mercoledì 3 giugno 2020

Nel nome di Cassese: i tentacoli nello Stato. - Carlo Tecce

Nel nome di Cassese: i tentacoli nello Stato

L’Emerito - Dalla cattedra di Diritto amministrativo e dal suo Istituto Irpa, ha costruito un sistema di legami e “allievi”: dai cda alla Consulta, fino ai ministeri e a Chigi.
Assiso davanti ai suoi allievi provenienti dalle università di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Catania e Siena per la presentazione della sua rivista giuridica, lo scorso anno, Sabino Cassese sentenziò: “La Pubblica amministrazione è il tramite fra la società e lo Stato”. Il tramite, spesso, sono Cassese e i suoi allievi, radicati ovunque, negli atenei, nei ministeri, nelle autorità di controllo, nelle aziende statali. E poi chiosò: “Oggi la Pubblica amministrazione è in una morsa”. Succede quando Cassese e i suoi allievi, cura e corpo dello Stato, luminari di diritto amministrativo, fustigatori della burocrazia, si sentono spodestati o non valorizzati dalla politica incapace di perseguire il meglio. Succede adesso. Cassese e i suoi allievi sono una corporazione, ben istruita, che si ritrova nelle strutture di governo e si riunisce all’Istituto per le ricerche sulla Pubblica amministrazione e nei seminari con le locandine enciclopediche in cui si saggiano futuri ministri e capi di gabinetto.
Curriculum in sella tra Lottomatica e Generali.
Il curriculum di Cassese scritto da Cassese è lungo due pagine, circa 7.500 caratteri. Non è la versione più aggiornata, neanche la più estesa. Si tratta di una volgare epitome. Più volte compare la parola emerito. Si intende docente emerito di diritto amministrativo e si riferisce alla cattedra all’Università Sapienza e al magistero perpetuo negli atenei italiani e stranieri. Ha studiato per mezzo secolo la Pubblica amministrazione, durante gli studi ne ha creato un tipo a sua immagine. Non a somiglianza perché nessuno davvero gli somiglia.
Fratello maggiore di Antonio, che fu giudice internazionale e accademico, Sabino nacque nel ’35 in Irpinia da Leopoldo, stimato archivista e storico. Nell’autunno del 2004, quasi a settant’anni, finiti i mandati nei consigli di amministrazioni di Lottomatica, Autostrade per l’Italia e Assicurazioni Generali e non ancora elevato alla Corte costituzionale, Cassese ha fondato l’Istituto per la ricerca sulla pubblica amministrazione, in breve Irpa, e l’ha dedicato a Cassese e ai suoi allievi. Irpa ha sede nel palazzo di Generali di piazza Venezia a Roma, di fronte al fatidico balcone. Non è proprio una sede, ma un indirizzo ufficiale, poiché viene ospitata dagli affittuari di Civita, l’associazione culturale presieduta da Gianni Letta. Il primo insegnamento che Cassese ha impartito ai suoi allievi è che l’alfabeto comincia dalla lettera c. L’esclusivo elenco soci di Irpa parte da Cassese Sabino e riprende da Agus Diego. In Irpa si entra per cooptazione, a oggi i posti sono 104, si paga un obolo di un paio di centinaia di euro, si va in ritiro a Sutri, provincia di Viterbo, con lo scoccare della raccolta delle castagne. Irpa raduna un gruppo ristretto di professionisti, di nobile lignaggio o di prestigiose carriere, interi blocchi di facoltà di giurisprudenza, docenti ordinari a trent’anni, associati a dottorati appena conclusi, ragazzi svezzati a vent’anni nei ministeri, avvocati dalle parcelle dorate. Tutti uniti da un legame con Cassese o da una venerazione per Cassese, un mentore che ha costruito attorno a sé una classe dirigente, in prosa, un gruppo di potere e di lobby, che negli anni ha proliferato compatto nelle università Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, Luiss di Confindustria e negli apparati di governo di ogni colore politico. Gli allievi di Cassese di Irpa si assembrano spesso. Da uno, a caso, si diramano gli altri. Più che un gioco di ruolo, è un gioco di Stato. Stefano Battini collabora col professor Cassese dal ’91, è ordinario di Diritto amministrativo all’Università della Tuscia. Nel 2017 il governo Gentiloni l’ha nominato al vertice di Sna, la Scuola nazionale dell’amministrazione. Per una docenza in Sna (40.000 euro), Battini ha reclutato Lorenzo Casini, eclettico e brillante giurista, classe ’76, già presidente per un anno di Irpa e da settembre capo di gabinetto di Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali, nonché prof di Diritto amministrativo alla Imt alti studi di Lucca.
il labirinto discepoli vista Quirinale
Battini e Casini, in quest’ordine, si palesano fra i prof del master interuniversitario – Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, Luiss più Sna – di secondo livello in diritto amministrativo chiamato Mida. Battini, Casini e poi Davide Colaccino, iscritto di Irpa e soprattutto direttore affari istituzionali di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). I soci di Irpa e i prof. di Mida sono sovrapponibili: pleonastico. Non solo Colaccino. Cdp in Irpa è ben rappresentata, o viceversa. Alessandro Tonetti, già vicecapo di gabinetto al Tesoro col ministro Padoan, è al vertice dell’ufficio legale di Cassa dal 31 marzo 2016. Un anno dopo Cassese è stato scomodato da Cdp per una consulenza legale in “merito alla posizione di Cassa e al suo Statuto” per 39.000 euro. Nel 2018 Susanna Screpanti è stata collocata agli “affari normativi e ai progetti speciali presso la direzione legale” di Cdp. Socia di Irpa, Screpanti è dottore di ricerca in diritto amministrativo a Roma Tre nel feudo del prof. Giulio Napolitano, figlio di Giorgio. Napolitano è stato presidente di Irpa prima di Casini e dopo l’avvocato Luisa Torchia. Nel 2018 Giulio ha ottenuto due incarichi legali da Cdp per un totale di 28.000 euro. Irpa in Consob, la commissione nazionale che vigila sul mercato borsistico, un tempo si fregiava del segretario generale Giulia Bertezzolo, decaduta il 29 marzo 2019 dopo le dimissioni del presidente Massimo Nava. In compenso, sempre nel 2019, il 20 febbraio, Napolitano è stato accolto in Consob nel comitato degli operatori e gli investitori. In Irpa il dibattito sulle concessioni autostradali sarà molto partecipato e si presume univoco. Cassese si è battuto sin da subito, dopo la tragedia del ponte Morandi, contro la revoca totale della concessione per Autostrade della famiglia Benetton. L’ha definita “sproporzionata”. Alcuni maliziosi hanno rievocato la sua esperienza nel cda di Autostrade. Di sicuro Cassese sarà in sintonia con l’amica giurista Torchia (Roma Tre), avvocato di Autostrade e in passato consigliere di Atlantia, la cassaforte dei Benetton. Sull’altro fronte, o almeno in una posizione di neutralità, in Irap c’è Lorenzo Saltari, che Danilo Toninelli, allora ministro dei Trasporti, indicò tra i membri della commissione tecnica per esaminare l’ipotesi di revoca della concessione. E in Irpa c’è anche Massimo Macrì, responsabile dei rapporti legali di Autostrade con il ministero dei Trasporti. A differenza di Macrì, Torchia e Saltari, Alberto Stancanelli, capo di gabinetto del ministro Paola De Micheli, successore di Toninelli, non è un socio di Irpa, ma a pieno titolo va considerato un allievo di Cassese. Ha trascorso vent’anni al suo fianco alla Sapienza. L’avvocato Torchia è stato il presidente più longevo di Irpa, sei anni, uno in più di Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di Sergio, ordinario di dDiritto amministrativo a Siena. Mattarella è stato per un biennio capo del legislativo del ministero della Pubblica amministrazione con Marianna Madia. Quel periodo, che ha coinciso col renzismo, è stato l’ultimo di massimo splendore per il proselitismo di Cassese. Come se fosse tornato alla Funzione pubblica dopo l’anno da ministro nel governo Ciampi. Mattarella al legislativo, Pia Marconi alla guida del dipartimento, Elisa D’Alterio all’unità per la semplificazione: una colonna di Irpa al dicastero. Il governo giallorosa può vantare un altro socio di Irpa, però molto trasversale: Luigi Fiorentino, capo di gabinetto al ministero dell’Istruzione (mentre Saltari è al legislativo). Alla Presidenza del Consiglio ci sono i dirigenti Carlo Notarmuzi Chiara Lacava. Cassese e i suoi adepti vanno oltre Irpa. Tra gli allievi va annoverato Giacinto Della Cananea (Tor Vergata), che fu estensore del programma di governo dei 5 Stelle. L’esecutivo renziano ha rottamato l’Isfol con l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche (Inapp). Cassese apprezzò. Stefano Sacchi, il presidente, ne fu orgoglioso. Cassese fu presto coinvolto con un parere legale (25.000 euro) e con la presidenza del comitato editoriale della rivista (15.800) di Inapp. La modesta pecunia non c’entra. Le cose in Italia accadono con rigore scientifico. Se le fanno accadere Cassese e i suoi allievi.

Riciclaggio ed estorsione, nove arresti a Roma: c'è anche l'ex senatore De Gregorio. Il gip: «Caratura criminale eccezionale»

Riciclaggio ed estorsione, nove arresti a Roma: c'è anche l'ex senatore De Gregorio

È in corso un'operazione condotta dalla Squadra Mobile e coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, nei confronti di alcune società create per riciclare denaro e commettere estorsioni contro locali del centro della capitale. C'è anche l'ex senatore Sergio De Gregorio tra gli arrestati.

Agenti della Prima Sezione Criminalità Organizzata stanno eseguendo nove provvedimenti cautelari, emessi dal gip, a carico di altrettante persone ritenute responsabili, a vario titolo e in concorso, dei reati di estorsione, riciclaggio ed autoriciclaggio. Eseguito anche un decreto di sequestro preventivo delle quote sociali, dei conti correnti e del complesso aziendale che fanno parte del patrimonio aziendale di alcune società e un sequestro di circa 480 mila euro.
Appresa la notizia, il presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Campania Ottavio Lucarelli ha disposto la sospensione ad horas del giornalista professionista Sergio De Gregorio. 
«Ha una caratura criminale e scaltrezza davvero eccezionale». Così il gip di Roma descrive l'ex senatore arrestato.


https://www.ilmessaggero.it/politica/senatore_de_gregorio_arrestato_chi_e_roma_riciclaggio_estorsioni_ultime_notizie_news-5265789.html

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https://www.ilmessaggero.it/primopiano/politica/berlusconi_de_gregorio_corte_conti_indaga_compravendita_senatori-3603736.html

Lotti contro il pm “nemico”. “Pronta l’interrogazione”. - Antonio Massari

Lotti contro il pm “nemico”. “Pronta l’interrogazione”

Palamara-gate. Manovre sul Parlamento dell’ex ministro per evitare la nomina a Roma di Creazzo, procuratore di Firenze che aveva arrestato i genitori di Renzi.
Tra il 15 e il 27 maggio 2019 c’è più di un incontro tra Luca Lotti e Luca Palamara. Si discute della futura nomina di Marcello Viola alla Procura di Roma. E si discute anche del concorrente di Viola, Giuseppe Creazzo, che da procuratore capo di Firenze ambisce alla guida della Procura romana. C’è però qualche dettaglio da tenere a mente. Il primo: Creazzo, appena tre mesi prima, ha chiesto – e ottenuto – gli arresti domiciliari (che saranno poi revocati) per i genitori di Matteo Renzi, Tiziano e Laura Bovoli, con l’accusa di bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Il secondo: su Creazzo c’è un esposto presentato alla Procura di Genova da un pm del suo stesso ufficio (per il quale non è indagato, ndr).
Parlando del Risiko delle nomine negli uffici giudiziari, delle caselle di Torino, Roma e Reggio Calabria, Lotti dice: “…per me è un pizzico legata alla difesa di ufficio che devono fare loro due di una situazione fiorentina che, ve lo dico con franchezza, è imbarazzante….”. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina commenta: “…te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile”. Poiché Lotti, a Firenze, non era coinvolto in nessuna inchiesta, par di capire che Creazzo andava “tolto dai coglioni” per altri motivi e l’inchiesta sui genitori di Renzi potrebbe essere un riferimento logico. Anche Lotti potrebbe riferirsi alla stessa vicenda quando definisce “imbarazzante” la “situazione fiorentina”.
Il parlamentare Pd (autosospeso dal partito, ndr) preferisce non commentare, ma fonti a lui vicine spiegano che il riferimento non era all’inchiesta sui genitori di Renzi, bensì all’esposto pendente alla Procura di Genova. Come dire: per gli esponenti della corrente Unicost (un paio, ndr) che intendevano sostenere la candidatura di Creazzo alla Procura di Roma, la sua “difesa d’ufficio” rispetto all’esposto sarebbe stata complicata.
Un fatto è certo: Lotti è contrario all’approdo di Creazzo a Roma. E così una settimana dopo, quando il plenum ha già sancito la vittoria di Viola su Creazzo con 4 voti a 1, pensa che si potrebbe tornare sul suo esposto a Genova, favorire un’interrogazione parlamentare sull’argomento e affossarlo definitivamente. Non è esattamente il ruolo che un parlamentare della Repubblica dovrebbe svolgere. Ma Lotti, da quando è diventato l’artefice della nomina di David Ermini al Csm – con l’asse tra Unicost e Magistratura Indipendente, creato insieme a Luca Palamara e Cosimo Ferri – nella partita delle nomine, e di Roma in particolare, c’è entrato con tutte le scarpe. Ed ecco la conversazione del 27 maggio 2019.
“…un passaggio a Genova me lo puoi fare te personalmente (…)?” chiede Lotti, “perché io l’ho pronta l’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia…”. “Ma la fai proprio te”, risponde Palamara. “No”, risponde Lotti “ci vuole cinque stelle a Bonafede (…) per chiedere se viste le cose uscite sui giornali …”. “E come mai”, continua Palamara, che non capisce il ruolo del M5S, “perché si stanno scollando”. “Perché c’è un pezzo che si sta scollando”, conferma Lotti. “E te lo recuperi”, continua Palamara. “No, ma tanto non mi serve a nulla, me lo gioco su altre cose. Però, capito, già il fatto che ci sia un’interrogazione parlamentare sul (al, ndr) ministro della Giustizia, che chiede se (…) corrisponde al vero le notizie di giornale uscite su una donna fiorentina, però va deciso se farla o no”.
In alternativa si potrebbe realizzare un’interrogazione parlamentare sull’esposto che il pm Stefano Fava ha presentato al Csm sull’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone: “Piuttosto – continua Lotti – gli faccio una roba sulla prima commissione e quindi fa uscire la roba anche su Ielo (Paolo, procuratore aggiunto di Roma, ndr) e Pignatone”. Lotti non dovrebbe interferire sulle nomine né influenzarle attraverso le interrogazioni parlamentari. Ielo peraltro è il procuratore aggiunto che ha chiesto il suo rinvio a giudizio per favoreggiamento e rivelazione del segreto nell’inchiesta Consip. Fonti vicine a Lotti spiegano che, secondo il parlamentare Pd, il M5S, che al Csm, con i suoi componenti laici, aveva già scelto Viola, avrebbe potuto trovare utile presentare un’interrogazione parlamentare (mai presentata) sul concorrente Creazzo.

Conte, un piano Marshall per scacciare i fantasmi. - Luca De Carolis

Conte, un piano Marshall per scacciare i fantasmi

Oggi il premier parla della ricostruzione.
Innanzitutto chiederà responsabilità e cautela, a tutti. Perché oggi le Regioni riapriranno i confini, e potrebbe bastare poco per ridare forza e artigli al coronavirus, fiaccato da settimane di chiusura e dai provvedimenti che l’avvocato diventato premier rivendica come sacrifici indispensabili. Ma oggi pomeriggio, nel suo ennesimo discorso alla nazione, sotto forma di conferenza stampa, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, proverà soprattutto a declinare il futuro: del Paese e di fatto del suo governo.
Sarà il mercoledì del suo piano Marshall, parafrasando il Sergio Mattarella che due giorni fa aveva ricordato l’immediato dopoguerra, l’Italia del 1946, invocando “un nuovo inizio” per una nazione ferita. E la chiave di Conte sarà il Recovery Plan, il piano di rilancio che aveva già illustrato in una lettera al Fatto pochi giorni fa.
Sette punti, dalla riduzione della burocrazia “con una rivoluzione culturale nella Pubblica amministrazione” al rilancio degli investimenti pubblici e privati, per arrivare agli “incentivi alla digitalizzazione, ai pagamenti elettronici e all’innovazione” e alla “transizione verso un’economia sostenibile”. Fino a processi più veloci e a una riforma del Fisco, annunciata anche dal M5S tramite una dimaiana di ferro come il viceministro all’Economia, Laura Castelli.
Tante voci e promesse per ripartire, usando come leva i miliardi che dovranno arrivare con il Recovery Fund dell’Unione europea: la benzina indispensabile ”per impostare l’ avvenire da qui a dieci anni” come dicono da Palazzo Chigi. Perché vuole mostrare di pensare in grande, il premier. Svoltata la boa dei primi due anni a Palazzo Chigi, sa che deve puntare su se stesso e su un’agenda “forte” per sottrarsi ai venti contrari, fuori e dentro la sua maggioranza. Avverte e vede movimenti traversali, il presidente che non vuole avere casacche, ma che da terzo è anche più solo, più esposto. Per questo, raccontano, ha apprezzato l’intervista di ieri di Romano Prodi a Repubblica, in cui l’ex premier lo ha difeso. “Questo governo non può cadere, non esiste alternativa”, ha sostenuto il fondatore dell’Ulivo. Duro nei confronti del presidente di Confindustria Carlo Bonomi (“Dicendo che la politica rischia di fare più danni del Covid ha pronunciato un’affermazione distruttiva”): favorevole all’entrata dello Stato in alcune aziende “indispensabili per il nostro futuro”, così da “difenderle da mire straniere”, proprio come intende fare Conte. Ma per tutelarsi l’avvocato deve mettere in campo soluzioni concrete, garantire che ha una rotta che va oltre il crinale del Covid. E da qui si torna al suo piano, che guarnirà insistendo sulla necessità di uno spirito da unità nazionale. “Ma senza appelli particolari alle opposizioni o ai partiti in generale” spiegano fonti qualificate. Conte ha evitato di commentare la manifestazione di ieri del centrodestra a Roma.
Ma da Palazzo Chigi filtra la convinzione che il corteo “sia andato in direzione opposta a quanto auspicato dal presidente della Repubblica” appena poche ore prima. E il filo che Conte e i suoi vogliono tirare è sempre quello che porta al Quirinale, il punto di riferimento del presidente del Consiglio, l’unica certezza a cui non ha mai rinunciato in due anni in cui ha cambiato maggioranza, parola d’ordine e piani. Per non cadere.

Manifestare è un diritto. - Massimo Erbetti



Si manifestare è un diritto, lo dice l'articolo 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure".

Per cui bene hanno fatto ieri a scendere in piazza tutti quelli che ritengono di avere qualcosa da dire.
Hanno fatto bene anche perché ci hanno dato la possibilità di vedere la loro inadeguatezza ad affrontare i problemi e a dare soluzioni adeguate. Fino a 24 ore prima la Meloni assicurava che non ci sarebbero stati assembramenti, che si sarebbero mantenute le distanze di sicurezza e che tutti avrebbero indossato le Mascherine, ma come abbiamo visto così non è stato, sono state violate le più basilari norme per evitare il contagio. 
Vogliamo poi parlare degli slogan contro il Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio? Mattarella vaffa... Conte vaffa... e non contenti di ciò, c'è stato perfino chi gridava "la mafia ha ucciso il fratello sbagliato"...complimenti, veramente complimenti...una vergogna assoluta, inneggiare all'assassinio di un uomo è quanto di più abominevole si possa fare...e per giunta un assassinio di mafia.

Al momento, non mi sembra che i leader della protesta, abbiano preso le distanze da certe dichiarazioni, nessuna parola di condanna e questo fa di loro dei complici.
Per cui è un bene che ieri queste persone siano scese in piazza, perché per l'ennesima volta hanno dato dimostrazione del fatto che predicano bene, ma razzolano veramente male. Non bastava la malagestione della sanita lombarda nell'affrontare la pandemia, non bastava non aver votato contro il Recovery Fund in Europa, non bastavano le fake news messe in circolazione, no a loro non bastava tutto questo, avevano la necessità di farci vedere ancora una volta che non sono in grado di gestire nulla, nemmeno una manifestazione con poche persone...e pensare che questa gente vorrebbe governare un paese intero.
P. S. e se non fosse per il fatto che ieri è stata messa a rischio la salute degli italiani, ci sarebbe anche da ridere...ma purtroppo non c'è niente da ridere...

Il Coniglio superiore. - Marco Travaglio

Consiglio superiore della magistratura: rimossi due giudici di ...
Si pensava e sperava che leggendo le intercettazioni, penalmente irrilevanti ma moralmente rilevantissime, dell’inchiesta Palamara i nostri partiti avessero capito non solo che, ma anche come vanno riformati il Consiglio superiore della magistratura e l’Ordinamento giudiziario. Purtroppo non è così e infatti non solo il centrodestra, ma anche il Pd si oppongono a una delle proposte di maggior buonsenso avanzate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: quella che, per rompere il circuito perverso delle porte girevoli fra politica e magistratura, impedisce ai magistrati che entrano in politica di tornare in toga con funzioni penali (sia inquirenti sia giudicanti???), ma vieta anche a chi ricopre cariche elettive (parlamentare, ministro, amministratore locale) di diventare subito dopo membro laico del Csm. Cioè dell’organo costituzionale che è il supremo garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e dunque dev’essere esso stesso autonomo e indipendente da ogni altro potere. Anzitutto quello politico. Noi siamo per abolire i membri laici, cioè eletti dal Parlamento, affinché il Csm sia davvero un organo di autogoverno e non di eterogoverno dei magistrati, ma sappiamo bene che ciò richiederebbe una riforma costituzionale e che non esiste purtroppo una maggioranza (per giunta dei due terzi) disposta ad approvarla. Ma evitare che un ministro, un sottosegretario o un parlamentare vada direttamente a giudicare disciplinarmente i magistrati e a deciderne le carriere è proprio il minimo sindacale (poi, certo, va anche restituita la titolarità dell’azione penale ai singoli pm e non più soltanto ai procuratori capi, vanno aboliti i limiti di 8 anni per gli incarichi direttivi e semidirettivi delle Procure e va istituito un sistema misto, col sorteggio preliminare, per l’elezione dei membri togati del Csm).
E invece il Pd, per bocca del suo ineffabile sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, fa sapere che è cosa buona e giusta che un parlamentare cambi cappello e vada al Csm. Addirittura come vicepresidente, cioè come capo effettivo dell’insigne consesso, visto che raramente il presidente di diritto – il capo dello Stato – partecipa alle sedute. Del resto lo dobbiamo al Pd se i vicepresidenti degli ultimi due Csm, Giovanni Legnini di quello passato e David Ermini di quello in carica, erano fino al giorno prima parlamentari (Legnini addirittura sottosegretario all’Economia del governo Renzi). Alla faccia dell’autonomia e dell’indipendenza. Purtroppo i padri costituenti non avevano previsto le degenerazioni della partitocrazia. Dunque non avevano immaginato che il Csm si sarebbe trasformato in una casa di riposo per politici trombati o un plotone di esecuzione della peggiore politica contro la migliore magistratura. Ma ciò che sognavano, quando introdussero nel Csm la quota dei laici (pur minoritaria rispetto ai togati), era chiaro e lampante: e cioè che il Parlamento designasse figure di alto prestigio, professionalità e indipendenza nel mondo del diritto. Infatti prescrissero di sceglierli “tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Non tra parlamentari o sottosegretari in carica. Ci volle la spudoratezza prima di B., poi della Lega, poi del centrosinistra e infine dell’Innominabile per mandarci gli avvocati di stretta fiducia dei leader che, per comodità, se li erano già portati in Parlamento e al governo. Infatti, quando la politica era una cosa seria, anche i partiti più malfamati della Prima Repubblica mandarono a vicepresiedere il Csm giuristi cristallini come Vittorio Bachelet, Giovanni Conso, Vittorio Bachelet e Cesare Mirabelli, insieme a ex politici molto autorevoli e defilati come Alfredo Amatucci, Giacinto Bosco, Giancarlo De Carolis e Giovanni Galloni (con l’eccezione di Ugo Zilletti, beccato nelle liste della P2). Poi, con l’arrivo di B., lo sbraco: nel Csm entrarono i pasdaran antigiudici forzisti Viviani, Buccico, Casellati, Anedda, Di Federico, Spangher e Leone, uno degli avvocati di B. (Saponara), l’avvocato di Bossi (Brigandì, poi decaduto perché indagato e incompatibile, mentre raccoglieva dossier sulla Boccassini), l’avvocato di Etruria e di papà Boschi (Fanfani), due avvocati dalemiani (Di Cagno e Calvi), per finire in bellezza con i vicepresidenti Mancino (napolitanista), Vietti (piercasinista) ed Ermini (turborenziano e lottiano, poi convertito sulla via di Perugia).
Una galleria degli orrori che s’è aggiunta ai traffici di corrente dei membri togati, giocando di sponda con loro e col Quirinale (specie ai tempi di Re Giorgio) in conto terzi (i partiti di provenienza) per punire i magistrati migliori e promuovere i peggiori ben prima che il trojan nel cellulare di Palamara squarciasse il velo dell’ipocrisia. I casi De Magistris, Apicella, Nuzzi, Verasani, Woodcock, Iannuzzi, Robledo, Forleo, Di Matteo, Ingroia, Lo Forte, Scarpinato e tanti altri sono ancora lì, impuniti e graveolenti, a imperitura memoria (per chi ne possiede una). E ora che finalmente il re è nudo, tocca pure sentire qualcuno che non vuole cambiare le cose. O vuole fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla. La verità è che i vecchi partiti non rimproverano a Palamara di aver fatto ciò che facevano tutti da 25 anni. Ma di essersi fatto beccare.

Il politico Toti e la dissimulazione. - Antonio Padellaro

Toti fra due sedie: le mosse sbagliate, Liguria allo sbando, e ...
Mettiamo che nel corso della campagna elettorale del prossimo autunno, quella per essere rieletto alla presidenza della Regione Liguria, Giovanni Toti se ne esca pubblicamente con queste parole: “Cari elettori, sappiate che non mi comporterò mai come un ipocrita a proposito di ciò che io intendo debba essere la politica. Infatti per fare le rivoluzioni bisogna saper fare compromessi, e per fare il bene talvolta saper coltivare anche il male. È la politica. Sennò è testimonianza, uno fa il prete o il volontario!”.
Tendiamo a escludere che Toti possa pronunciare mai questa frase in un comizio o in tv. Eppure il concetto sul rapporto tra rivoluzioni e i compromessi, e sul male che genera il bene gli appartiene tutto. È contenuto negli sms che Elisa Serafini ha trascritto nel libro Fuori dal Comune, dopo che si è dimessa nel luglio 2018 da assessore alla Cultura e al marketing del Comune di Genova in seguito alle pressioni ricevute per finanziare una mostra raccomandata dal centrodestra. Del caso (di cui si è scritto sul FQ di sabato scorso e attualmente oggetto di un’indagine della Procura di Genova) a noi interessano un aspetto e un interrogativo. Se cioè la politica possa convivere con la verità (e viceversa); e se l’uso della finzione, e dunque dell’ipocrisia e della dissimulazione, sia uno strumento irrinunciabile nella comunicazione di potere.
È nelle cose che la politica sia l’arte dei buoni compromessi (sulla rivoluzione ci andrei più cauto). Tutt’altro discorso, ovviamente, chiedere a un assessore di compromettersi a prezzo di una “marchetta per la Lega” (Serafini). Sarei cauto inoltre sul concetto di “saper coltivare il male per fare il bene”: poiché non è un caso frequentissimo e comunque succede soprattutto al cinema. Altra cosa, tuttavia è innaffiare e concimare “marchette” aspettandosi di raccogliere rose profumate. Se (per pura ipotesi) Toti volesse trarsi d’impaccio per quegli sms imbarazzanti potrebbe ricorrere al solito Machiavelli del fine giustifica i mezzi. Ci sta ma perché non dichiararlo apertamente invece di continuare a prendere per il naso la gente straparlando di un mondo che non c’è?
Lo spunto, ovviamente, è il caso denunciato da Elisa Serafini ma il problema riguarda la credibilità complessiva di chi fa politica che, come sappiamo, è vicina allo zero e certo non da oggi (il solito Voltaire: “La politica è il mezzo con cui uomini senza principi dirigono uomini senza memoria”). Un crollo accentuato dalla perdita di senso delle parole. E dalla concatenazione di complicità con cui si cerca di tappare la bocca a chi non vuole più stare al gioco. Racconta Serafini che il sindaco di Genova, Marco Bucci gli disse “che era consapevole che l’erogazione del fondo non fosse legittima, che era una porcata”; e “che se non facciamo questa cosa saltiamo tutti, Elisa”. E se una la porcata proprio non vuole farla si può fare leva sul sentimento di gratitudine tradita: “Ti sembra etico morale e coscienzioso fare quel gesto senza una telefonata dopo che ti abbiamo imposto in giunta?”, scrive Toti in un affranto messaggino. Delusione che può essere anche comprensibile per chi ragiona secondo lo spirito di uno di quei potenti clan che fanno e disfano carriere (ok ma per favore non si parli più di valori della politica o balle simili).
Quanto ai “preti” e ai “volontari”, astenersi perditempo. Ieri, La Verità ha pubblicato una lunga intervista al presidente della Liguria. Titolo: “Stiamo attenti alle spinte neo centraliste”. Zeppa sicuramente di elevati principi, ma ho capito che non parlava di Elisa Serafini.