. 

Tutte questioni di cui bisogna discutere, e che nei contributi degli studiosi prima ricordati trovano ulteriori approfondimenti. Ricordando, però, anche un altro problema. Si continua a dire che le riforme attuate o in corso non toccano la prima parte della Costituzione, quella dei principi. Non è vero. Con la modifica dell’articolo 81, con la “rilettura” dell’articolo 41, con l’indebolimento della garanzia della legge derivante dal ridimensionamento del ruolo del Parlamento, sono proprio quei principi ad essere abbandonati o messi in discussione.




http://temi.repubblica.it/micromega-online/lo-scippo-della-costituzione/

Mons. Bergallo, titolare della Caritas per l'America latina, pizzicato ai Caraibi.



"Chiedo scusa per l'ambiguità degli scatti e per le strumentali interpretazioni che hanno suscitato". Queste le prime dell'alto prelato.

Mons. Fernando Maria Bergallo è stato coinvolto quello che i giornali chiamano 'scandalo' perchè pizzicato al mare con una donna su una spiaggia caraibica. Un tête-à-tête molto intimo che ha subito suscitato grande imbarazzo attorno al prelato.

Ricordiamo però che il Mons. Bergallo è titolare non solo della diocesi di Merlo, periferia di Buenos Aires ma anche della Caritas per l'America Latina. Si avete letto bene: il titolare della Caritas del sud-america si è fatto una vacanza ai Caraibi e le fonti meglio informate parlano anche di un hotel di lusso. Forse è questo lo scandalo vero e proprio.
Ciò non toglie gli scatti siano certamente ambigui e poco appropriati per un alto prelato.

Luigi Lusi in carcere a Rebibbia E avverte: "Ho tante cose da dire".



Il Senato dice sì all'arresto: i sì sono stati 155, i no 13, un astenuto. Il primo commento dell'ex tesoriere: "Questo è un insegnamento per tutti. Sto vivendo un incubo, voglio rispetto". Bersani: "Senatori e deputati uguali agli altri cittadini".


ROMA - Luigi Lusi è in carcere a Rebibbia. Il Senato ha autorizzato l'arresto per l'ex tesoriere della Margherita. Il voto è arrivato dopo una giornata tesa, con polemiche e interventi "velenosi" in aula. Poi lo scrutinio palese: 155 i "sì", 13 i "no" e un astenuto. E' la prima volta che i senatori votano nominalmente su una richiesta d'arresto. Il Pdl, come annunciato durante la riunione di questo pomeriggio, ha abbandonato l'emiciclo. Il primo commento: "Sto vivendo un incubo, voglio rispetto". Poi aggiunge: "Non ho detto tutto".

L'intervento di Lusi. Prima del suo intervento, l'ex tesoriere della Margherita ha rivelato di avere ricevuto tanta solidarietà, "più di quanto possiate immaginare". Poi, durante il suo intervento in Aula: "Non intendo sottrarmi alle mie responsabilità e non intendo affatto sottrarmi al processo. Mi si vuole mandare in carcere perché, parlando con i media, inquinerei il percorso investigativo. Non c'è altra motivazione". Ma "il legislatore - ammonisce Lusi - deve tenere distinta l'autorizzazione alla misura cautelare dall'istituto, ancora non previsto, dell'anticipazione della pena". Non manca una richiesta: "Non fatemi diventare un capro espiatorio". L'ex tesoriere entra nel merito delle accuse. Chiamando in causa i vertici della Margherita. "La gestione dei flussi finanziari è stata effettuata per comune assenso al fine di accantonarle per le attivitàpolitiche di diversi esponenti del partito". Dopo il voto, il messaggio a Rutelli: "ha avuto la decenza di non votare a favore del mio arresto".  

"Vado dove devo andare". E dopo il voto del Senato, Lusi è un fiume in piena. "Sto vivendo un incubo, voglio rispetto". Poi. sulle indagini: "Non ho detto tutto, c'è una marea di approfondimenti da fare". L'ex tesoriere aspetterà nella sua villa di Genzano l'ordine di esecuzione dell'arresto che gli sarà consegnato dalla Guardia di Finanza. Poi l'analisi del voto: "Sulla mia testa si è giocata una partita politica molto ampia". Poi aggiunge: "Ho notato che se la Lega non fosse rimasta in aula sarebbe probabilmente mancato il numero legale, così come ho visto che Enzo Bianco ha votato. Almeno Rutelli ha avuto l'intelligenza di non votare". Ancora: "Io voglio combattere". L'ex tesoriere della Margherita, lasciando palazzo Madama, si è congedato dai giornalisti con la frase: "Ora lasciatemi andare dove devo andare".

I senatori contrari. Ecco i senatori che hanno votato contro la richiesta di autorizzazione all'arresto nei confronti di Luigi Lusi come risulta dai tabulati del voto. Per il Pdl: Diana de Feo, Sergio De Gregorio, Marcello Dell'Utri, Marcello Pera, Guido Possa, Piero Longo. Per il gruppo di Coesione Nazionale: Valerio Carrara, Mario Ferrara, Salvo Fleres, Massimo Palmizio, Riccardo Villari. Per il Gruppo Misto: Antonio Del Pennino e Alberto Tedesco.

L'interrogatorio di garanzia. Potrebbe svolgersi già nella giornata di domani l'interrogatorio di garanzia in carcere per il senatore Luigi Lusi. L'ex tesoriere comparirà davanti al gup Simonetta D'Alessandro, che il 3 maggio firmò il provvedimento con cui chiedeva l'arresto per il reato di associazione a delinquere finalizzata all'appropriazione indebita.

Le reazioni. "L'arresto di Lusi? "Ho sempre detto che senatori e deputati sono uguali agli altri cittadini". Così il segretario del pd, Pier Luigi Bersani. Tra i primi a commentare, l'ex ministro degli Interni, Roberto Maroni. "E' andata come doveva andare. L'arresto è sempre una brutta cosa ma non c'erano alternative". Enzo Carra, Udc, su Twitter: "Il Senato ha votato contro il suo Schettino. Un uomo solo muoia perchè tutti gli altri vivano". Per Felice Belisario, Idv, "il Pdl ha fatto come Ponzio Pilato: se ne è lavato le mani con un comportamento molto grave. Gli italiani sapranno valutare". Gasparri, Popolo Delle Libertà: "L'atteggiamento di voto del Pdl è stato dettato anche dalla volontà di evitare che si cancellasse lo sfondo di corresponsabilità che c'è sulla vicenda".

In latino è meglio. - Rita Pani



Così, Squinzi dice che la legge sul lavoro è una boiata, ma va fatta. In quel che resta della destra ci si domanda come sia possibile, votare una legge che è una boiata. Ovviamente avendo la memoria labile si son scordati di quando l’allora ministro calderoli (sì, era ministro) disse che la legge elettorale era una porcata, ma la avevano fatta a posta.

Poi che male c’è? Siamo in Italia, rispettosi degli usi, dei costumi, delle tradizioni, e della cultura che ci ha sempre contraddistinto in questo vecchissimo continente. Quando una legge nasce storta, basta affibbiargli un nome latino, che la renda degna di tanta vetusta civiltà. Il latinismo, ormai, ha un suono quasi esotico. In fondo abbiamo votato col mattarellum – che non voleva dire un cazzo, ma rendeva l’idea della legnata – poi abbiamo trasformato la legge in Porcellum, e non ho mai visto nessun ministro, nessun politico e nessun giornalista, vergognarsi o non riuscire a pronunciare tanta bestialità.

L’Italia è stata capace anche di latinizzare il malaffare, promulgando leggi “ad personam” o normative “pro domo sua”. Senza imbarazzi, senza alcun rossore in volto, ci insegnavano che era normale, e che se era in latino, la cosa doveva essere serissima.

Ora tocca alla legge boiata in materia di lavoro, e io so già che a breve tutti i giornalisti parlamentaristi rinomineranno la cagata con un più consono “legge ad minchiam”. Poi verranno i dibattiti televisivi – per fortuna per poco dato che l’estate incalza - e le dotte disquisizioni sulla sintomatologia di un paese che sembra malato, invece è morto, piazzandoci qua e là un latinismo che fa sempre fine ed erudito chi lo usa.

D’altronde son giorni che la fornero, con la sua voce querula da vergine lacrimante, continua a battere su un punto fondamentale della questione lavoro: “Non è corretto parlare di esodati. Bisogna chiamarli con proprio nome, cioè salvaguardati.” E converrete con me, che almeno questa volta non le si può dare torto. Di fronte a cotanta rigida fermezza nella scelta del vocabolo più consono da usare, quale importanza potrebbe assumere il fatto che ad oggi, nell’Italia post latina, culla della civiltà, nell’era dell’abbondanza internettiana, non si sappia davvero quanti siano gli esodati, salvaguardati e sodomizzati?

Quo usque tandem …

Rita Pani (Ad polide)