lunedì 9 luglio 2012

Dovevamo arrenderci: lo decise la Cia già al G8 di Genova.



Manovre lacrime e sangue per tutti tranne che per la “casta” mondiale, sovranità limitata o revocata, bavaglio universale all’informazione. Sindacati neutralizzati, banchieri al governo e partiti-fantasma ormai agli ordini dei signori dell’economia. Quello che oggi chiamiamo crisi era stato largamente previsto, dagli stessi super-poteri che, già nel 2001, prima ancora dell’11 Settembre, si preoccuparono di disinnescare sul nascere una potenziale bomba democratica planetaria, quella del movimento no-global. Diritti contro soprusi, cittadinanza contro privatizzazione. In altre parole: anticorpi civili per difendersi dalla globalizzazione selvaggia. Profeticamente, li pretendeva il “popolo di Seattle”. Fu fermato appena in tempo e nel modo più brutale, con il bagno di sangue noto come G8 di Genova.
E’ la tesi che fa da sfondo al drammatico libro-inchiesta “G8 Gate” firmato da Franco Fracassi per la giovane casa editrice Alpine Studio, nata come voce black bloc in azionedi qualità nel panorama italiano della narrativa specialistica d’alta quota ma poi, grazie al team guidato da Andrea Gaddi, sempre più disponibile a sondare il terreno minato della letteratura d’indagine: «Cresce la fame di verità, il bisogno di conoscere le vere ragioni di quello che ci sta succedendo», sostiene Gaddi, che nella collana “A voce alta” presenta titoli come quelli dedicati ai retroscena dell’attentato alle Torri Gemelle o al potere segreto dell’Opus Dei. In primissimo piano, grazie al lungo lavoro di Franco Fracassi, l’analisi sulle nuove forme della strategia della tensione: a cominciare dai black bloc, fantomatico gruppo di guastatori che nel 2011 ha «messo a ferro e fuoco Roma e incendiato i boschi della val di Susa», dopo aver devastato, una decina d’anni prima, Praga e Seattle. E soprattutto: Genova.
I black bloc  «hanno un nome, ma non un volto». Sono note le loro azioni, ma non il perché le compiono: «I black bloc sono temuti, odiati, talvolta idolatrati, ma nessuno li conosce veramente», dice Fracassi, presentando il suo ultimo lavoro sui neri guastatori senza volto, sempre così puntuali quando si tratta di rovinare cortei importanti, molto temuti alla vigilia proprio perché pacifici. «Di loro si dice che sono anarchici, che sono poliziotti infiltrati, che sono pagati da chi vuole sabotare le manifestazioni e i movimenti di protesta, che sono fascisti camuffati, che sono semplici sbandati carichi d’odio e con la voglia di annichilire il mondo che li circonda». Il nome deriva da una sigla storica, quella degli antinuclearisti tedeschi. Ma è stato tristemente sdoganato soltanto a Genova, nella “macelleria messicana” scatenata dai reparti antisommossa nel 2001: «La polizia ha letteralmente massacrato dimostranti inermi, senza procedere La violenza della repressioneall’arresto di un solo black bloc: ai “neri” è stato anzi permesso di devastare impunemente l’intera città».
Il libro di Fracassi ripercorre le tappe fatali della carneficina: dall’antipasto di Napoli del 17 marzo, in cui furono caricati selvaggiamente i manifestanti pacifici, fino al carnaio di luglio a Genova, con epicentro piazza Alimonda e l’atroce fine di Carlo Giuliani, nonché il corollario della vergogna: il pestaggio indiscriminato della scuola Diaz e poi le torture nella caserma di Bolzaneto. Cuore di tenebra del “buco nero” passato alla storia sotto il nome di G8 di Genova, la crudele uccisione di Giuliani: la pietra con cui si è infierito sul cadavere, fracassandogli il cranio nella speranza di inscenare un incidente credibile (il giovane no-global “ucciso accidentalmente da un sasso lanciato dai dimostranti”) e poi la sparizione della prova regina: Carlo Giuliani fu frettolosamente cremato, racconta la madre, Heidi, perché ai genitori fu raccontato che al cimitero non c’era posto per la tomba. Così, il forno crematorio cancellò per sempre anche il proiettile che Carlo aveva ancora nel cranio: fu davvero sparato dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, che oggi chiede la riapertura delCarlo Giuliani ormai senza vitaprocesso perché sia finalmente accertata la verità?
Allora reporter d’assalto per l’agenzia ApBiscom, Fracassi si calò fino al collo nella strana guerra civile che devastò le strade del capoluogo ligure, vivendo da vicino l’intero campionario dell’aberrazione andata in scena in quei giorni: la polizia che osserva le devastazioni dei black senza muovere un dito e poi, appena i “neri” si allontanano, carica senza misericordia i dimostranti inermi. Fotogrammi sconcertanti, che Fracassi offre ai lettori con l’immutata emozione dello sguardo ravvicinatissimo, delle manganellate ricevute, delle scene di terrore, della caccia all’uomo scatenatasi persino al pronto soccorso, tra i feriti più gravi. Pagine incalzanti, sempre nel cuore della tensione, tra le fila degli stessi agenti antisommossa – divenuti irriconoscibili, in preda a un’aggressività inaudita – e poi la prima linea delle “tute bianche”, tra ossa rotte e teste “aperte” dalle botte, fino agli inermi manifestanti cattolici: le suore colpite al volto, le ragazzine sfigurate e torturate. Ma soprattutto loro, gli inafferrabili black bloc.
Fracassi li ha seguiti da vicino, per ore: piccoli gruppi ben addestrati, pronti a devastare negozi, automobili e bancomat per poi sganciarsi rapidamente, sempre condotti al sicuro, nel dedalo dei vicoli, da misteriose “guide” perennemente al telefono: con chi? Con “qualcuno” che era perfettamente al corrente, in tempo reale, dei movimenti dei reparti antisommossa. Deduzione elementare, conclude amaramente il giornalista, che ha affrontato un estenuante lavoro di ricerca consultando anche fonti riservate, forze dell’ordine e servizi segreti. Proprio grazie alla sua tenacia, alla vigilia della mattanza riuscì a conquistare la fiducia di alcuni uomini della polizia: «Se vuoi vedere il macello, fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi», gli anticipa un funzionario di polizia alla vigilia del fatale venerdì 20 luglio: «Arriveranno dei black bloc e distruggeranno la banca. Due-tre minuti al massimo. E’ quello il segnale dell’inizio». Fracassi si presenta nel luogo indicato, e i black black bloc bloc arrivano con puntualità cronometrica. Prima di intervenire, proprio come previsto, gli agenti attenderanno che si siano allontanati. Poi caricheranno, travolgendo soltanto innocenti.
Se a Genova, come è stato da più parti denunciato, «la democrazia è stata sospesa», non è mai stato chiarito, del tutto, da chi. Dal governo Berlusconi? Tesi debole: l’esecutivo è finito sulla graticola, esposto a critiche planetarie. L’allora vicepremier Fini dietro le quinte? La regia operativa probabilmente anomala, centralizzata nelle mani dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro che di fatto scavalcò le autorità genovesi, questura e prefettura? No, c’era ben altro: secondo Fracassi, chi a Genova “voleva il morto” non era necessariamente italiano. Anzi, quasi certamente era americano: «C’erano troppi interessi in gioco, e il movimento no-global allora era fortissimo e faceva davvero paura. A chi? Alle grandi banche, alla finanza mondiale, alle multinazionali». Genova doveva essere la consacrazione definitiva della protesta, la nascita ufficiale di un “sindacato mondiale” dei cittadini, pronto a mobilitarsi ovunque per difendersi dagli abusi della Gianni De Gennaroglobalizzazione. Guai se a Genova il movimento avesse vinto: sarebbe diventato troppo ingombrante. Un brutto cliente, col quale i “padroni del mondo” avrebbero dovuto fare i conti. Meglio toglierlo di mezzo per tempo. Coi poliziotti? Ma no: coi black bloc.
Incolpare il governo Berlusconi e la polizia italiana per il massacro di Genova «significa non aver capito nulla di come va il mondo», avverte David Graeber, antropologo della Yale University ed esperto di fenomeni anarchici: «Nei fatti di Genova, il governo americano è infinitamente più coinvolto di quello italiano». Secondo l’antropologo consultato da Fracassi, «Genova non è stata altro che il punto terminale di una strategia avviata a Seattle, sviluppata a Praga e terminata in Italia». Movente: «Nel luglio 2001, all’amministrazione Bush interessava molto di più combattere il movimento no-global che Al-Qaeda: era quella la priorità della Casa Bianca». Un altro americano, Wayne Madsen, reduce dagli scontri al Wto di Washington l’anno prevedente, rivela: «Ho raccolto documenti e testimonianze dall’interno del movimento anarchico Usa e dell’intelligence». Cia, Fbi e Dia organizzavano e guidavano gruppi di devastatori anche nelle manifestazioni no-global nel resto del mondo? «E’ il loro modo di agire, ovunque ci siano interessi Franco Fracassi americani da difendere».
Per “G8 Gate”, Fracassi ha sondato centinaia di fonti. Tutte convergono drammaticamente verso un’unica ipotesi: a Genova si “doveva” spezzare le gambe, a tutti i costi, al nuovo movimento democratico mondiale. Obiettivo, veicolare il messaggio più esplicito: “Restate a casa, rinunciate a scendere in piazza perché può essere pericoloso”. Mandanti: le grandi multinazionali e persino le loro fondazioni, all’apparenza innocue e filantropiche, in realtà strettamente collegate con settori dell’intelligence. Disponibilità economica: illimitata. E poi la manovalanza principale della missione: i mercenari chiamati black bloc, ben addestrati in gran segreto e specializzati nelle tattiche della guerriglia urbana. «Le forze dell’ordine presenti a Genova – riassume Fracassi – sarebbero state in parte complici e in parte impotenti di fronte ai devastatori», i “neri” sbucati dal nulla e rimasti totalmente impuniti. «Grazie a una sapiente regia mediatica», tutto è avvenuto «di fronte ai giornalisti, ai fotografi e alle telecamere di tutto il mondo, che avrebbero creduto di raccontare le azioni di una formazione chiamata Black Bloc».
Ma tutto questo da chi sarebbe stato finanziato e poi coperto? Una domanda, ricorda Fracassi, che si era posto retoricamente anche il generale Fabio Mini, già comandante delle forze Nato in Kosovo: come avrebbero fatto, i “neri”, «a partire da Berlino e a venire a Genova potendo passare indisturbati tutte quelle frontiere?». E poi: chi ha pagato quel viaggio? «Lei ha una risposta?», domanda Fracassi. «Certo», risponde Mini: «Ci sono organizzazioni che sono fatte apposta per questo genere di cose: si occupano della logistica, della gestione delle risorse, della protezione di chi partecipa Fabio Minialle operazioni». Sia meno vago, lo incalza Fracassi. «Non posso», ammette malinconicamente il generale Mini.
Se è noto che in quei giorni a Genova c’erano non meno di 700 agenti dell’Fbi, Daniele Ganser, insegnante di storia a Basilea ed esperto di organizzazioni coperte come Gladio e Stay Behind, sostiene che la cooperazione tra servizi segreti americani e italiani sarebbe andata «ben oltre il semplice controllo dell’ordine pubblico». Il professore svizzero mette in relazione il Sismi con la Nsa, l’agenzia centrale di intelligence di Washington: «Secondo lei – dice a Fracassi – da chi provenivano le informazioni sulle “tute nere” dall’estero? E’ l’Nsa che ha il compito di intercettare le comunicazioni telefoniche, i fax, le e-mail. Poi le ha passate alla Cia, che a sua volta che ha date al Sismi», conclude Ganser. «A Genova erano presenti entrambi i servizi segreti, italiano e americano: le risulta abbiano fatto qualcosa per fermare i “neri”?».
(Il libro: Franco Fracassi, “G8 Gate”, dieci anni d’inchiesta: i segreti del G8 di Genova, Alpine Studio editore, 229 pagine, euro 14,90. Info: Alpine Studio).  

Diaz, lo Stato chiede i danni ai poliziotti.


Un’immagine scattata all’esterno della scuola Diaz nel luglio del 2001

Genova - Lo Stato chiede i danni ai super poliziotti della Diaz. Lo fa attraverso la Corte dei conti ligure che già dalla sentenza di condanna in appello aveva aperto un fascicolo ma che, solo adesso di fronte alla pronuncia della Cassazione , ha ufficialmente preso agli atti il fascicolo del processo per la sanguinaria irruzione nella scuola simbolo del G8 di Genova 2001.
I giudici chiederanno il risarcimento del danno di immagine ai condannati e anche ai “picchiatori” i cui reati sono stati prescritti ma le cui responsabilità sono state pienamente riconosciute. Gli emissari della procura regionale della magistratura contabile si sono presentati negli uffici del palazzo di giustizia di Genova all’indomani della Cassazione. In gran segreto: ora un nuovo processo alla polizia entra nel vivo.
La notizia trapela nel giorno in cui decide di rompere il silenzio Gianni De Gennaro , sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti che, nel 2001, era il capo della polizia e che, per i fatti del G8, è stato indagato, processato e assolto. De Gennaro si dice «addolorato per tutti coloro che a Genova hanno subito torti e violenze», ma aggiunge con una frase destinata a imbarazzare il governo l’«umana solidarietà per quei funzionari di cui personalmente conosco il valore professionale e che tanto hanno contribuito ai successi dello stato democratico nella lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata».


http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012/07/09/APJ2j7tC-poliziotti_chiede_stato.shtml#axzz206T6isUQ

Le aziende che ci spiano in Rete. di Giovanna Locatelli




Agenzie private di 'cybersorveglianza'. Anche italiane. Spesso al servizio delle peggiori dittature. Capaci di entrare nei nostri computer e nelle nostre mail. Ecco quali sono. E come lavorano.


Un business in continua crescita. Aziende occidentali che vendono - in piena legalità - i loro prodotti di sorveglianza elettronica ai migliori offerenti: compresi però regimi dittatoriali e sanguinari. Un mercato ambiguo e non regolato, nato con lo scopo di combattere il terrorismo, in cui forti interessi economici e violazione di diritti umani si mescolano inesorabilmente. Le società italiane non fanno eccezione.

Dicembre 2008: il debito maturato dallo Stato italiano nei confronti di tre società che lavorano nel settore delle intercettazioni arriva a 140 milioni di euro. Si tratta di Research Control Systems, Area Spa e Sio Spa. Ditte lombarde che gestiscono nella Penisola oltre il 70 per cento del mercato delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Il debitore, lo Stato, era anche il loro unico cliente. 

E' allora che Area spa si guarda intorno e si affaccia al mercato estero, cercando nuovi contratti di lavoro. Nel 2009 vince una gara d'appalto internazionale con la Siria, indetta dal gestore telefonico statale - e principale operatore - Syrian Telecommunication Establishment. Il contratto stipulato riguarda le intercettazioni delle e-mail e del traffico su Internet nel Paese mediorientale. L'accordo vale 13 milioni di euro circa. Per il progetto, altamente invasivo e complesso, si utilizzano hardware e software provenienti da altre tre società occidentali: la californiana Net App Inc., la francese Qosmos SA, e la tedesca Utimaco Safeware. Ognuna delle quali leader, a livello internazionale, nel settore della sorveglianza elettronica.

Nel 2010 gli ingegneri informatici italiani sono al lavoro per la Siria e nel febbraio 2011 arrivano a Damasco gli equipaggiamenti elettronici. Il mese dopo inizia la rivoluzione siriana e il 30 marzo ingegneri e tecnici della società tricolore si trovano a Damasco per far funzionare il sofisticato macchinario. 

Qualcosa però va storto. L'inchiesta giornalistica dell'agenzia americana "Bloomberg" scoperchia gli accordi e rivela tutti i dettagli e i retroscena relativi al progetto. Compresa la presenza degli ingegneri italiani a Damasco durante la repressione di Bashar Al Assad contro i civili. A questo punto le compagnie Qosmos ed Ultimaco fanno un passo indietro, dichiarano di abbandonare il progetto. Nell'ottobre 2011 anche il rapporto tra Area spa e la Siria salta. Dice l'amministratore delegato di Area, Andrea Formenti: "La società è risultata aggiudicatrice di una gara internazionale aperta alle principali aziende del settore in ambito mondiale. Non sono state violate le leggi nazionali ed internazionali. Il contratto seguito all'aggiudicazione è stato formalmente depositato presso le nostre autorità competenti, e la società nell'esecuzione dello stesso ha rispettato le norme vigenti in materia di esportazione". Quando arriva il dietrofront, comunque, alcuni strumenti di sorveglianza si trovano già a Damasco e sono stati parzialmente pagati: "Allo stato attuale il sistema fornito non è completo, non è (e non è mai stato) operativo, e pertanto non può avere in nessun modo contribuito a nessun tipo di azione repressiva", dicono ad Area spa. Poco dopo, l'Unione europea approva misure restrittive per l'esportazione di software di monitoraggio telefonico e on line in Siria. 

Area non è l'unica società italiana ad aver collaborato con i paesi "caldi"del vicino Oriente. La società con sede a Milano Hacking Team era attiva anch'essa in Medio Oriente e Africa durante le rivoluzioni della "primavera araba" e vede in quella Regione un'importante fetta del suo mercato, come emerge dal bilancio dell'azienda chiuso il 31 dicembre 2010. Nel documento si legge: "Dopo la chiusura dell'esercizio sono avvenuti i seguenti elementi rilevanti: è stato completato l'inserimento di un commerciale dedicato per l'area MiddleEast e Africa nel mese di gennaio (2011) e al contempo sono state avviate le attività di ricerca di due sviluppatori e un addetto pre-sales entro il 2011". Questo non significa necessariamente che siano stati intrecciati rapporti con qualche dittatura: ma, se fosse, non è dato saperlo.



Hacking Team produce un Cavallo di Troia molto invasivo, unico nel suo genere nel panorama mondiale, chiamato Remote Control System (Rcs), letteralmente sistema di controllo remoto della Rete. Rcs può controllare tutto il computer di un utente: attivare la telecamera, scattare foto, leggere le e-mail, inviarne di nuove, registrare conversazioni via Skype, visualizzarne la cronologia eccetera: e tutto senza che il legittimo proprietario se ne accorga. Nel bilancio emerge che a partire dal 2011, il Remote Control System è ancora più potente ed è pronto per essere venduto: "Nel corso del 2010 la società si è confermata come player internazionale nello sviluppo e nella commercializzazione di strumenti di monitoraggio a distanza di "devices targets" (computer, mobile devices etc)... La società ha mantenuto costanti i risultati di vendite del prodotto Remote Control System, registrando notevoli risultati in termini di ulteriore sviluppo e completamento dell'offerta dello stesso - risultati che daranno i frutti già a partire dai primi mesi del 2011". David Vincenzetti, l'amministratore delegato della compagnia, ha dichiarato che il suo prodotto è stato regolarmente venduto a 30 clienti in 20 paesi. Quali? Non si sa, sono "informazioni riservate". 

La commercializzazione di questi potenti strumenti di sorveglianza elettronica è un rischio concreto per tanti cittadini che oggi si trovano a lottare sia contro i tiranni sia contro i loro alleati informatici occidentali. Ma la responsabilità, secondo Eric King di Privacy Internacional, è dell'Occidente: "Sono soprattutto le agenzie americane interessate a comprare questi equipaggiamenti. Ma i regimi repressivi rappresentano un secondo mercato, molto pericoloso, anche se non quello principale. Le compagnie sono state finanziate principalmente dall'America e dall'Europa per il rafforzamento e il perseguimento dei loro obiettivi. A questo punto parte della responsabilità è proprio la loro. E' l'Occidente che ha creato la necessità impellente di utilizzare gli strumenti in questione e sono loro che contribuiscono, con finanziamenti da capogiro, ad accrescere questo business".




http://espresso.repubblica.it/dettaglio/le-aziende-che-ci-spiano-in-rete/2180639

"L'Amaca" di Michele Serra.



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Passa il favore.




Questo sono io, e queste sono tre persone a cui darò il mio aiuto, ma deve essere qualcosa di importante, una cosa che non possono fare da sole, perciò io la faccio per loro e loro la fanno per altre tre persone.

Trevor McKinney presenta alla lavagna la sua idea "passa il favore", Un sogno per domani (Pay It Forward)



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Diaz, De Gennaro: “Le sentenze vanno rispettate anche quando assolvono”.


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Le sentenze vanno rispettate sia quando condannano sia quando assolvono. Anche Gianni De Gennaro interviene, ora che le acque sembrano essersi calmate, nel dibattito seguito allapronuncia della Cassazione su quanto accadde alla caserma Diaz di Genova durante il G8 del2001. Pronuncia che di fatto ha decapitato la Polizia di Stato e che da alcune parti aveva fatto parlare anche di De Gennaro, capo della polizia all’epoca dei fatti. De Gennaro, ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti, affida il suo pensiero a una nota diffusa da Palazzo Chigi. “Le sentenze della magistratura – si legge – devono essere rispettate ed eseguite, sia quando condannano, sia quando assolvono”. Il riferimento, naturalmente, è a se stesso.
“In seguito alle decisioni per i gravi fatti di Genova – spiega il comunicato – le competenti autorità hanno puntualmente adempiuto a tale dovere, operando con tempestività ed efficacia”. “Per quanto mi riguarda – sottolinea De Gennaro – ho sempre ispirato la mia condotta e le mie decisioni ai principi della Costituzione e dello Stato di diritto e continuerò a farlo con la stessa convinzione nell’assolvimento delle responsabilità che mi sono state affidate in questa fase”.
Nella sua nota, De Gennaro aggiunge che “resta comunque nel mio animo un profondo dolore per tutti coloro che a Genova hanno subito torti e violenze ed un sentimento di affetto e di umana solidarietà per quei funzionari di cui personalmente conosco il valore professionale e che tanto hanno contribuito ai successi dello Stato democratico nella lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata”.
Durissima la reazione di Vittorio Agnoletto, guida del Genoa Social Forum del 2001: “Nelle parole dell’ex capo della polizia non c’è nemmeno l’ombra delle scuse che, se pur solo formalmente, ha chiesto il suo successore Manganelli”. “De Gennaro – aggiunge – con arroganza rivendica ogni cosa e, sfottendo i giudici, osa addirittura affermare che tutto si è svolto secondo la Costituzione, lui che a Genova nel 2001 era il capo della polizia e quindi il responsabile della gestione dell’ordine pubblico”. “Nemmeno una critica – sottolinea Agnoletto – verso i dirigenti di polizia condannati per reati estremamente gravi, ai quali va anzi la sua solidarietà. La stessa solidarietà in nome della quale per undici anni i vertici della polizia hanno cercato di impedire l’azione dei pubblici ministeri e di bloccare i processi. Per tutti gli altri resta solo un generico dolore; nemmeno un accenno alle vittime della violenza provocata dai suoi sottoposti”. “In qualunque altro Paese europeo De Gennaro sarebbe stato sospeso dall’incarico già nel 2001; è inaccettabile – conclude Agnoletto – che resti al governo nel silenzio colpevole di tutto il parlamento”.

domenica 8 luglio 2012

Assisi, il sindaco non vuole le donne: “C’ho provato, ma nessuna è all’altezza”. - Sara Nicoli

claudio ricci interna nuova


La giunta è senza donne e il pidiellino Claudio Ricci ha perso tutti i ricorsi presentati a Tar e Consiglio di Stato. Ma lui non si è arreso e ha fatto colloqui per "aspiranti assessore". Alla fine, però, ha spiegato di non averne trovate rispondenti "al criterio di immediata efficacia operativa".

Ci sono molti modi per guadagnarsi la ribalta delle cronache e la “gloria” politica. E Claudio Ricci, sindaco della serafica Assisi, la terra santa di Chiara e Francesco, si è guadagnato in pochissimo tempo l’astio sincero di tutte le sue compaesane. E non solo. Vinte le elezioni, nel maggio 2011 sotto le bandiere di una coalizione Pdl-Lega-Udc, Ricci ha pensato bene di formare la sua giunta in tempi rapidi. E ci ha messo dentro solo uomini. Di donne, Ricci non vuol sentir parlare. Né in politica, né – tantomeno – nel privato. Una misoginia robusta, di quelle che non crollano neppure davanti alla necessità di garantire, almeno per buon senso, la rappresentanza di genere, le famose “quote rosa”, nelle pubbliche amministrazioni.
Celibe, senza figli, domicilio non conosciuto in città, Ricci è già finito sulle pagine dei giornali per quell’ordinanza che vieta, ad Assisi, di chiedere l’elemosina a 500metri dai luoghi di culto. I concittadini, però, lo conoscono anche per un’altra sua singolare abitudine. Quella che lo porta, in piena notte, nella piazza centrale di Assisi dentro la macchina, a motore e fari accesi, a consultare freneticamente l’Ipad fino alle prime luci dell’alba. Ecco, Ricci è un personaggio un po’ così, che però punta in alto.
Dopo la vittoria alle elezioni si è presentato a Palazzo Grazioli, al cospetto di Berlusconi, chiedendogli un seggio in Parlamento o, meglio, la presidenza della Regione Umbria, ma il Cavaliere, dopo una prima occhiata fugace, l’ha liquidato in modo anche un po’ brusco: “Ma con quelle orecchie a sventola e senza capelli, ma dove vuoi andare mai?”. Delusione cocente per Ricci. Che, tuttavia, non si è perso d’animo. E subito è partito alla formazione della sua giunta nuova di zecca. Dove ha nominato solo assessori maschi. Le associazioni femminili locali e quelle regionali legate ai partiti di opposizione hanno presentato ricorso al Tar. Che lo ha accolto, il 20 giugno del 2012, annullando tutti i decreti di nomina di vicesindaco e assessori perchè lo statuto comunale (all’articolo 30, comma 2) prevede che il sindaco componga la sua giunta “assicurando di norma la presenza di ambo i sessi”.
Insomma, Ricci sembrava definitivamente sconfitto. La sua nota idiosincrasia per l’altro sesso stavolta avrebbe dovuto trovare una compensazione. Ma anche qui, l’uomo ha annunciato l’intenzione di ricorrere al Consiglio di Stato. E poteva anche essere finita così, in attesa dell’appello. Invece no. Ricci ha consumato una sua personale vendetta. Costruita a tavolino in modo da risultare inattaccabile. Ha cominciato a fare colloqui per aspiranti “assessore” del comune: richiesti titoli di studio, competenza politica, alta managerialità, esperienza amministrativa. La selezione è avvenuta anche sulle candidate alle elezioni del 2011 che avevano ottenuto voti, ma Ricci non ne ha trovata neanche una “rispondente al criterio fondante – si legge nel suo decreto del 2 luglio 2012 – dell’immediata efficacia operativa”.
Certo, il sindaco non ha voluto rendere pubbliche “le specifiche valutazioni” di ciascuna, ma l’esito non è stato comunque “positivo” . Quindi ha rinominato assessori quelli “azzerati” dalla sentenza del Tar: “Io ci ho provato – ha spiegato – ma nessuna era davvero all’altezza”. Inutile chiedersi a quale altezza si riferisse il sindaco. Ma è da rilevare un dato che in tutta questa vicenda ha stupito anche gli osservatori più disincantati: i francescani hanno sposato in pieno la battaglia del sindaco. Il loro fondatore, ne siamo certi, avrebbe fatto l’esatto contrario.