venerdì 22 novembre 2019

Galan condannato in Corte dei Conti. “Dirottò soldi per salvaguardia della Laguna”. Dovrà “solo” 764mila euro grazie alla prescrizione. - Giuseppe Pietrobelli

Galan condannato in Corte dei Conti. “Dirottò soldi per salvaguardia della Laguna”. Dovrà “solo” 764mila euro grazie alla prescrizione

I fatti risalgono al biennio 2004-2005 e la maggior parte dei fondi distratti è ormai prescritto. I giudici contabili hanno discusso, alla fine, di un addebito pari a un milione 274 mila euro, per il 60 per cento contestati a Galan e per il 40 per cento all'assessore Chisso, assolto. L'ex governatore veneto dovrà quindi risarcire 'solo' 764mila euro dei circa 24 milioni di fondi finiti al Patriarcato, allora retto da Angelo Scola, e utilizzati per ristrutturare Sede patriarcale, seminario patriarcale e Basilica della Salute.

La condanna della Corte dei Conti di Venezia nei confronti dell’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan, non poteva avvenire in un momento più tormentato. Dopo le eccezionali acque alte si sta discutendo di Mose, ritardi nei lavori e finanziamenti per la salvaguardia di Venezia. Ed ecco che Galan, già coinvolto nello scandalo Mose del 2014, ora dovrà risarcire la Regione con 764mila euro per aver dirottato al Patriarcato fondi della Legge Speciale per Venezia che erano destinati a interventi di disinquinamento e salvaguardia della Laguna. Nell’epoca in cui regnava il Doge-Galan accadeva anche questo. Era il 2004-2005, il Patriarca era Angelo Scola: arrivato nel 2002, sarebbe andato dalla Laguna a Milano nel 2011. Non furono pochi soldi, ma parecchi milioni di euro, anche se la vicenda finita alla sezione giurisdizionale dei giudici contabili ha riguardato solo un 1,27 milioni di euro. La parte restante è stata coperta dalla prescrizione.
Assieme a Galan – che è rimasto contumace nel processo – era stato citato anche l’assessore alla Mobilità Renato Chisso (pure lui arrestato per le tangenti del Mose). Ma è stato assolto perché a proporre quei finanziamenti fu Galan e lui si limitò a votare due delibere. Su questo punto, nella sentenza, ricorrono anche i nomi degli assessori veneti di allora. Per una delibera del 2004 si trattava di Fabio Gava, Giancarlo Conta, Raffaele Grazia, Antonio Padoin, Raffaele Zanon e Floriano Pra (nel frattempo deceduto). Per una delibera del 2005 gli assessori erano Sante Bressan, Marialuisa Coppola, Ermanno Serrajotto e ancora Conta, Grazia e Zanon. Ma la Procura non ha ritenuto di portarli a giudizio, limitandosi alle posizioni di Galan e Chisso.
Secondo il collegio giudicante presieduto da Maurizio Mazza, la condotta di Galan fu “gravissima ed inescusabile”, per aver “proposto alla Giunta l’adozione di una deliberazione, in violazione di norme di legge” e per essere poi intervenuto anche presso la Presidenza del consiglio per ottenere una specie di autorizzazione. La Procura si era mossa nel 2014 quando, durante lo scandalo delle mazzette, i giornali scrissero di quel finanziamento di cui aveva beneficiato non solo il Patriarcato, ma anche la Comunità Ebraica veneziana.
Perché i soldi della Salvaguardia erano serviti a ristrutturare beni religiosi? La Regione, nel 2004, aveva revocato finanziamenti per interventi sulla Laguna pari a 26 milioni di euro. E nel 2005 la giunta aveva “deliberato di confermare la revoca di quei finanziamenti e di devolvere detta somma, per 24 milioni alla Diocesi Patriarcato di Venezia per finanziare il completamento dei lavori di restauro della Sede patriarcale, del Seminario patriarcale e della Basilica della Salute, e per 2 milioni di euro alla Comunità ebraica, per i lavori di restauro dell’edificio adibito all’assistenza degli anziani”. Ma quei soldi erano destinati ad altro, ovvero alla Laguna. Attorno ai lavori si è poi innestata una complicata vicenda, in due stralci e in tempi diversi, che è arrivata fino al 2016 e ha portato la Regione a chiedere la restituzione di alcuni milioni di euro al Patriarcato.
I giudici contabili hanno discusso, alla fine, di un addebito pari a un milione 274 mila euro, per il 60 per cento contestati a Galan e per il 40 per cento a Chisso (assolto). Si tratta della “sola parte per la quale non è ancora intervenuta la prescrizione”. Quest’ultima è stata calcolata retrocedendo nel tempo all’ultimo quinquennio rispetto alle date delle contestazioni. Si sono così salvati dalla prescrizione solo tre pagamenti risalenti al novembre-dicembre 2013. Gli altri erano precedenti. La condotta di Galan, concludono i giudici, “ha comportato la distrazione di fondi originariamente stanziati per la realizzazione di interventi di disinquinamento o di prevenzione dall’inquinamento, per la cui programmazione e finanziamento era competente la Regione Veneto, in favore di un soggetto privato per il restauro di immobili”.

Roma, 14 imprenditori e funzionari pubblici agli arresti per corruzione. Tra le gare pilotate anche quelle per lavori negli uffici giudiziari. - Giuseppe Pietrobelli

Roma, 14 imprenditori e funzionari pubblici agli arresti per corruzione. Tra le gare pilotate anche quelle per lavori negli uffici giudiziari

Secondo il procuratore aggiunto Paolo Ielo, che ha coordinato l'inchiesta, gli indagati avevano ideato uno schema per aggirare la rotazione degli affidamenti: i lavori erano formalmente assegnati a diverse società, ma in realtà ad eseguirli era sempre lo stesso imprenditore. In cambio denaro, ristrutturazioni gratis e acquisti di case a prezzi scontati. L'intercettazione: "Se i telefoni sono sotto controllo, ci arrestano tutti".

Soldi, lavori gratis nelle proprie abitazioni, prezzi scontati per l’acquisto di appartamenti, sponsorizzazioni per cambiare ufficio e far assumere familiari. Persino tartufi e smartphone in regalo. Tutto in cambio di affidamenti diretti che avrebbero dovuto essere a rotazione, ma in realtà finivano sempre agli stessi imprenditori. Che hanno così potuto effettuare lavori di ristrutturazione in uffici pubblici, persino dentro la Corte d’Appello di Roma e negli uffici della Procura in piazzale Clodio.
Con queste accuse la Guardia di finanza ha arrestato 14 persone, quattro delle quali in carcere, e notificato 6 obblighi di presentazione all’autorità giudiziaria nei confronti di imprenditori e dipendenti pubblici che lavorano al Provveditorato interregionale delle Opere pubbliche, il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria, l’Ater della Provincia di Roma, l’Istituto centrale per la formazione del personale della Giustizia minorile e l’Ufficio per i Servizi tecnico-giuridici del ministro dell’Interno. Tra gli imprenditori colpiti dalle misure cautelari c’è anche Franco De Angelis, nel 2015 coinvolto nell’operazione Vitruvio sull’interporto di Civitavecchia.
“Se abbiamo i telefoni sotto controllo, ci arrestano tutti”, dicevano gli indagati. E in effetti così era. Secondo il procuratore aggiunto Paolo Ielo, che ha coordinato l’inchiesta, gli imprenditori e i funzionari pubblici avevano ideato uno schema per aggirare la mancata applicazione della rotazione degli affidamenti: i lavori erano formalmente assegnati a diverse società, ma in realtà ad eseguirli era sempre lo stesso imprenditore. Tra i lavori assegnati in maniera illecita – stando alla ricostruzione dell’accusa – ci sono stati anche il completamento dell’impianto di climatizzazione e dell’antincendio della Corte d’Appello di Roma, in viale Giulio Cesare, e alcuni lavori edili negli uffici proprio della Procura di Roma.

giovedì 21 novembre 2019

Il prezzo delle bugie di Salvini lo paga tutto il Paese. - Gaetano Pedullà



Visto il grande successo delle paure, adesso ci si riprova con le incertezze. Su come siano state montate le prime è tutto chiaro. Una retorica incessante sullo straniero che ruba il lavoro agli italiani, o sui criminali dietro l’angolo, ha fatto schizzare il consenso di chi promette di risolvere i problemi buttando i migranti a mare o parandogli davanti un velleitario blocco navale. Per il momento, però, di andare alle urne non se ne parla e allora bisogna toccare altre corde, tenere alto il livello dell’indignazione popolare, a costo di raccontargli nuove frottole. Ai politici, si sa, questo sport riesce benissimo, ma l’ultima trovata della Lega per attaccare gli avversari al Governo è insuperabile.

Dopo l’invenzione di una Manovra che aumenta le tasse, mentre in realtà le diminuisce, ora ci raccontano che daremo un sacco di soldi pubblici al Fondo europeo Salvastati, togliendoli agli italiani che stringono la cinghia, e tutto questo in gran segreto. Regista della rapina del secolo sarebbe il premier Giuseppe Conte, che si è accordato nottetempo con la Merkel, i poteri forti, le barbe finte e chissà chi altri. In un Paese normale, un politico serio si guarderebbe bene dal farsi ridere dietro raccontando una tale panzana, ma a furia di ripetere le stesse bugie molti si convincono che queste siano la verità, e così il beneficio elettorale è assicurato. E dire che a Bruxelles si tratta sul Fondo salvastati da oltre un anno, e lo stesso Conte ha ricordato ben quattro riunioni con la Lega per aggiornare l’Esecutivo dell’epoca sugli sviluppi di un accordo che costa qualcosa a tutti gli Stati dell’Eurozona, ma serve a prevenire eventuali crisi di sistema.

Scoperto a mentire, Matteo Salvini ha cambiato la sua versione, affermando di essersi sempre espresso contro. Ora, delle due l’una: o non sapeva (versione 1) oppure (versione 2) si è espresso contro su qualcosa che a quel punto non poteva non sapere, per la serie delle supercazzole tipo la casa di Scajola comprata a sua insaputa. Certo, buttarla ogni giorno in caciara, alimentando incertezze che già abbondano per conto loro (vedi la vicenda Ilva) sconcerta il Paese, allontana gli elettori dal Governo e li avvicina alla Lega, ma a un prezzo che paga – questo sì sul serio – tutto il Paese.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/21/il-prezzo-delle-bugie-di-salvini-lo-paga-tutto-il-paese/?fbclid=IwAR0UiC0rh1XPXlUGbt4KOZYlGcGKVHrBCVXDeGSrGOnE_QBZ8oixKYaum88

Ponte Morandi, “dal 2014 Autostrade e Atlantia avevano in mano un report che avvertiva del ‘rischio crollo'”. Per 4 anni nessun intervento.

Ponte Morandi, “dal 2014 Autostrade e Atlantia avevano in mano un report che avvertiva del ‘rischio crollo'”. Per 4 anni nessun intervento

I pm di Genova Massimo Terrile e Walter Cotugno, racconta Repubblica, hanno in mano il documento trovato dai finanzieri nella sede di Atlantia a Roma e anche in quella di Aspi. L'Ufficio Rischio per due anni parla di "rischio crollo", poi la dicitura nel 2017 diventa "rischio perdita stabilità". I primi lavori programmati solo per l'autunno 2018.

Autostrade per l’Italia e Atlantia, la capogruppo della famiglia Benetton, sapevano che il Ponte Morandi era a “rischio crollo” già dal 2014. I pm di Genova Massimo Terrile e Walter Cotugno, racconta Repubblica, hanno in mano il documento che lo attesta: è stato trovato dai finanzieri nella sede di Atlantia a Roma e anche in quella di Aspi. Un documento stilato dall’Ufficio Rischio che dal 2014 al 2016 parla di “rischio crollo”: dicitura che poi nel 2017 diventa improvvisamente “rischio perdita stabilità“. In ogni caso, soltanto 4 anni più tardi, nel febbraio 2018, viene sottoposto alla valutazione del provveditorato alle Opere pubbliche il progetto di retrofitting finalizzato al consolidamento del ponte. I lavori vengono pianificati per il successivo autunno. È troppo tardi: il 14 agosto 2018 il ponte crolla e a Genova muoiono 43 persone.

La rilevazione di Repubblica smentisce quanto finora i dirigenti di Autostrade hanno dichiarato a magistrati e media. I risultati dei monitoraggi sul ponte Morandi “non avevano segnalato motivi di allarme o di urgenza”, rispondeva Autostrade nell’ottobre 2018, due mesi dopo la strage. Il Fatto Quotidiano ha invece raccontato come Aspi fosse consapevole delle fragilità del viadotto già dal 2011, quando parlava di “rischio inagibilità. Sempre a ottobre 2018, uno dei primi ex dirigenti di Aspi a parlare davanti ai magistrati della procura di Genova fu Mario Bergamo: “Nel 2015 – spiegò – ricevemmo dei dati sullo stato del viadotto che ci fecero avviare il progetto di retrofitting nello stesso anno. Quei dati mi fecero notare un problema importante. Andai via da Autostrade nel 2016, non so perché si bloccò il progetto“.

Il professore Carmelo Gentile, docente del Politecnico di Milano che nel novembre 2017 consegnò il suo studio ad Autostrade segnalando le anomalie sul pilone 9 per le “deformate non conformi”, aveva spiegato già un anno fa al pm Terrile che Spea sapeva, aveva calcolato il livello di efficienza che “era sotto uno” e “con quel dato il ponte andava chiuso”. Più di recente, il Finacial Times ha riportato di un rapporto interno ad Atlantia, commissionato dopo il crollo, secondo cui i problemi di sicurezza del ponte Morandi si erano manifestati nei dieci anni precedenti.

Spea è una società controllata da Autostrade che fino a un mese fa era delegata al monitoraggio e alla sorveglianza della rete autostradale. Ora che dalle inchieste – quella sul Morandi ma anche il filone bis della strage di Avellino – sta emergendo secondo chi indaga un sistematico insabbiamento dei problemi di ponti e viadotti, il gruppo Atlantia ha deciso di togliere il compito di monitoraggio alla sua Spea per affidarsi a un’altra società “di livello internazionale”.

Ora emerge un altro documento che, stando a quanto riporta Repubblica, sarebbe poi stato insabbiato. I pm Terrile e Cotugno ne chiederanno conto ai 73 indagati per omicidio e disastro colposo plurimi. Secondo il quotidiano, il report era stato presentato ai consigli di amministrazione sia di Atlantia che di Autostrade, proprio per programmare interventi e chiedere consulenze esterne. Dal 2014 in poi sarebbero infatti aumentate le polizze assicurative sul Morandi, mentre i primi lavori vennero pianificati solo 4 anni più tardi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/11/20/ponte-morandi-dal-2014-autostrade-e-atlantia-avevano-in-mano-un-report-che-avvertiva-del-rischio-crollo-per-4-anni-nessun-intervento/5571837/?fbclid=IwAR0EQiQ0z11iQMXLGa2adbmuAXH5_-Spy88oCvz1FbZ-PxCX-c1PVkfLwvA

Prescrizione, il muro del Pd per salvare politici e colletti bianchi. La minaccia a Bonafede: cancellare la riforma con FI. - Giuseppe Pipitone

Prescrizione, il muro del Pd per salvare politici e colletti bianchi. La minaccia a Bonafede: cancellare la riforma con FI

Ennesima fumata nera durante l'ultimo vertice sulla giustizia. Dem e renziani hanno rifiutato alcuni accorgimenti proposti dal guardasigilli per velocizzare i processi agli assolti in primo grado. E hanno rilanciato chiedendo la decadenza dell'azione penale se il processo di secondo grado dovesse durare più di un certo periodo. In caso di mancato accordo hanno anche evocato la possibilità di votare la proposta del berlusconiano Costa, che cancella la riforma.
Nessuno vuole chiamarla minaccia, meno ancora accettano la parola ricatto. Tutti, a parole, sperano di trovare un punto d’incontro. Ma il senso di quello che emerge dall’ultimo vertice sulla giustizia sembra essere proprio quello: se Pd e Movimento 5 stelle non si metteranno d’accordo sulla riforma del processo penale, i dem potrebbero pure votare la proposta di Enrico Costa. Cioè il ddl presentato in commissione Giustizia dal parlamentare di Forza Italia, ex ministro del governo di Matteo Renzi, che chiede la cancellazione totale della riforma sulla prescrizione. Una vera e propria mina sul percorso dell’esecutivo. Sarebbero salvi dunque politici e colletti bianchi che grazie alla prescrizione si sono spesso salvati dai processi. L’elenco è sterminato: si va da Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi, da Massimo D’Alema a Carlo De Benedetti, da Paolo Scaroni a Flavio Briatore. Ma si potrebbe continuare per ore ad elencare i potenti prescritti nella storia d’Italia. E infatti più volte l’Europa ci ha chiesto di mettere mano alla questione. L’ultima volta era nel 2017, quando nel rapporto semestrale dedicato ai Paesi dell’Eurozona la Commissione europea scriveva tra le altre cose che “il termine della prescrizione ostacola la lotta contro la corruzione“perché “incentiva tattiche dilatorie da parte degli avvocati” e il risultato è che “un’alta percentuale di cause cade in prescrizione dopo la condanna di primo grado“. E quindi se “la questione non sarà affrontata, la fiducia dei cittadini e degli investitori nello Stato di diritto potrebbe diminuire”. Ora la questione è stata affrontata: una legge che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio esiste ed entrerà in vigore nel 2020, tra 41 giorni esatti.
La minaccia notturna – Il Pd, però, fa muro. E nella notte ha evocato al ministro anche quella possibilità: votare con Silvio Berlusconi. Ma davvero i dem avrebbero intenzione di votare la legge ammazza riforma? Gli effetti sarebbero mortali non solo per la legge, ma anche per la tenuta dell’intero esecutivo. “Diciamo che noi vorremmo trovare un’intesa nella maggioranza. Stiamo lavorando a questo. Ci sono ancora 45 giorni. Se c’è la volontà di lavorare, ce la faremo”, dice all’Adnkronos il dem Michele Bordo, tra i presenti al summit notturno. L’ennesimo convocato per trovare un punto d’incontro che semplicemente ancora non esiste. E d’altra parte era stata proprio la riforma della giustizia a spaccare la precedente maggioranza, visto che uno degli ultimi Consigli dei ministri dell’esecutivo M5s-Lega si era risolto con un nulla di fatto, pochi giorni prima della crisi estiva e alla caduta del governo Conte 1.
Il muro dem – Il tema si è subito riproposto anche con il nuovo esecutivo. Questa volta le posizioni della Lega sono portate avanti in maniera quasi identica dal Pd e – nelle ultime settimane – anche dai renziani di Italia Viva. La richiesta a Bonafede è di prorogarne l’entrata in vigore della legge sulla prescrizione, in attesa di varare una riforma del processo penale. Una bozza di riforma il ministro l’ha già preparata, ma gli alleati fanno muro: vogliono garanzie sulla durata dei processi. Un leit motiv che ha fatto fallire tutti gli ultimi vertici di maggioranza sul tema. Ed è per questo che le rivendicazioni sulla giustizia acquisiscono sempre più un valore politico, a scapito di un ragionamento tecnico. “Dopo che gli abbiamo fatto ingoiare il taglio dei parlamentari adesso dem e renziani vogliono colpire uno dei nostri provvedimenti bandiera”, dicono fonti interne ai 5 stelle. Pd e di Italia Viva rivolgono a Bonafede la stessa accusa che era stata a suo tempo della Lega e che oggi è in Parlamento ha ripetuto Costa di Forza Italia: il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio porterà anche gli assolti in prima istanza ad essere “imputati a vita”. “Lo Stato non si può piu sottrarre al proprio dovere di dare una risposta di giustizia. La riforma non avrà nessun effetto devastante o di apocalisse”, ha ripetuto oggi Bonafede, comparso a Montecitorio pe rispondere al question time proprio di Costa. Secondo il ministro con lo stop alla prescrizione ci saranno “effetti deflattivi” del processo che “contribuiranno a sistema di giustizia più efficiente e rapido”. Sono allo studio, ha spiegato il ministro, “misure idonee a impedire che si verifichino disfunzioni in grado di incidere sulla durata dei procedimenti, con conseguenze per la prima volta disciplinari e con misure al vaglio della maggioranza di carattere indennitario”.
La proposta di Bonafede – Le misure di cui parla Bonafede sono le due proposte fatte ai dem e ai renziani durante il vertice notturno: inserire nella riforma della giustizia penale la possibilità per gli assolti in primo grado di beneficiare di una corsia preferenziale in secondo grado. Una “trattazione urgente” degli appelli per gli assolti, per andare incontro alla richiesta di Pd e Iv che chiedevano vi fosse una distinzione “tra assolto e condannato“. Bonafede ha proposto anche un accesso agevolato agli indennizzi per l’irragionevole durata dei processi previsti dalla legge Pinto. Gli alleati però hanno rifiutato, nonostante Pietro Grasso – sostenitore della riforma del M5s – abbia fatto notare che “per la Costituzione la presunzione di innocenza resta tale fino alla sentenza definitiva. E questo vale tanto per l’innocente quanto per il colpevole: non ci può essere una distinzione in questo senso”.
Una controproposta che si può rifiutare – “Dal guardasigilli sono stati fatti passi avanti sulle garanzie ma ancora non sufficienti, al momento le condizioni per una convergenza non ci sono”, dice il dem Bordo. Durante il vertice notturno, infatti, il Pd hanno fatto una controproposta a Bonafede: inserire nella riforma della giustizia termini perentori entro i quali se non si celebra il processo d’appello l’intero processo si estingue. In pratica a prescriversi non sarebbe il reato ma sarebbe l’azione penale a decadere: non ci sarebbero più prescritti e neanche assolto ma imputati impossibili da processare. Una condizione che i 5 stelle bollano come “irricevibile”. È considerata ancora peggiore la seconda controproposta del Pd: un sistema di sconto di pena per il condannato il cui appello non si è svolto entro un certo periodo di tempo. “È l’unica strada percorribile per evitare la durata irragionevole dei processi, che metterebbe a repentaglio l’articolo 111 della Costituzione”, dice il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli. “Altro che snellimento dei processi: in questo modo chiunque sarebbe incentivato a fare appello”, ragionano tra i 5 stelle. Facendo notare come l’atteggiamento degli alleati sia sempre più “tattico” e meno orientato a risolvere l’impasse in cui è precipitata la questione giustizia. A preoccupare i grillini è anche l’atteggiamento dei renziani: “Il ministro – raccontano – ha chiesto proposte scritte ma da loro è arrivato molto poco”. Il timore è che i renziani possano far saltare il banco una volta che Bonafede sia riuscito a trovare l’accordo con il Pd.
I familiari delle vittime difendono la riforma – Tutto questo in attesa che il premier Giuseppe Conte, fino ad oggi lontano dai tavoli di contrattazione, possa prendere in mano il dossier per provare a mediare. Intanto i familiari delle vittime sono scesi in campo per difendere una “legge che rappresenta un traguardo importante, una garanzia per il giusto riconoscimento delle nostre ragioni”. “Passiamo anni dentro le aule dei Tribunali e sopportiamo processi lunghi e dolorosi. Tutte le associazioni che fanno parte della nostra Rete Nazionale aspettano una giustizia che stenta a emergere, un diritto sacrosanto che il nostro Stato dovrebbe rispettare perché sancito dalla Costituzione. La prescrizione ha colpito duramente i processi di molte nostre associazioni e lo farà con altre nel prossimo futuro, cancellando molti capi di imputazione per cui gli imputati dovrebbero essere giudicati“, scrivono in una nota gli aderenti al coordinamento nazionale ‘Noi non dimentichiamo‘, che raggruppa tutte le associazioni di familiari di vittime delle stragi. Quindi l’annuncio: “Seguiremo con attenzione il dibattito parlamentare dei prossimi giorni, riservandoci di essere presenti davanti alle sedi opportune, nel caso in cui questo importante risultato venga distorto o perda di credibilità”. La rete nazionale è presieduta da Gloria Puccetti, che ha perso un figlio nella strage di Viareggio, la tragedia che in appello ha visto cancellato dal tempo il reato di incendio colposo, con relative pene riviste al ribasso per gli imputati.

Orrore nel centro di Palermo, si suicida lanciandosi dal balcone ex capo dei Gip, era indagato nell’inchiesta sulle talpe di Zamparini.



L’ex capo dell’ufficio del Gip di Palermo Cesare Vincenti si è suicidato lanciandosi dal balcone della sua abitazione, nella zona residenziale di via Sciuti.
Vincenti e il figlio Andrea, avvocato, erano indagati dal giugno scorso dalla Procura di Caltanissetta per corruzione e rivelazione di notizie riservate nell’ambito dell’indagine sulla presunta fuga di notizie relativa all’ex patron del Palermo Maurizio Zamparini che avrebbe appreso preventivamente della pendenza di una richiesta di custodia cautelare nei suoi confronti.

L’inchiesta sui Vincenti è una costola dell’indagine sull’ex patron del Palermo calcio Maurizio Zamparini e in particolare sulle talpe che avrebbero permesso al presidente rosa di prevenire alcune mosse degli investigatori.
Nell’ambito di questa indagine il 13 giugno scorso gli ufficiali del nucleo di polizia economico finanziaria si sono presentati davanti alla residenza di Cesare Vincenti, capo dei gip di Palermo notificandogli l’avviso come indagato nella vicenda per rivelazione di notizie riservate, corruzione e abuso d’ufficio.
Nel registro degli indagati compare anche il nome del figlio, l’avvocato Andrea Vincenti. Ma c’è anche il nome di un altro magistrato, è quello di Alida Marinuzzi del tribunale civile. Alla giudice viene contestato il reato di abuso d’ufficio. Secondo la Procura di Caltanissetta Marinuzzi avrebbe firmato un provvedimento su una vendita all’asta di un immobile pignorato che interessava al figlio di Vincenti.

Vincenti figlio, in quelle ore, si lasciò andare ad alcune dichiarazioni anche sulla vendita delle casa all’asta resa possibile, secondo le accuse mosse, grazie al presunto tentativo da parte del padre di fare pressione sul giudice Marinuzzi per agevolare la vendita. “Niente di illegittimo – aveva chiarito Vincenti -. Mia madre aveva individuato una casa in via Notarbartolo per mia sorella che doveva sposarsi. Ma su quella casa c’era un pignoramento in corso. Ci siamo allora fatti carico del necessario, c’era però bisogno della firma del giudice per chiudere la procedura esecutiva”.
La tragedia si è consumata in via Mario Rapisardi ed ha lasciato sotto shock residenti e passanti.
Secondo le testimonianze raccolte nell’immediatezza dei fatti il giudice soffriva di crisi depressive ma questo aspetto dovrà essere chiarito come tanti altri.
Cesare Vincenti era andato in pensione il 19 giugno scorso, così come previsto da tempo. Circa due settimane fa, come è prassi negli uffici giudiziari, Vincenti aveva organizzato una festa di commiato per il suo pensionamento al Palazzo di Giustizia.
Alla cerimonia aveva partecipato però solo il personale amministrativo del suo ufficio; l’unico magistrato presente aveva spiegato che i colleghi non avevano potuto prendere parte perché già impegnati.

https://www.blogsicilia.it/palermo/orrore-nel-centro-di-palermo-si-toglie-la-vita-ex-capo-dei-gip/506609/#j338uRoZxFCt7yjh.99