mercoledì 1 luglio 2020

Salvini special guest dei casini. Come tutti gli attori il Capitano prevede tutto e sa già come andrà a finire. - Giuseppe Vatinno

MATTEO SALVINI

Matteo Salvini è un vecchio guitto della politica che recita a soggetto seguendo un paio di canovacci logori e stantii. Come tutti gli attori prevede tutto e sa già come andrà a finire. Recita anche nella passionalità – che lui non possiede – ma ha imparato ad utilizzare sapientemente. Uno dei suoi canoni preferiti e collaudati è il seguente: c’è casino nel luogo X, io ci vado, ma prima mi cautelo che vengano a contestarmi e poi mi prendo un po’ di improperi e me ne vado piagnucolando contro la cattiveria del mondo. E così è stato a Mondragone, vicino Caserta, là dove il Sud – e la sua disperazione – si sente pieno e forte, nell’odore dei pomodori raccolti dai braccianti a caporalato.
E recita: “Era in programma un incontro con mamme e agricoltori e inquilini di un quartiere di Mondragone, ma i soliti delinquenti criminali teppisti dei centri sociali hanno sfasciato tutto”. Dite la verità, quante volte l’avete sentito? Avete notato che va solo in luoghi dove è sicuro che lo contestino i “centri sociali”, come li chiama lui che se ne intende avendo frequentato il Leoncavallo a Milano, quando faceva il leaderino orecchinato di una fantomatica corrente della Lega, i “Comunisti padani” che al verde delle Alpi univano riflessi rosso Lenin. Il fatto è che Salvini non solo recita per la ditta, ma fa anche danni perché Mondragone è una polveriera razziale, viste le ataviche tensioni tra i lavoratori bulgari che abitano negli ex palazzi Cirio e i residenti.
E in questa Santa Barbara mancava solo il virus che ha colpito gli stranieri per far detonare una tragica guerra tra poveri. Salvini però se ne frega, l’importante è solo il suo interesse elettorale. E adesso, dove servirebbe calma e mediazione, per uscirne, lui invece getta benzina sul fuoco perché questo è il suo mestiere. Così sbaracca contento, lasciando i disperati al caldo feroce dell’estate e alla malattia, mentre lui se ne torna sulle Alpi, al fresco, a progettare il prossimo blitz acchiappa-consensi. D’altra parte il segretario leghista è contento così, magari con una bella Nutella al salame a chiudere la giornata. Ma senatore, mi raccomando, non se la metta la mascherina che ‘sto virus è tutto una cospirazione della Cia che vuole “schiavi e non uomini”.

Nastro Lindo. - Marco Travaglio

berlusconi doveva essere condannato a priori'' - gli audio-bomba ...

Per misurare il peso (nullo) delle “nuove prove” che dovrebbero cancellare la condanna di Silvio B. a 4 anni per frode fiscale, basta la credibilità (nulla) delle fonti: il suo impiegato Nicola Porro sulla sua Rete4, il suo Giornale e il Riformista vicediretto dalla sua ex portavoce Debora Bergamini. Ma anche la statura dei politici che le han prese sul serio: FI, Salvini, FdI e l’Innominabile. Tutto in famiglia. Casomai ciò non bastasse, ci sono i fatti: una recente sentenza del Tribunale civile di Milano e l’audio di una conversazione del 2013, poco dopo la condanna irrevocabile, fra il giudice relatore Amedeo Franco e il neocondannato B. davanti a misteriosi testimoni. Ora, anche uno studente al primo giorno di Giurisprudenza sa che: a) una sentenza civile di primo grado non può smentirne una penale di Cassazione e in ogni caso (vedi pag. 8) questa riguarda profili diversi dalla frode fiscale Mediaset; b) i processi si celebrano nelle aule di giustizia, non a casa dell’imputato col registratore più o meno nascosto.
Ma la scena del giudice che firma con gli altri quattro colleghi la condanna di B. e poi corre da lui per dire che non voleva, non era d’accordo, è tutta colpa del presidente e degli altri tre cattivoni la dice lunga sulla sua serietà, correttezza e attendibilità. Tantopiù che nei tre mesi successivi il relatore Franco partecipò alla stesura delle 208 pagine di motivazione, che alla fine – caso raro – tutti e 5 i giudici (lui compreso) firmarono in calce e addirittura siglarono pagina per pagina (207 volte a testa). Il che dimostra che anche lui era d’accordo sulla condanna o, se dissentiva, a non innescare polemiche politiche. Altrimenti avrebbe potuto legittimamente non firmare (di solito le sentenze le firma solo il presidente). E, se davvero fosse stato convinto che si stava consumando “una grave ingiustizia” da “plotone di esecuzione”, con una condanna “a priori” e “guidata dall’alto”, frutto di “pregiudizio” per “colpire gli avversari politici”, una “porcheria” del presidente Antonio Esposito “pressato” per i guai giudiziari del figlio, cioè una serie di reati gravissimi, come poi disse a B. nella conversazione registrata, si sarebbe cautelato con uno strumento previsto dalla legge per i giudici in minoranza nei collegi giudicanti: motivare il suo dissenso in una busta chiusa allegata alla sentenza a futura memoria (come fece il presidente della Corte d’appello di Milano Enrico Tranfa, messo in minoranza dai due giudici a latere nella sentenza che assolse B. su Ruby). Invece Franco non solo non formalizzò alcun dissenso, ma espresse pieno consenso con la sua firma e 207 sigle. Noi ovviamente non sappiamo come si era comportato prima, in camera di consiglio.
Infatti nessuno dovrebbe saperlo, tantomeno l’imputato. Chi viola il segreto della camera di consiglio commette reato e illecito disciplinare. Il che spiega perché B. abbia atteso 7 anni e la morte di Franco nel 2018 per divulgare il nastro: per risparmiargli un processo per rivelazione di segreto d’ufficio e omessa denuncia (il giudice non aveva mai segnalato ai pm i gravissimi reati spiattellati a B.), la cacciata dalla magistratura e una raffica di querele e cause per diffamazione dagli altri quattro colleghi (casomai non bastasse l’indagine per corruzione giudiziaria aperta su di lui nel 2017 per presunti scambi di favori col senatore forzista e re delle cliniche Antonio Angelucci). In ogni caso nulla di ciò che dice Franco può ribaltare la condanna di B. né interessare la Corte di Strasburgo (che, con buona pace del Giornale e di Sansonetti, ha archiviato il caso nel 2018 perché B. ritirò il ricorso in extremis). B. è stato condannato perché ritenuto colpevole, in base a una valanga di prove documentali e testimoniali, di una gigantesca frode fiscale da 368 milioni di dollari sui diritti tv di Mediaset: e non solo da Esposito e i suoi tre colleghi (o quattro, a prender sul serio le firme di Franco), ma anche dagli altri 9 magistrati che si sono occupati del caso: i pm De Pasquale e Robledo; il gup che lo rinviò a giudizio; i tre giudici di Tribunale e i tre di Appello che lo condannarono in primo e secondo grado. Giunto in Cassazione nell’estate 2013, il processo finì alla sezione Feriale (presieduta da Esposito e composta anche da Franco) perché la III sezione che l’aveva in carico scoprì che si sarebbe prescritto per metà il 1° agosto e in base alle sue regole la Corte doveva celebrarlo subito senz’attendere la ripresa ordinaria a settembre (la sentenza arrivò il 31 luglio). E sapete chi presiedeva la III sezione che lo girò alla Feriale come “urgente”? Amedeo Franco. Il quale poi andò a contar balle a B., tipo che “han fatto una porcheria perché che senso ha mandarlo alla sezione feriale?”. Ecco: non era una porcheria, era la regola; e la decisione fu della sua sezione.
Quindi il nastro è il classico due di coppe quando a briscola comanda bastoni. E un clamoroso autogol. Perché dimostra vieppiù il coraggio del presidente Esposito e degli altri tre (o quattro), che condannarono il colpevole B. resistendo a indicibili pressioni politiche (che spingevano per l’assoluzione, al grido di “Salviamo il governo Letta-Napolitano!”). Ricorda ai tanti smemorati chi è davvero B.: un delinquente seriale che i giudici o li paga o li induce a delinquere. E riporta il dibattito sulla riforma della giustizia nei giusti binari: in Italia le uniche carriere da separare sono quelle degli imputati eccellenti da quelle dei giudici collusi.

B. e la bufala che vuole riscrivere la storia. - Gianni Barbacetto

B. e la bufala che vuole riscrivere la storia

Immaginatevi un giudice che andasse a casa di un suo imputato potente (non dico Totò Riina, anche un condannato, per dire, di frode fiscale) e, per ingraziarselo, gli dicesse: “Io non ero d’accordo, sa, con la sentenza, ma il presidente della Corte ha tanto insistito, è stato un verdetto guidato dall’alto…”. Sarebbe inaccettabile anche per i garantisti alle vongole: un giudice non deve andare a casa di un suo condannato, non deve parlare delle sue sentenze, se non era d’accordo doveva opporsi fieramente durante la camera di consiglio, se avesse constatato una manovra illegale avrebbe dovuto denunciarla immediatamente. Ma siamo in Italia. Così succede che un giudice, Amedeo Franco, vada da Silvio Berlusconi e gli dica – registrato di nascosto – che lui non era d’accordo sulla sua condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale emessa dalla Cassazione nel 2013. Un talk-show a corto d’argomenti in un’estate post Covid (Quarta Repubblica di Nicola Porro) tira fuori questa vecchia vicenda per tentare l’impossibile: ribaltare la storia. Silvio Berlusconi fu processato e condannato per aver organizzato un sistema per frodare il fisco italiano e creare fondi neri per le sue “operazioni riservate” (tipo pagare tangenti e comprarsi giudici e sentenze).
Così un film, comprato negli Stati Uniti a 10, passava attraverso intermediari e prestanome, e arrivava in Italia nelle tv di Berlusconi a 100: tasse abbattute e 90 messi da parte all’estero. Con questo sistema – provano i giudici, carte alla mano – “le maggiorazioni di costo realizzate negli anni” sono state di ben “368 milioni di dollari”, nascosti al fisco e infrattati all’estero. Prove solide, testimonianze, ma soprattutto documenti bancari. Condanna in primo grado, condanna in appello, conferma in Cassazione. Dodici giudici si sono pronunciati in modo univoco. Le motivazioni delle sentenze sono di fuoco. Ma ai garantisti alle vongole – specie se sono stipendiati dal condannato o da altri pregiudicati – non basta. Si dicono contro i “processi mediatici”, ma poi celebrano in tv (e su giornali senza lettori, tipo il Riformista) per anni lo stesso processo, per difendere il padrone, ripetendo gli stessi argomenti già puntualmente smentiti da testimoni, prove, documenti, sentenze, buon senso, ragionevolezza.
“Adesso ci sono le prove che la sentenza che condannò Silvio Berlusconi al carcere, nel 2013, era una sentenza assolutamente sbagliata e faziosa. Addirittura orchestrata dall’alto”, scrive il Giornale di famiglia. Che aggiunge una perla giuridica: c’è “una sentenza del Tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale”. Non è vero, la sentenza civile non “ribalta” un bel niente, e anche un bambino capisce che un reato penale è altro da un addebito civile e che le pere sono altro dalle angurie. Da dove viene, dunque, questo scoop stagionato come una forma di gorgonzola lasciato al caldo? Dagli “audio choc” mandati in onda lunedì sera da Quarta Repubblica in cui parla Amedeo Franco, deceduto un anno fa, giudice del collegio della Cassazione presieduto da Antonio Esposito. Dice: “Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… l’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero. Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo”. In una seconda conversazione registrata da Berlusconi, Amedeo Franco aggiunge, riferendosi al presidente Esposito: “Sussiste una malafede del presidente del consiglio, sicuramente, lui sa che è una porcheria”. Poi butta lì che Esposito era “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era “stato beccato con droga a casa di…”. Ferdinando Esposito, allora pm presso la Procura di Milano, non ha avuto alcuna denuncia per droga, è stato indagato dalla Procura di Brescia per tutt’altro (e poi ha lasciato la magistratura), ma per una vicenda iniziata un anno dopo la sentenza del padre, che non aveva dunque alcun motivo di temere le (inesistenti) “pressioni” della Procura di Milano.
Se “pressioni” – o comunque soavi sollecitazioni – ci furono, furono nella direzione opposta: per far assolvere Berlusconi. Cosimo Ferri, leader storico di Magistratura indipendente e allora sottosegretario alla Giustizia nel governo Letta, sostenuto anche da Berlusconi con la benedizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, avvicinò il giudice Esposito e a luglio lo invitò a Pontremoli, al premio Bancarella. Esposito, per motivi d’opportunità, a due settimane dalla sentenza, ringraziò e declinò l’invito. Poi l’intercettazione di Amedeo Franco è tutto un inconcludente balbettare: “I pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare… si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare… Questo mi ha deluso profondamente, questo… perché ho trascorso tutta la mia vita in questo ambiente e mi ha fatto… schifo, le dico la verità, perché non… non… non è questo, perché io… allora facevo il concorso universitario, vincevo il concorso e continuavo a fare il professore. Non mi mettevo a fare il magistrato se questo è il modo di fare, per… colpire le persone, gli avversari politici”. Se avessi saputo di questa “porcheria mi sarei dimesso, mi sarei dato malato. Non volevo essere coinvolto in questa cosa… È destino che Berlusconi debba essere condannato a priori. Purtroppo c’è una situazione che è veramente vergognosa… è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia… Tutti i miei colleghi e anche i suoi che pure non la supportano sono convinti che questa cosa sia stata guidata dal- l’alto”. Contestazioni precise, argomenti solidi, come ognuno può vedere.

Storie dell'altro mondo. - Massimo Erbetti

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Una storia dell'altro mondo...due ragazzi camminano di sera, mano nella mano, sono innamorati, non potrebbe essere diversamente. Vanno per i fatti loro, in una sera d'estate, non danno alcun fastidio, si parlano, i soliti discorsi che fanno i ragazzi della loro età. 
Una scena che abbiamo visto distrattamente centinaia, migliaia di volte. Ma questa volta non è passata inosservata agli occhi di un gruppo di coetanei, fra loro c'è anche una ragazza. Ad un certo punto il "branco" perché di branco si tratta, non certo di un gruppo, si avvicina ai due innamorati e comincia a picchiare selvaggiamente uno dei due ragazzi, pugni e calci, nessuna pietà. Sono così violenti, da rompergli addirittura una mascella, secondo alcune fonti locali, si apprende che al giovane dovrà essere letteralmente ricostruita con placche metalliche.

Una bruttissima storia dal sapore medievale, che arriva addirittura in consiglio comunale, dove alcuni consiglieri decidono di presentare una mozione che impegna l'amministrazione a costituirsi parte civile per esprimere vicinanza e solidarietà al giovane. Ma lì accade una cosa ancor più triste, la mozione viene bocciata, undici voti contrari e dieci a favore. Il ragazzo viene praticamente abbandonato a sé stesso.

Una storia veramente dell'altro mondo, una storia che non dovrebbe in un paese "civile" come il nostro, purtroppo invece è accaduta e la politica si è girata dall'altra parte.

Ah...dimenticavo di dirvi che i due ragazzi che andavano mano nella mano erano gay, che i consiglieri che hanno bocciato la mozione sono di Lega, FdI e FI e la città in cui sono accaduti i fatti è Pescara.
E questo sarebbe un paese civile? Ci sono volte in cui mi vergogno di essere italiano e di appartenere a quel genere umano, che di umano non ha proprio niente...e questa è una di quelle.

martedì 30 giugno 2020

Premier forti e governi deboli ai tempi del Coronavirus. - Antonio Padellaro

Conte: «Basta classi pollaio». Azzolina: lezioni anche in cinema ...
Com’è possibile tenere insieme la popolarità di Giuseppe Conte (il 60% costante in tutti i sondaggi) con le fragilità del rapporto tra Pd e 5Stelle? E come può sopravvivere un governo alla cui stabilità si affidano pur sempre sei italiani su dieci (Ilvo Diamanti, Demos &Pi) con il progressivo sfaldamento del gruppo M5S che al Senato rischia di mettere in crisi maggioranza ed esecutivo?
Certo, di premier forti e di governi deboli la politica italiana (ma non solo) ne ha conosciuti parecchi. Uno per tutti, Romano Prodi disarcionato due volte, nel 1998 e nel 2008, da manovre di palazzo, con il conseguente doppio tracollo del centrosinistra, e doppio trionfo di Silvio Berlusconi. Rispetto al passato esiste però una sostanziale differenza: l’Italia messa in ginocchio dallo tsunami coronavirus. Una catastrofe senza precedenti che dovrebbe fare seriamente riflettere: tale è la gigantesca responsabilità che pesa sulle spalle della politica, ma soprattutto dei singoli comportamenti. Imperdonabili se mossi da semplici, e a maggior ragione sciagurate, convenienze personali.
Per carità, alla larga dai cosiddetti uomini della Provvidenza (soprattutto se autoproclamati) ma per i profeti del Conte bollito e praticamente fritto (da quando, si può dire, il nostro fece udire i primi vagiti in quel di Volturara Appula) un governo vale l’altro, e dunque gli italiani se ne facciano una ragione. Infatti cosa può esserci di più opportuno, mentre la trattativa con l’Europa per i 172 miliardi del Recovery Fund (di cui 81 a fondo perduto) entra nella fase decisiva, di una bella crisi al buio, magari ferragostana? Per rinsaldare nei nostri alleati l’idea di un’Italietta inaffidabile, incasinata, perennemente alla deriva?
Siamo convinti che nella quotidiana consultazione dei divani (vuoti) di Montecitorio, gli aruspici della imminente caduta di Conte abbiano già nei loro taccuini le soluzioni belle che pronte. Finalmente avremo quel governissimo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, del resto da mesi fremente sulla soglia del casale umbro in attesa della convocazione al Quirinale. O se no, ancora meglio l’immediato ritorno alle urne auspicato da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, elezioni precedute neanche a dirlo da una serena campagna elettorale al profumo di Covid-19. Nel tripudio delle masse avide di duelli televisivi mentre il Pil sprofonda e forse anche la democrazia.
Non conosciamo infine i nomi dei grillini che a sentire Salvini sarebbero in procinto di passare alla Lega, con le conseguenze che sappiamo. Speriamo di non conoscerli mai. Per non ripetere la famosa frase di Churchill: mai così tanti dovettero così tanto a così pochi. Solo che lui parlava di eroi. Non di traditori.

Scanzi su Salvini.

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Va in una zona rossa (a fare un comizio...). Parla con uno che abita lì, quindi a forte rischio contagio. Ci parla lungamente, ovviamente senza mascherina. Poi gli stringe pure la mano. Quindi, come nulla fosse, torna alla sua vita di sempre. Se fosse capitato a me, a noi, come minimo ci avrebbero fatto dei controlli. Ci avrebbero detto di stare in quarantena. Macché: lui può tutto. Roba da matti.

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Dalle ciliegie al Ponte Salvini (oramai) ne fa più di Bertoldo. - Andrea Scanzi

Salvini in treno senza mascherina e seduto su un sedile non utilizzabile.
Non è vero che Salvini sia in stato confusionale. Tutt’altro. Se dalla crisi del Papeete in poi pareva aver iniziato una china comicamente discendente, confermata peraltro dai sondaggi a picco, nelle ultime settimane è tornato il Cazzaro Verde che dà orgogliosamente del tu a Churchill.
Già durante la fase più cupa del lockdown, Salvini aveva dato prova di commovente saggezza. Per esempio con la proposta delle chiese aperte per Pasqua, un ottimo modo per far arditamente conciliare la celebrazione della Resurrezione con l’aumento dei trapassi. Ma è negli ultimi giorni che l’uomo che sussurrava ai citofoni è salito garrulamente in cattedra.
Dapprima è andato da Floris e, candido come un bambino, ha dimostrato di non avere ancora capito nulla dell’utilizzo della mascherina, che per lui è un orpello fastidioso da togliere anzitutto quando ci si trova vicini a una signora: evidentemente Salvini, e con lui il suo popolo, preferiscono infettare con educazione piuttosto che salvare le vite mascherati. Teoria affascinante. Poi si è scofanato otto chili di ciliegie mentre Zaia parlava di bambini morti. Non solo: di fronte alla figuraccia planetaria, non solo non ha chiesto scusa ma – ospite di SkyTg24 – ha negato l’evidenza di fronte alla giornalista attonita: “Ma scusi, le sembra possibile che io cominci a mangiare le ciliegie mentre parlano di bambini morti?” (no, non parrebbe possibile, ma purtroppo è esattamente quel che è accaduto).
Dal 2 giugno in poi, con encomiabile senso civico, ha organizzato assembramenti a manetta, stretto mani senza lavarsele e abbracciato tutti in nome del Sacro Selfie: esattamente ciò che non andrebbe mai fatto in tempo di pandemia. È stato contestato in ogni piazza, reagendo a tali manifestazioni col garbo di sempre (ovvero zimbellando Azzolina, Bellanova e più genericamente “i comunisti, i radical chic e i centri sociali”).
Sabotato dalla Meloni, che gli sta saccheggiando l’elettorato senza neanche dare il meglio di sé (anzi), nel corso del suo tour in Puglia è riuscito a non citare mai il candidato meloniano (da lui mal sopportato) Fitto. Metà partito appoggia già Zaia, conscio del fatto che se il Cazzaro Verde continua così la Lega tornerà a percentuali da Tabacci greve, ma lui continua a fare chissà perché il ganassa. Emulo di Pappalardo (Antonio), nel treno verso Andria si è fatto fotografare senza mascherina (obbligatoria) e in uno dei posti dove è vietato sedersi (daje!). Continua a straparlare di “no al plexiglas(s) nelle scuole”, quando il plexiglas(s) è stato (ovviamente) eliminato dalle linee guida del governo. Pur di raccattare consensi e like, è arrivato persino a fare un post sui gemelli ammazzati dal papà nel Lecchese. Vive in televisione, spesso riverito neanche fosse uno statista, ma ciò nonostante ha il coraggio di gridare (come la Meloni) al “regime di Conte”. Durante un’assai sobria sfilata sul ponte di Genova, vestito come un playboy daltonico e ben poco atletico, ha scambiato i pannelli fotovoltaici per dei mitologici “pannelli di metano”. Si potrebbe andare avanti in eterno, perché ormai Salvini ne fa più di Bertoldo, ma non basterebbe il giornale intero. Lasciamolo quindi continuare così, implacabile come un fagiano lesso e rutilante come una Duna smarmittata in salita: chi siamo noi per negare a un cazzaro verde di emulare, in tutto e per tutto, il tragicomico nonché subitaneo tramonto del cazzaro rosé? Daje Matte’!