Politico navigato e figura di cerniera tra diversi ambienti del potere, Roberto Maroni torna a tesserarsi al partito di Salvini, da cui si era ritirato, perché sulla Lombardia leghista si addensano nuvoloni minacciosi; e da qualche parte bisogna pur ripararsi. A sentir lui, la prossima sfida politica in cui varrebbe la pena d’impegnarsi sarebbe quella per riportare la magistratura nei suoi ambiti. Le numerose inchieste per malversazioni in cui sono coinvolti esponenti del sottogoverno leghista, nasconderebbero un disegno persecutorio contro il partito che Maroni lasciò nel gennaio 2018, “sulla base di valutazioni personali”.
Disse proprio così, rinunciando a sorpresa a ricandidarsi presidente della Regione Lombardia tre mesi prima delle elezioni. Salvo aggiungere: “Metto a disposizione la mia esperienza di governo, se sarà necessaria”. All’epoca molti scommettevano sulla prossima nascita di un governissimo fondato sull’alleanza fra Berlusconi e Renzi. Maroni si distanziava dall’estremismo di Salvini, convinto che sarebbe andato a sbattere, mentre lui, il leghista moderato, poteva venir buono finanche a Palazzo Chigi. Come è noto, le cose andarono diversamente. Si consolò facendo il consulente aziendale e il consigliere d’amministrazione. Sembrava che potesse disinteressarsi anche dell’imponente distrazione di milioni del finanziamento pubblico occultati quando, per il solo 2012, era stato lui il segretario della Lega.
Con il senno di poi, la sua mai davvero chiarita rinuncia a un secondo mandato in Lombardia comincia a trovare spiegazioni meno vaghe. Maroni è uomo troppo esperto per non aver colto in tempo gli esiti nefasti del ricambio di classe dirigente da lui stesso propiziato nel dopo Formigoni. Un insieme famelico di nuovi venuti, attratti dal Pirellone come bancomat, che non hanno mai dato vita a un sistema di potere coeso al pari di quello ciellino. Fin dal suo nascere l’intelaiatura territoriale della Lega assegnava un ruolo importante ai commercialisti, spesso portavoce del malcontento dovuto alla pressione fiscale, oltre che praticanti dell’elusione. Ma adesso un’altra generazione di commercialisti poteva introdursi dritta nel sottogoverno, operando al tempo stesso per sé e per i politici che li proteggevano. In sua vece, con il beneplacito di Salvini che doveva saziare la componente varesina della Lega, Maroni promosse Attilio Fontana, rivelatosi debole e maldestro. Il sistema reggeva bene; anzi, la Lega sembrava destinata a completare il suo disegno di partito pigliatutto in Lombardia. Solo che l’estate scorsa Salvini si è dato la zappa sui piedi e, come se non bastasse, nel 2020 è esplosa la pandemia del Covid.
Nel disastro della sanità lombarda, anche Roberto Maroni suo malgrado è tornato a far parlare di sé. Un attacco frontale gli è pervenuto, lo scorso maggio, dal detenuto agli arresti domiciliari Roberto Formigoni. Che ha accusato Maroni di essere stato lui, pochi mesi dopo la sua elezione nel 2013, a smantellare la medicina di territorio. Maroni, stranamente, non gli ha replicato. E anzi il successore Fontana s’è affrettato ad annunciare provvedimenti correttivi, con ciò riconoscendo la validità delle critiche. Per poi riportare un ciellino alla direzione generale della sanità lombarda.
Nel frattempo illegalità e incompetenze di gestione stavano emergendo da tutte le parti. Il responsabile della centrale acquisti della regione ha chiesto di essere spostato ad altro incarico dopo la rivelazione del contratto stipulato per l’acquisto di camici con l’azienda del cognato di Fontana. La gestione della raccolta fondi per l’inutile reparto di terapia intensiva al Portello è finita nel mirino della magistratura. Per non parlare della riapertura frettolosa del pronto soccorso di Alzano Lombardo in piena epidemia. Della circolare che autorizzava a trasferire i pazienti Covid nelle residenze per anziani. E dell’indagine per peculato relativa all’accordo tra Diasorin e ospedale San Matteo di Pavia sui test sierologici, dove tanto per cambiare emerge la regia di esponenti leghisti. Nessuno negli anni scorsi ha avuto da ridire se il commissario politico della Lega di Varese, Andrea Gambini, era contemporaneamente al vertice, come presidente, dell’istituto neurologico Besta di Milano (e di altri enti preposti alla ricerca biotecnologica). L’occupazione del potere avanzava infischiandosene dello spessore dei curriculum. Come già al Pio Albergo Trivulzio, il più grande polo geriatrico italiano, la cui direzione generale è stata affidata a un laureato in Filosofia.
Maroni ora minaccia di querelare chi lo tira in mezzo allo scandalo del capannone della Lombardia Film Commission. Torna militante della Lega e si mette in posizione di arrocco. Ha capito che qui rischia di venire giù tutto. La Lega nazionalista di Salvini ha saccheggiato la sua roccaforte lombarda e ora ne paga le conseguenze.