domenica 29 luglio 2012

Dal governo stretta sui farmaci griffati Ira di medici e Federfarma: "Vergognoso".



I medici dovranno limitare l'indicazione di prodotti specifici ai soli malati cronici che già li usano. Il provvedimento sarà approvato definitivamente dal Senato lunedì sera o al massimo martedì mattina.

ROMA - Addio prescrizioni facili per i farmaci griffati. Nel decreto della Spending Review spunta una novità che sta già facendo insorgere medici di famiglia e aziende farmaceutiche: una stretta sui medicinali di marca, che non potranno più essere prescritti dai medici con nonchalance. I prodotti "griffati" potranno essere segnati in ricetta solo ai malati cronici che già li usano, in tutti gli altri casi basterà indicare il principio attivo. Si potrà ancora prescrivere un medicinale indicando il nome commerciale ma, in questo caso, bisognerà spiegarne le ragioni.

La stretta ha già destato l'ira dei medici e di Federfarma, che denuncia un "vergognoso attacco" alle aziende del settore che "colpisce al cuore l'industria dei medicinali". Mentre la Federazione dei medici di famiglia - con il segretario Giacomo Milillo - sostiene che indicare in ricetta solo il principio attivo determinerà una "pericolosa confusione", con il risultato che il dottore non avrà più controllo sul tipo di farmaco di cui alla fine il paziente farà uso. Dopo la definizione dei nuovi tagli a sanità e farmacie, la rivisitazione delle province e una ricca ondata di micro-norme, il decreto della Spending Review taglia intanto il primo traguardo. Il più difficile. Passato l'esame della commissione Bilancio del Senato, approderà lunedì nell'aula di Palazzo Madama, dove è attesa una fiducia-lampo. Il provvedimento potrebbe essere approvato dai senatori già lunedì sera o, al massimo, martedì mattina. Poi passerà alla Camera, per il via libera prima delle ferie estive.

Morte D’Ambrosio, Padellaro: “Sciacallaggio di Libero e Giornale”.




Il direttore de Il Fatto Quotidiano commenta i titoli ("Pm assassini" e "Condannato a morte") sul consigliere del presidente Napolitano: "Lettori e giornalisti di quelle testate dovrebbero vergognarsi. La Procura di Palermo non è fatta di assassini".


“Sono indignato come cittadino, prima che come giornalista, dallo sciacallaggio che alcuni noti giornali hanno scatenato questa mattina contro la Procura di Palermo”. Usa parole dure il direttore del Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro, per commentare i titoli apparsi questa mattina su alcuni quotidiani. ‘Condannato a morte. Stroncato da un infarto il braccio destro di Napolitano infangato dai pm di Palermo e dai giornali’ è stata, ad esempio, l’apertura scelta dal direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Un episodio drammatico come quello del collaboratore del Quirinale Loris D’Ambrosio, dice Padellaro, non può trasformarsi nell’occasione per attaccare la Procura, squalificando il lavoro dei magistrati.

“La nota del quirinale è una nota che non condivido ma capisco e comprendo – spiega Padellaro – è morto un collaboratore esterno del Presidente Giorgio Napolitano, nei giorni scorsi al centro di cronache giudiziarie. È un fatto tristissimo, di fronte al quale tutti quanti dovremmo riflettere senza specularci sopra”.
E poi prosegue: “Credo che oggi alcuni giornalisti e alcuni lettori di Libero o de Il Giornale dovrebbero vergognarsi. La Procura di Palermo non è fatta di assassini. Perché scrivere ‘Condanato a morte’ significa dire che i magistrati sono degli assassini. Mi auguro che la magistratura di Palermo non venga lasciata sola, in un momento di attacco totale e vergognoso come questo”.
Il consigliere giuridico del capo dello Stato Loris D’Ambrosio è morto per un infarto qualche giorno fa, all’età di 65 anni. Nelle settimane scorse era stato coinvolto nella vicenda delle intercettazioni ”trasversali” riguardanti l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, rinviato a giudizio per falsa testimonianza nell’ambito del procedimento sulla trattativa Stato-mafia a Palermo. ”Era stato esposto a insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose” ha detto commosso il presidente Napolitano, commentando la sua scomparsa.

Ironizzando...



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Infarto di Stato. - Marco Travaglio


Mentre stormi di avvoltoi e branchi di sciacalli si aggirano famelici attorno alla salma di Loris D’Ambrosio, additando improbabili colpevoli del suo infarto e scambiando per “assassinio” il dovere di cronaca e il diritto di critica, è il caso di rinfrescare la memoria agli smemorati di Libero, Giornale, Foglio, Corriere, Stampa e Repubblica, ieri macabramente uniti nel mettere alla gogna Il Fatto Quotidiano nel tentativo (vano) di spegnere ogni residua voce di dissenso.
Un’operazione tanto più indecente e ricattatoria in quanto, di fronte alla morte, tutti ammutoliscono nel doveroso cordoglio e non è molto popolare azzardarsi a criticare i morti per quel che han fatto da vivi. Ma a chi non rinuncia al dovere di informare non rimane che lasciare in pace i morti e occuparsi dei vivi, mettendo ancora una volta in fila i fatti. Se il dottor D’Ambrosio è finito sui giornali, è a causa di intercettazioni legittimamente disposte da un giudice sul telefono di Mancino e legittimamente pubblicate dalla stampa, una volta depositate alle parti e dunque non più coperte da segreto. E, se il dottor D’Ambrosio è stato indirettamente intercettato, è colpa di Mancino che ha deciso di coinvolgere il Quirinale in una sua grana privata, ma anche del Quirinale che ha deciso di dargli retta e di prodigarsi per favorirlo, mettendo a repentaglio l’imparzialità della Presidenza della Repubblica. Decisione, quest’ultima, che è rimasta finora senz’alcuna spiegazione (il Quirinale “deve” qualcosa a Mancino e, se sì, perché?). Ma che D’Ambrosio attribuiva non a una sua iniziativa personale, bensì a una precisa e perentoria scelta del “Presidente”, che “ha preso a cuore la questione” e si è “orientato a fare qualcosa”: “Il Presidente parlerà con Grasso nuovamente”, “mi ha detto di parlare con Grasso”, “parlava di vedere un secondo con Esposito”, suggeriva a Mancino di “parlare con Martelli” per concordare una versione comune, scriveva al Pg della Cassazione per “non mandare lei (Mancino, ndr) allo sbaraglio” e perché il Pg “eserciti i suoi poteri nei confronti di Grasso… Tu, Grasso, fai il lavoro tuo”, insomma “si decide insieme” e il Presidente “sa tutto, e che non lo sa?”. Sono tutte parole di D’Ambrosio, non invenzioni dei suoi assassini a mezzo stampa.
Se quelle segretissime manovre per depotenziare o addirittura scippare ai titolari l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia sono note, non è grazie alla trasparenza del Colle, ma all’inchiesta di Palermo. E, se sono finite nel nulla, non è perché il Quirinale non ci abbia provato. Ma perché Grasso le ha respinte, ricordando che l’invocato “coordinamento” delle indagini era stato assicurato un anno prima da una delibera del Csm presieduto dallo smemorato Napolitano. Checché ne dicano il Presidente e gli sciacalli, D’Ambrosio non ha subìto (almeno sul Fatto) alcuna “campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose”. Se illazioni ci sono state, hanno inevitabilmente riguardato le conversazioni rimaste segrete fra Mancino e Napolitano, a causa della decisione del Quirinale di non renderle pubbliche, anzi di pretenderne la distruzione, a costo di trascinare la Procura di Palermo davanti alla Consulta con un conflitto che Franco Cordero (sul Corriere, sul Fatto e infine su Repubblica) ha dimostrato infondato. Su D’Ambrosio non c’era da insinuare o escogitare nulla: abbiamo semplicemente pubblicato e commentato criticamente, come altri giornali, le sue testuali parole intercettate. E, unico giornale in Italia, abbiamo subito intervistato D’Ambrosio per dargli la possibilità di spiegarle. Lui l’ha fatto, ma ci ha pure esternato il suo disagio per ciò che non poteva dire, essendo vincolato dal “segreto” su parole e azioni del Presidente che – ricordava ossessivamente nell’intervista – “sono coperte da immunità”.
Gli abbiamo chiesto di farsi sciogliere dal vincolo, ma dopo qualche ora ci ha fatto rispondere dal portavoce del Quirinale che il Presidente non l’aveva sciolto. Lo stesso vincolo che ha esposto lui, magistrato, a due imbarazzanti figuracce dinanzi ai suoi colleghi di Palermo, che lo sentivano come teste su ciò che aveva confidato a Mancino di sapere sulla trattativa: lui sulle prime negò tutto, ma poi, messo di fronte alle sue parole intercettate, dovette ammettere parecchie cose fra mille contraddizioni, e sfiorò l’incriminazione per reticenza. Non conoscendo personalmente D’Ambrosio, noi possiamo soltanto immaginare con quale stato d’animo un uomo tanto riservato abbia vissuto questi 40 giorni di esposizione mediatica e il drammatico ribaltamento della sua immagine: da collaboratore di Falcone nella stesura del decreto sul 41-bis a difensore d’ufficio di chi aveva revocato il 41-bis a centinaia di mafiosi, o almeno non l’aveva impedito.
Insomma, da servitore dello Stato a servitore di Mancino. Ma, se Napolitano avesse ragione a collegare la sua morte a quanto è stato scritto di lui, dovrebbe anche domandarsi chi ha esposto D’Ambrosio a quelle critiche, a quelle figuracce e a quel ribaltamento d’immagine: non certo chi ha riferito doverosamente le cose che aveva detto e fatto, semmai chi gli aveva chiesto di dire e di fare quelle cose.
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sabato 28 luglio 2012