domenica 24 giugno 2012

Cliclavoro, il sito del ministero che agli italiani costa due milioni di euro l’anno. - Thomas Mackinson

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E' una banca dati online che permette l’incontro tra domanda e offerta al pari di altre decine di portali specializzati. Solo la parte di “sviluppo e conduzione” della piattaforma, oggi in fase di aggiornamento, richiede 1,6 milioni di euro più Iva.

Anche il governo italiano ha il suo Monster, un portale per chi cerca e offre lavoro in Internet. Ma a due anni dal lancio di mostruoso ha soprattutto il costo: due milioni di euro solo per la gestione dell’infrastruttura di rete. Lo si raggiunge digitando l’indirizzo, non proprio intuitivo,www.cliclavoro.gov.it. In soldoni è una banca dati online che permette l’incontro tra domanda e offerta al pari di altre decine di portali specializzati. La differenza è che il costo del servizio è a carico dei contribuenti italiani e non è proprio a buon mercato: solo la parte di “sviluppo e conduzione” della piattaforma, oggi in fase di aggiornamento, richiede 1,6 milioni di euro più Iva. Poi ci sono i costi di sette persone che lavorano a tempo pieno al servizio. Il tutto a fronte di numeri così stringati in termini di accesso e fruizione del servizio da rendere quella spesa un’avventura ad alto rischio di spreco.
Potrebbe cominciare da qui la revisione della spesa dei ministeri che il governo dei tecnici ha annunciato per il prossimo triennio con un obiettivo di risparmio di 30 miliardi. In particolare dalle spese e dagli sprechi di quel Ministero del Lavoro che – tra articolo 18, esodati, e pensioni riformate – ha imposto il rigore al suo esterno senza averlo rivolto verso se stesso. Scovarle non è facile. Alcune voci illuminano ogni tanto l’orizzonte della spesa di struttura. Solo il servizio di pulizia dei locali delle sedi del Ministero, ad esempio, costa più di un milione di euro l’anno. Per l’esattezza 3,9 milioni Iva esclusa per 48 mesi per garantire le pulizie degli stabili di via Flaminia 6, via Fornovo 8 e De Lollis 12. Spese strutturali, si legge nel fitto bilancio del ministero. Così non sembra poi così strano se tra personale e spese varie gli stanziamenti per tenerlo in piedi, con uffici e diramazioni periferiche, ammontano a 529 milioni di euro. Solo la voce “servizi e affari generali per le amministrazioni”, cioè il funzionamento vero e proprio della “macchina ministeriale” pesa per 46 milioni di euro.
Il costo del portale Cliclavoro è dunque una goccia nel mare rispetto al gran calderone delle spese. Ma ha la sua importanza nello spiegare come rivoli di denaro pubblico possano scorrere paralleli e sfociare in un oceano di spese. Il portale governativo dedicato all’intermediazione pagato dai contribuenti, del resto, non è il primo ma l’ultimo. Proprio in questi giorni 300 precari dell’Isfol, la società pubblica di ricerca sul Mercato del lavoro che fa riferimento al ministero, protestano per il loro licenziamento imminente. Isfol, questo il paradosso, ha a sua volta un portale web (www.isfol.it) con tutta l’infrastruttura e le risorse che servono, l’area informativa, l’orientamento, le banche dati. Ma l’ente è avviato sulla via del tramonto mentre il portale gemello Cliclavoro gli fa le scarpe in un dumping tra iniziative pubbliche che fanno capo allo stesso ministero. E non c’è il due senza il tre, perché c’è un altro ente strumentale con portale annesso dedicato al mondo del lavoro. Si chiama Italia Lavoro (www.italialavoro.it) ed è un carrozzone che da tempo naviga in acque mosse sotto il profilo dei conti, soprattutto per via delle assunzioni degli ultimi anni che hanno visto il personale salire di un centinaio di unità (da 319 a ben oltre i 400) e i trasferimenti statali per le iniziative e le spese contrarsi. L’ente è oggi interessato da una profonda revisione della struttura e delle spese (dal 2008 la società ha dovuto organizzare una precipitosa fuga dalle partecipazioni azionarie che stavano facendo colare a picco i bilanci) mentre fa ancora un effetto che in una struttura nata ai piedi del ministero del Lavoro i precari (contrattisti a progetto) siano lì lì per superare i dipendenti.
Comunque sia il governo Monti oggi si ritrova tre portali sul lavoro in un momento in cui il lavoro non c’è. Cosa ne farà non è dato sapere. L’ultimo nato in casa lo ha ereditato dal precedente esecutivo e i suoi numeri non sono incoraggianti. Fortemente voluto dall’ex ministro Maurizio Sacconi, il portale Cliclavoro fluttua nel web dall’ottobre del 2010 portandosi dietro 342mila curricula e 10mila offerte di aziende che cercano personale. Sono segnalati 36mila “messaggi di interesse” scambiati tra imprese e cittadini. Se e quanto l’interesse sia poi diventato contratto non è dato sapere, nonostante l’avviso ai naviganti reciti: “Il lavoro a portata di clic per l’impresa e il cittadino”. I responsabili del servizio insistono sulla bontà del progetto e sulle intenzioni del governo non si sbilanciano. “Al momento non si hanno indicazioni diverse – spiega Grazia Strano, responsabile dei sistemi informativi automatizzati – . Si deve tenere conto che il portale realizza il sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro in ottica europea e che integra tutti i servizi al lavoro sviluppati negli anni a seguito di adempimenti di legge (comunicazioni obbligatorie, prospetto informativo dei lavoratori disabili, albo informatico delle agenzie per il lavoro).
Quanto ai numeri esigui, dal ministero si rivendica che il 7% di candidati e imprese che hanno pubblicato un CV o un’offerta di lavoro hanno poi instaurato un rapporto di lavoro che li coinvolge reciprocamente. Ma se sia avvenuto tramite questo servizio o altro non è chiaro.
Tutt’altri numeri offrono gli operatori da tempo presenti sul mercato nazionale e in rete, a costo zero per lavoratori e cittadini. Il citato Monster, punto di riferimento per il recruiting online, ha una dote di 130mila offerte l’anno e di 45mila cv caricati ogni mese. Anche le agenzie di somministrazione tradizionali con piattaforme in rete staccano Cliclavoro di un bel po’: Obiettivo Lavoro, ad esempio, colleziona 4,3 milioni di cv e 105mila offerte ogni anno. Il sito governativo, a onor del vero, riporta anche studi e statistiche sul mercato del lavoro e un’area news con rassegna stampa che viene costantemente aggiornata. Ma analoga attività realizzano i siti specializzati e gli enti locali deputati alla materia (in particolare le Province che gestiscono gli ex sportelli del lavoro). Per non parlare dei citati Italia Lavoro e Isfol.
L’iniziativa a giudicare dai numeri non ha sfondato. Cliclavoro nasce per il web ma anche in rete sembra non andare lontano. I suoi “amici” su Facebook sono poco più di 5mila e quando lancia un sondaggio la risposta non è proprio da macro campione statistico. Forse è la domanda che non scuote le coscienze: il 9 maggio scorso, ultimo sondaggio pubblicato, a chi cerca lavoro viene chiesto quali errori non bisogna assolutamente fare durante un colloquio. Il campione ha deciso: non bisogna arrivare tardi. E lo hanno deciso in 12 contro i 5 che hanno optato per “passare subito a parlare della retribuzione”. Zero per la terza risposta, presentare un cv troppo scarno o troppo dettagliato. Così l’iniziativa lanciata con entusiasmo due anni fa sembra già naufragare verso il flop, con numeri al palo e costi di gestione che continuano a correre. Lì, come spesso succede nel pubblico, c’è trippa per gatti come dimostra il bando da 2 milioni per gestire l’infrastruttura di rete. E lì, Cliclavoro, qualcuno lo fa lavorare sicuro.

Stato-mafia: tre domande a Napolitano. - Gianfranco Mascia


Abbiamo posto tre domande al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitanoin merito alla vicenda Stato-mafia.
E speriamo proprio che dal Presidente arrivino risposte convincenti.
Lo abbiamo fatto perchè siamo convinti che nessuno debba essere considerato “più uguale di altri” cittadini. Perché, dopo il periodo berlusconiano, non vorremmo scoprire di essere passati dalla padella alla brace. E, davanti a una richiesta di chiarimento, crediamo che le risposte siano dovute. Senza nascondersi dietro riserbi istituzionali di sorta.
Noi cittadini italiani abbiamo il diritto di sapere se ci sia stata una indebita ingerenza nei confronti del lavoro dei magistrati e le risposte che Napolitano vorrà fornirci serviranno proprio a questo.
Giorgio Napolitano è il Presidente della Repubblica e ha il ruolo di difendere le istituzioni e il loro prestigio. Per questo deve rispondere a queste domande, proprio per dirimere le ombre e i dubbi, allontanando non da sè, ma dal suo ruolo, i sospetti di vicende poco chiare.
Ecco quindi le tre domande:
1. Il presidente Napolitano era o non era al corrente dei tentativi messi in atto dall’ex presidente del Senato Nicola Mancino per evitare un confronto diretto con gli ex ministri Scotti e Martelli in merito alla presunta trattativa Stato-mafia del 1992 e dalle conseguenti pressioni che dal Quirinale venivano esercitate su sua esplicita richiesta?
2. Il Presidente della Repubblica era a conoscenza della lettera indirizzata al Procuratore generale della Cassazione e firmata dal segretario generale del Quirinale Donato Marra per chiedere di adottare “iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle Procure”, e cosa significava questa formula nel caso in questione?
3. Il presidente della Repubblica è mai intervenuto personalmente con il procuratore nazionale antimafia per discutere il caso Mancino, e in caso affermativo con quale finalità?
Attendiamo, fiduciosi, una risposta.

Trattativa Stato-mafia, 20 anni fa per Napolitano il Colle si poteva attaccare. - Giorgio Meletti

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Il presidente della Repubblica attacca i giornali che parlano di sue pressioni nelle indagini sul patto segreto tra istituzioni e Cosa nostra: il Capo dello Stato non va attaccato, è la linea del Quirinale. Ma nel 1991 era lui a scrivere sull'Unità un duro articolo contro il suo predecessore Francesco Cossiga.

Bei tempi quando al Quirinale c’era Francesco Cossiga. Politici e giornalisti potevano dire di tutto sul Presidente, e quando qualcuno provava a fare il corazziere di complemento veniva travolto da autorevoli padri della Patria, schierati come un sol uomo in difesa della libertà di opinione e di stampa. Il Fatto Quotidiano non c’era ancora, purtroppo. C’era invece Giuliano Amato, vicesegretario socialista, braccio destro di Bettino Craxi. A lui nemmeno allora andava giù che si criticasse il Colle. Disse un giorno: “Il capo dello Stato è oggetto di un’autentica campagna che, a ondate successive, persegue l’esplicito scopo di destabilizzare le istituzioni”.
DUE GIORNI FA Napolitano ha rispolverato la formula utilizzata 21 anni fa dall’amico socialista: “Si è alimentata una campagna di insinuazioni e sospetti nei confronti del presidente”. E ancora ieri sera l’Ansa ci segnalava che “i collaboratori del presidente si interrogano su chi possa esserci dietro, sulla regia dell’operazione”. Stesse parole, contesti simili. Nella primavera del 1991 la Prima Repubblica agonizzava sotto i colpi dell’antipolitica (Lega Nord, referendum elettorali di Mariotto Segni), i partiti strologavano di riforme istituzionali in senso presidenziale e l’inquilino del Quirinale era nervoso. E se oggi Napolitano parla di “insinuazioni”, Cossiga, che era più scoppiettante, parlava di “miserabili insinuazioni”. Sarà forse per quell’aggettivo di troppo, e perché l’insulto era rivolto a lui, che Eugenio Scalfari parlò di “attentato alla libertà di stampa”. Ma erano altri tempi. Amato, ancora craxiano, era in minoranza. Le sue accuse contro le strategie destabilizzanti facevano inorridire i difensori della democrazia. Così il cronista politico de l’Unità Pasquale Cascella (oggi portavoce di Napolitano) intervistò il presidente dei senatori Dc, Nicola Mancino, e gli alzò la palla con maestria: “Qui girano sospetti di un complotto…”. E Mancino, che allora al Quirinale non si poteva neppure avvicinare, perché Cossiga quando invitava i maggiorenti Dc lo lasciava fuori, schiacciò la palla come compete a un vero democratico : “Allora, Amato farebbe bene a fare nomi e cognomi dei complottatori. Per quanto ci riguarda l’idea di una nostra compartecipazione al complotto è semplicemente ridicola”. L’intervista uscì sul giornale fondato da Antonio Gramsci il 2 maggio 1991. E quel giorno lo scontro diventò incandescente.
A fianco di Mancino, e contro Amato, scese in campo, ebbene sì, Giorgio Napolitano, firmando un duro articolo destinato alla prima pagina de l’Unità. La sua linea su Cossiga ipotizzava tre strade: l’impeachment, le dimissioni volontarie, o la decisione del presidente della Repubblica di “astenersi da interventi impropri”. L’altezza del Colle non lo intimoriva certo. E per l’amico socialista furono sonori schiaffoni. Scrisse il futuro sacerdote dell’intoccabilità del Colle (se occupato da lui): “C’è da chiedersi a chi possa giovare il sempre più ostentato schierarsi del Psi come ‘partito del presidente’, contro tutti i supposti protagonisti e complici di un presunto complotto contro il capo dello Stato”.
E ANCORA: Cossiga, “è purtroppo attivamente coinvolto in una spirale di quotidiane polemiche, di difese e di attacchi di carattere personale e politico, fino alla sconcertante e francamente inquietante distribuzione di etichette e di voti a giornali”. Poi il colpo finale al povero braccio destro di Craxi: “Perché Amato non confuta nel merito le tesi di chiunque tra noi, come sarebbe legittimo, anziché emettere indistinte denunce, riferendosi a una campagna contro il capo dello Stato che sarebbe stata promossa non si sa bene da chi e per quali calcoli, e di cui sarebbe partecipe il Pds? Non ci si risponda con la facile formula del ‘partito trasversale’”. E infatti Amato non evocò il partito trasversale, ma si limitò a evocare, con 21 anni di anticipo, l’asse Napolitano-Mancino: “Ho parlato di campagna, non di complotto. Spiace dover constatare che prima Mancino, poi Napolitano ritengano che si tratti della stessa cosa”. 
Proprio come oggi. Campagna, complotto, notizie, tutto uguale, tutto sbagliato, tutto vietato. Che nostalgia dei tempi di Cossiga, quando la libertà dei giornalisti era difesa da Napolitano.

Carinerie.



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sabato 23 giugno 2012

Io non voglio credere che non si possa evitare.



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Inchiesta sanità, Formigoni è indagato. “Corruzione e finanziamento illecito”

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Il nome del presidente della Regione Lombardia nel fascicolo sui rapporti tra l'amico Daccò e la Fondazione Maugeri. Sotto la lente degli inquirenti i benefit messi a disposizione del governatore (yacht, cene, vacanze) e il presunto passaggio di denaro da un'azienda sanitaria privata in vista della campagna elettorale delle Regionali 2010.


Il governatore della Lombardia Roberto Formigoni è indagato nell’inchiesta della Procura di Milano sui 70 milioni di euro che il polo privato della sanità Fondazione Maugeri ha pagato negli anni al consulente-mediatore Pierangelo Daccò. La notizia è stata pubblicata sul Corriere della Sera. Le ipotesi di reato, riporta il quotidiano, sarebbero due: corruzione per la somma dei benefit ricevuti da Daccò e finanziamento illecito per oltre mezzo milione di euro relativi alle elezioni regionali 2010. La notizia è stata poi confermata all’Ansa che ha aggiunto che la contestazione per corruzione è formulata in concorso con Daccò. Formigoni ribatte così: ”Provo serenità e tranquillità d’animo, non solo oggi ma sempre”. E ancora: “Non ho nessuna notizia di questa indagine, la notizia ad oggi è destituita di ogni fondamento”. Il presidente della Regione Lombardia ha chiesto al Corriere della Sera ”un’immediata smentita”.

L’inchiesta. Il finanziamento elettorale illecito, sottolinea il Corriere, sarebbe provenuto da un’azienda sanitaria privata in vista della campagna di Formigoni per le Regionali lombarde. L’ipotesi di reato di corruzione farebbe invece riferimento ai benefit di ingente valore patrimoniale – vacanze, soggiorni, utilizzo di yacht, cene di pubbliche relazioni a margine del Meeting di Rimini, termini della vendita di una villa in Sardegna a un coinquilino di Formigoni nella comunità laicale dei Memores Domini – messi a disposizione del governatore dal mediatore Daccò. Le ipotesi di reato di corruzione e finanziamento illecito sono del tutto inedite, come evidenzia il Corriere della Sera. Sono spuntate nell’ultimo giro di interrogatori alcuni dei quali sono stati secretati. Tra questi quelli di Daccò. In ogni caso, per quanto se ne sa, né il “mediatore” né Simone avrebbero fatto ammissioni. 
Sospetti anche sulle delibere di giunta. Ci sono anche alcune delibere varate dalla Giunta regionale nel corso degli anni “nell’interesse” della Fondazione Maugeri alla base delle accuse mosse dalla Procura al presidente Formigoni. In particolare, secondo quanto scrive l’Ansa, i pm milanesi sono arrivati ad ipotizzare nei confronti del governatore la corruzione anche analizzando una serie di provvedimenti “complessi” che hanno ritoccato al rialzo i cosiddetti “drg”, acronimo che sta per “Raggruppamenti omogenei di diagnosi” con il quale si indica il sistema di retribuzione degli ospedali per l’attività di cura, introdotto in Italia nel 1995. Tra i beneficiari di questi rialzi, tra varie strutture sanitarie, rientrava proprio la Fondazione Maugeri. Per gli inquirenti, questa è l’ipotesi, tali delibere di giunta sulla maggiorazione dei rimborsi sarebbero state la contropartita dei benefit di lusso, come i viaggi esotici e le vacanze su mega yacht, e di “altre utilità” pagate da Daccò, come da lui stesso a messo a verbale, a Formigoni e al suo entourage.
Questi provvedimenti approvati dalla giunta Formigoni hanno cominciato ad essere affrontati negli ultimi interrogatori e, in particolare, da quanto si è saputo, in quelli resi da Costantino Passerino, l’ex direttore amministrativo della Fondazione arrestato lo scorso 13 aprile assieme, tra gli altri, all’ex assessore regionale Antonio Simone, amico personale del governatore come Daccò. 
Le parole di Daccò. Chiaro che proprio le parole di Daccò abbiano avuto un peso specifico particolare, come rileva il Corriere: Daccò aveva parlato di “aprire le porte in Regione Lombardia”, aveva detto di sfruttare “la mia conoscenza personale con Formigoni per accreditarmi presso i miei clienti”, di muovere «nell’ente pubblico le leve della discrezionalità» cruciali per il riconoscimento agli ospedali delle «funzioni non coperte da tariffe predefinite», cioè del capitolo (pari al 7% del bilancio della sanità per quasi 1 miliardo l’anno) parametrato su attività d’eccellenza e di ricerca in aggiunta ai normali rimborsi delle prestazioni erogate ai pazienti.
Durante l’inchiesta, nata come costola del crac dell’istituto San Raffaele, sono state arrestate finora 7 persone per accuse di vario tipo: associazione a delinquere aggravata dal carattere transazionale e finalizzata al riciclaggio, appropriazioni indebite pluriaggravate, frode fiscale ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Tra le persone finite in carcere due persone ritenute molto vicine al presidente della Regione Lombardia: uno è, per l’appunto Daccò, in cella da novembre, legame tanto stretto che i due hanno passato insieme molti periodi di vacanza; l’altro è Antonio Simone, in carcere dalla scorsa primavera, ex assessore regionale della Dc nei primi anni Novanta, coinvolto nella prima fase di Tangentopoli e infine riemerso come imprenditore immobiliare e consulente del settore della sanità. Simone, peraltro, è un compagno della prima ora di Formigoni, visto che entrambi sono tra i fondatori di quel Movimento popolare, “braccio politico” tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta di Comunione e Liberazione.
La lunga difesa di Formigoni. Il presidente Formigoni ha più volte respinto qualsiasi ipotesi di coinvolgimento nelle vicende giudiziarie che hanno travolto la sanità della Lombardia e in particolare due colossi come l’Istituto San Raffaele e la Fondazione Maugeri. L’ultima volta il governatore lombardo ha ribadito che tutte le inchieste riguardavano rapporti tra privati, che nessuna figura pubblica (politica o tecnica) era coinvolta e che Daccò non ha avuto vantaggi dalla Regione per il solo fatto di essere suo amico. 
All’inizio di questa vicenda Formigoni aveva spiegato anche di aver solo fatto con Daccò «vacanze di gruppo» ai Caraibi, dove ogni componente della comitiva pagava qualcosa. Ha fatto il giro di giornali online e tv la conferenza stampa in cui Formigoni diceva di dover controllare le sue agende o le ricevute (salvo poi non trovare verifica) per i rimborsi. Successivamente Formigoni aveva precisato che «non c’era stato bisogno di alcun conguaglio» con Daccò. Infine la vicenda della villa in Sardegna. Il presidente della Lombardia ha spiegato che ha “potuto accumulare risparmi per un milione di euro che ho prestato a un amico» (cioè Alberto Perego) per comprare la villa venduta per 3 milioni a Perego da Daccò due settimane prima del suo arresto. In Regione non è indagato nemmeno un usciere, aveva ripetuto Formigoni. Ma dopo l’ex dirigente alla Programmazione sanitaria Alessandra Massei, la scorsa settimana è finito sotto inchiesta (e perquisito) anche il direttore generale dell’assessorato alla sanità, Carlo Lucchina

Le otto domande del Fatto al Presidente della Repubblica. - Marco Lillo

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Il giornale chiede a Giorgio Napolitano una dichiarazione ufficiale sulla seguente conversazione intervenuta il 12 marzo scorso tra il consigliere Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino.  Qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa intercettazione secondo il Capo dello Stato?

Alla Cortese Attenzione del consigliere del Quirinale Pasquale Cascella
Gentile consigliere Pasquale Cascella ho provato a contattarLa telefonicamente ma non riesco a ottenere risposta a voce o via sms al cellulare. Il Fatto chiede al Presidente della Repubblica una dichiarazione ufficiale sulla seguente conversazione intervenuta il 12 marzo scorso tra il consigliere Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino.
D’Ambrosio: Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione oggi ribadito pure da Martelli… e non so se mi sono spiegato, per cui diventa tutto… cioè… la posizione di Martelli… tant’è che il presidente ha detto: ma lei ha parlato con Martelli… eh… indipendentemente dal processo diciamo, così…
Mancino: Ma io non è che posso parlare io con Martelli… che fa.
D: no no… dico no… io ho detto guardi non credo… ho detto signor Presidente, comunque non lo so. A me aveva detto che aveva parlato con Amato giusto… e anche con Scalfaro
1. Il Presidente conferma o smentisce di avere chiesto a D’Ambrosio di chiedere a Mancino se questi aveva parlato con Martelli?
2. Il Presidente si dissocia dalle affermazioni di D’Ambrosio che connette la richiesta suddetta (colloquio Mancino-Martelli extra processo) con il contrasto di posizione tra i due ex ministri in vista di un confronto nel processo?
3. Qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa intercettazione secondo il Presidente?
4. E qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa seconda affermazione contenuta nella conversazione intercettata il 5 marzo sempre tra D’Ambrosio e Mancino?
M: Eh… però il collegio a mio avviso li, un collegio equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto Tavormina.… dirigente prima della Dia e poi dirigente del Cesis, come ha ritenuto inutile ha respinto la domanda di confronto così potrebbe anche rigettare, per analogia…, eh… si ma davvero questa è la fonte della verità Martelli ed io sono la fonte delle bugie?
D: Sì, ho capito però il problema è intervenire sul collegio e una cosa molto delicata questo è quello che voglio dire.
M: Questo io l’ho capito.
D: Una cosa è più facile parlare con il pm, perché… chiedere… io quello che si può parlare è con Grasso, per vedere se Grasso dice… eh… di evitare… cioè questa è l’unica cosa che vedo perché Messineo, credo che non dirò mai… deciderà Di Matteo… dirà così no.
5. Il consigliere giuridico del Presidente, per evitare il confronto a Mancino, considera l’ipotesi di intervenire prima sul collegio del Tribunale, poi ripiega in via ipotetica sul pm e infine sul procuratore nazionale antimafia. Il Presidente si dissocia o ritiene lecito intervenire su un collegio del tribunale o su un pm per evitare un confronto tra un testimone qualsiasi e un altro testimone più amico (Mancino) che rischia un’incriminazione?
6. Perché il Quirinale dovrebbe occuparsi e preoccuparsi del contrasto di posizione tra due testimonianze di due ex ministri in un procedimento penale?
7. Più volte D’Ambrosio afferma di avere chiesto al Procuratore nazionale Piero Grasso di intervenire per un coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta più conforme alle aspirazioni di Mancino e di avere ricevuto in risposta un diniego. D’Ambrosio afferma in un’altra conversazione con Mancino: “Dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’… lo vedrò nei prossimi giorni, vediamo un po’. Però, lui… lui proprio oggi dopo parlandogli, mi ha detto: ma sai lo so non posso intervenire… capito, quindi mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il presidente parlava di… come la procura nazionale sta dentro la procura generale, di vedere un secondo con Esposito”.
8. Ritiene il Presidente di essere stato indotto in errore dal suo consigliere o ritiene giusto intervenire sul procuratore generale per chiedere al procuratore nazionale (che recalcitra) di rafforzare il coordinamento tra procure al fine reale però – da quello che dice il suo consigliere giuridico al telefono – di evitare un confronto scomodo a un testimone?
Da il Fatto Quotidiano del 22 giugno 2012