sabato 29 agosto 2020

L’altra truffa a Zingaretti. I camici mai consegnati. - Vincenzo Bisbiglia

L’altra truffa a Zingaretti. I camici mai consegnati
Dopo il caso delle mascherine pagate 11 milioni (3 rientrati) e mai consegnate, alla Regione Lazio c’è quello dei camici e delle tute protettive. Mai arrivati, se non in minima parte e peraltro già sequest0rata dalla Guardia di Finanza. La Regione guidata da Nicola Zingaretti ha revocato l’ordine alla società Internazionale Biolife che quattro mesi fa si impegnò a consegnare “con estrema urgenza per fronteggiare l’emergenza” 850mila camici e 1 milione di tute. Alla fine ne sono arrivati meno di 150 mila, con la Regione ora pronta a chiedere indietro l’anticipo già versato, ossia 2,8 milioni di euro, più altri 1,4 milioni di penale. Guai però a chiamarlo buco (questa volta) perché con la stessa società “l’agenzia di Protezione Civile del Lazio non ha saldato una fornitura di mascherine, autorizzate e conformi, provenienti della stessa società” e quindi pari patta: una valutazione che non trova d’accordo le opposizioni.
Ma procediamo con ordine. In piena pandemia, l’ente assegna commesse per oltre 100 milioni di euro in via diretta a società minuscole, appena costituite o senza alcun know-how nel settore: le conseguenze sono ritardi e mancata consegna del materiale. È il 30 marzo quando la Regione decide di affidare alla Internazionale Biolife, con sede a Taranto e che vende prodotti omeopatici compresi quelli per il benessere sessuale, il corposo ordine da “fornire entro l’8 aprile, presso l’aeroporto di Fiumicino”. Il giorno dopo viene pagato l’acconto, 20% del totale, ma la prima consegna di camici avviene il 3 giugno. A metà del mese arrivano in tutto circa 150mila camici su un totale di 1 milione. E si arriva così al 26 agosto quando la Finanza notifica il sequestro “emesso dalla procura di Taranto nell’ambito di un procedimento penale che vede indagati i responsabili della Internazionale Biolife”. Per la società i ritardi sono dovuti alle procedure di sdoganamento presso le dogane turche e al porto di Bari, a cui si aggiunge la necessità di “rietichettatura delle confezioni” dei camici. La Regione però a questo punto decide per la revoca: “La condotta contrattuale della Biolife è chiaramente caratterizzata da inaffidabilità e inattendibilità dei tempi di esecuzione. Ha omesso di curare con la dovuta diligenza ed il necessario tempismo l’adempimento della propria obbligazione”.
Una versione che fa quasi sorridere l’amministratore delegato, Luciano Giorgetti: “Ai primi di agosto abbiamo chiuso un’altra commessa con gli stessi soggetti che pubblicamente ci accusano di essere inaffidabili, mi sembra un bel paradosso. Sul mio procedimento abbia fatto ricorso al Riesame. Inoltre abbiamo denunciato i fornitori: se non verremmo pagati chiederò il sequestro dei conti correnti”. Una storia che si preannuncia ricca di ulteriori colpi di scena, senza dimenticare il caso iniziale, anticipato dal fattoquotidiano.it, della EcoTech, un’azienda che vende lampadine a Led, ma che ha avuto una commessa da 35 milioni di euro per le mascherine, mai arrivate. “Purtroppo avevamo ragione, la Ecotech non era un caso isolato, sono stati confermati tutti i nostri dubbi anche sulle forniture della Internazionale Biolife. Sorprendente che il Direttore della protezione civile sia ancora al suo posto” incalza Roberta Angelilli di Fratelli d’Italia. Ecotech aveva corrisposto una parte dell’anticipo alla società svizzera Exor, che a sua volta, aveva chiesto l’approvvigionamento sempre alla Biolife, che poi dalla Regione riceverà la commessa dei camici.
Non sembra l’unico problema del Lazio, alle prese con i ritardi nei tamponi per chi rientra dalle vacanze: le Asl fanno attendere per giorni, romani e turisti in coda anche per 4 ore ad alcuni “drive in” per i test e il sindaco di Civitavecchia, snodo centrale degli arrivi dalla Sardegna e non solo, fatica a gestire il traffico e gli assembramenti.

venerdì 28 agosto 2020

Salvini, l’Azzolina e gli avvoltoi politici. - Tommaso Merlo

Salvini accetta il faccia a faccia con Azzolina: "Il 3 settembre non vedo  l'ora di confrontarmi" - Orizzonte Scuola

Le scuole riaprono pochi giorni prima delle elezioni. Un bel disastro farebbe comodo alle opposizioni e Salvini non sta più nella pelle. Pare abbia addirittura in tasca una mozione di sfiducia per la ministra Azzolina dopo settimane che la punta. Tutti stanno lavorando sodo per la riapertura delle scuole, nessuno sa ancora come andrà a finire, ma Salvini liquida già tutto come un disastro e chiede la testa della ministra. Stranezze della politica nostrana. Gli avvoltoi normalmente attendono la carcassa, quelli della politica invece si alzano in volo prima. Così, quando conviene a loro. Buon senso vorrebbe infatti che Salvini e tutto il cucuzzaro delle opposizioni attendessero la riapertura. Se poi le cose andranno male, allora avranno tutto il diritto di criticare. Farlo preventivamente fa venire il sospetto che a Lorsignori della scuola non importi un bel nulla. In compenso non vedono l’ora di tirar giù Conte e riacciuffare il potere. Bassezze della politica nostrana. A Salvini serve avere adesso delle grane da sfruttare in campagna elettorale e se non ne ha a disposizione, allora se le inventa. Come con la finta invasione magrebina o con le scuole ridotte a lager di plexiglass. È anche da quanto le spara grosse che si comprende la crisi politica di Salvini. L’uso spregiudicato di fake news così lontane dalla realtà. I maldestri tentativi di creare caos per poi lagnarsene nella meschina speranza possa rendergli qualche punto percentuale. La riapertura delle scuole è una sfida molto complessa. Altri paesi europei stanno faticando. Per riuscirci servirebbe la collaborazione di tutti. Servirebbe fare squadra. Attaccare un ministro preventivamente e alzare polveroni a vanvera nel pieno dello sforzo, è da irresponsabili soprattutto se leader politici che dovrebbero al contrario dare il buon esempio. E lo è soprattutto in tempi di pandemia dove serve un senso di responsabilità corale e non protagonismi e sterili divisioni. Ma Salvini e tutto il cucuzzaro han svolazzato come avvoltoi politici per tutta l’emergenza coronavirus. Ad ogni ostacolo si sono alzati in volo sperando che le cose si mettessero male e potessero così sfogare i loro appetiti sulla carcassa governativa. Ed invece hanno ottenuto l’effetto opposto. Sull’Italia piovono complimenti perfino dall’estero per una volta e Conte vola nei sondaggi mentre Salvini precipita. Eppure insiste. Peculiarità dell’egopolitica nostrana. Politici che sprofondano piuttosto che ammettere i propri errori e cambiare. Politici che hanno sempre ragione qualunque cosa accada attorno a loro. Politici che mettono prima se stessi e credono il loro lavoro consista nella conquista del potere ad ogni costo e non nel rendersi utili al proprio paese. Se Salvini e tutto il cucuzzaro avessero davvero a cuore la riapertura delle scuole sarebbero entrati nel merito delle questioni senza far bieca propaganda e senza dar fastidio a chi sta lavorando. E avrebbero atteso i fatti riservandosi il legittimo diritto di criticare. Ma le scuole riaprono pochi giorni prima delle elezioni. Un bel disastro gli farebbe comodo e così gli avvoltoi politici si sono alzati in volo sperando sia la volta buona.

https://repubblicaeuropea.com/2020/08/28/salvini-lazzolina-e-gli-avvoltoi-politici/

Referendum, tanto rumore (quasi) per nulla. - Paolo Flores d'Arcais.



Il 20 e 21 settembre si svolge il referendum che deciderà se confermare o bocciare la riforma costituzionale con cui il numero dei parlamentari viene ridotto da 915 a 600 (da 630 a 400 per la Camera, da 315 a 200 per il Senato).

Non si tratta di una grande riforma, è piuttosto una riformetta, tuttavia non fa danni, e gli alti lai di oltre duecento costituzionalisti suonano parecchio sopra le righe, per usare un eufemismo. Che riducendo il numero dei parlamentari venga leso il ruolo della istituzione Parlamento non sta né in cielo né in terra: è vero semmai il contrario. Per essere davvero autorevole un parlamento dovrebbe essere composto di pochi membri, riconoscibili e controllabili dai cittadini, non da qualche decina (forse meno) di rappresentanti che decidono, più una pletora di peones, che schiacciano il bottone a seconda del pollice del capogruppo. Oltretutto la prevalenza numerica dei peones è stata nelle recenti legislature messa a repentaglio dai transumanti, vergogna cui ci si è assuefatti, ma che rende ogni discorso numerico sulla dignità del parlamento una cornucopia di ipocrisia o cecità.

Ma peones e transumanti lavorano moltissimo nelle commissioni, si obietta. Soprattutto per infilare codicilli clientelari, localistici o trappole per manovre dilatorie, non certo per rafforzare l’autonomia del potere legislativo, sarebbe doveroso replicare. Chi lamenta che diminuendo il numero di onorevoli e senatori si impoverisce la rappresentanza dei territori, le specificità locali, dimentica che ogni eletto dovrebbe rappresentare la nazione, non il particulare che trova legittimazione elettorale quando si vota per regioni e comuni (è a livello locale che mafie e clientelismi vanificano il voto libero).

Insomma, cambierà pochissimo, ci saranno alcune decine di peones in meno, tutto qui (i transumanti continueranno nei loro “quattro cantoni”, visti i criteri al sempre peggio con cui li selezionano i partiti). Questo pochissimo, comunque, va nella direzione giusta. Per cui, tutto sommato, è ragionevole che chi andrà a votare voti sì. Si voterà in ripresa di coronavirus, però, e credo non ci sia nulla di censurabile nel comportamento di quanti, di fronte alla inciviltà delle turbe di menefreghisti della mascherina e del distanziamento (“me ne frego”, motto fascistissimo) e all’accidia di Viminale e altre autorità rispetto alle violazioni, decideranno di non andare a votare. Quorum ego. Perché tra il rischio contagio, e il voto su una riformetta che poco o nulla cambia venga confermata o bocciata, si può ben far prevalere il primo motivo.

In realtà il contenuto della riforma interessa pochissimo a quasi tutti coloro che si agitano pro o contro. I partiti, in primo luogo, che hanno votato diversamente al Senato (dove il quorum dei due terzi non è stato raggiunto) e alla Camera (dove si è sfiorata l’unanimità). Il M5S, il più coerente, lo ha fatto non per riformare davvero, ma per piantare una bandierina a buon mercato presso l’opinione pubblica, cianciando di risparmi, quando di fronte a qualche milione in meno di stipendi parlamentari, nulla fanno per amputare i cento miliardi di evasione annua.

Spiace dover ricordare i termini reali, modestissimi, della disputa, visto che MicroMega è nata anche con la volontà di serie modifiche costituzionali. Nel suo secondo numero, esattamente trentaquattro anni e tre mesi fa, chiedevamo, come insieme organico (fuori del quale le singole misure proposte potevano divenire anche deleterie): trasparenza e antilottizzazione (“possibilità per chiunque, singolarmente considerato, di accedere al controllo, di promuovere il giudizio in vista di sanzioni, di ottenere risarcimento se il dettato della legge che impone e realizza il vantaggio pubblico venga disatteso”). “Una sola Camera, formata di pochi deputati (un centinaio) … un collegio unico nazionale [che] scoraggerebbe il deputato dalla presentazione di leggine a sfondo localistico”. “Trasformare il contributo pubblico ai partiti, sostituendo la forma monetaria con l’erogazione gratuita di servizi … alle liste elettorali e ai singoli candidati, invece che ai partiti in quanto tali”.

Quanto all’esigenza della governabilità, per eleggere i propri rappresentanti ma anche la coalizione di governo, “una elezione in due turni. Nel primo si eleggono cinquanta deputati, in modo rigorosamente proporzionale. Nel secondo ogni coalizione presenta, oltre alla lista dei candidati, la lista del governo, e alla coalizione che ottiene la maggioranza relativa qualificata (40%) vengono attribuiti i tre quarti dei rimanenti cinquanta seggi”. Un sistema di incompatibilità, “tra cariche elettive (o in Municipio o a Strasburgo, insomma), tra cariche elettive e funzioni ministeriali (tranne che per il premier), tra cariche elettive e cariche di nomina politica (nelle banche, nelle industrie di Stato, nelle Usl ecc.) … da estendere nel tempo, di modo che non si diano lottizzazione di ‘buonuscita’”. “Un intervallo di alcuni anni fra cariche locali e nazionali, di modo che non risulti più vantaggioso amministrare in vista di una clientela”. Un tetto di “tre mandati di cinque anni l’uno, di cui solo due senza interruzione … limite ragionevole, poiché consentono nel frattempo il prodursi di una nuova classe di governo”. E qualcos’altro, motivato e dettagliato. Oggi modificherei talune proposte, tanto è cambiata la situazione. Ma non gli intendimenti di fondo.

Una discussione seria su riforme costituzionali che colpissero il crescente malcostume partitocratico non si è purtroppo mai sviluppata. E non si svilupperà. Prevarranno miserabili cabotaggi, che useranno i risultati del voto solo per cercare di indebolire o rafforzare il governo. Il partito della democrazia presa sul serio è in questa fase più debole che mai.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/referendum-tanto-rumore-quasi-per-nulla/

LA COSTITUZIONE E L’ASINO DI BURIDANO. - GUSTAVO ZAGREBELSKY


Domani alla “Scuola di politica” di Ostana la lectio di Gustavo Zagrebelsky  - Targatocn.it

Pensandoci e ripensandoci mi sento un asino, ma non un asino qualunque: l’asino che occupa un posto di rilievo nelle dotte discussioni medievali sul libero arbitrio: l’asino di Buridano. Quell’asino, che sono io, si trova davanti a due sacchi di fieno e due secchi d’acqua fresca, perfettamente uguali e a identica distanza da lui. Su uno c’è un bel SÌ e sull’altro un bel NO. Come decidersi per l’uno o per l’altro?
Per un momento, mi ricordo che, in tempi non sospetti, condividevo l’opinione di coloro che pensavano che il nostro Parlamento fosse pletorico. Avevo argomenti che mi sembravano buoni. Innanzitutto, nelle assemblee troppo numerose i talenti si confondono in masse senza qualità. Le masse senza qualità non agiscono, ma sono chiamate a reagire, cioè per far qualcosa devono essere eterodirette. Dipendere da altri, tutti sono capaci. Nei grandi numeri, i singoli si confondono e possono nascondersi, non si considerano responsabili di ciò che avviene, sviluppano spiriti gregari, sono numeri. I numeri, nei consessi collettivi, sono direttamente proporzionali alla irrilevanza.
Mi sembrava che, se avessero chiesto a qualcuno che ne sa di dinamiche collettive, come fare per umiliare un organo quale un Parlamento, una delle prime cose che avrebbe suggerito, magari pensando alla massa compatta e grigia dell’Assemblea popolare cinese o del Congresso dei deputati del popolo dell’Unione sovietica (migliaia di persone), sarebbe stata di moltiplicare i numeri. Così, l’asino si sarebbe incamminato verso il fieno e l’acqua fresca del SÌ.
Ora, però, si sostiene tutto il contrario, cioè che la diminuzione del numero dei parlamentari coincide con l’umiliazione del Parlamento. In fondo, nel non detto, ci sarebbe il perenne virus antiparlamentare del popolo italiano, che galleggia nel fondo di ogni tentazione autoritaria o, versione aggiornata, nel plebiscitarismo che si nasconde in certa democrazia diretta. Il taglio parziale dei parlamentari, così, sarebbe solo un rimedio momentaneo, in vista di un taglio ben più radicale. Se fosse così, l’asino avrebbe invertito la marcia verso il NO. Il quale NO si appoggia su quest’ altra considerazione circa le numerose funzioni che il Parlamento deve adempiere: legiferare, indirizzare, controllare nei campi più diversi, corrispondenti alle sempre più numerose presenze dello Stato nella vita civile.
Chi potrà esercitarle convenientemente, se non ci saranno abbastanza persone a occuparsene, a partecipare alle sedute dell’Aula, alle riunioni delle Commissioni, eccetera? Sarà il governo con suoi atti che sfuggiranno ai controlli che, in democrazia, sono necessari. In breve, diminuire il numero dei parlamentari significa aumentare i già cospicui poteri del governo: democrazia a rischio. L’asino si rafforza ancor di più nella sua convinzione per il NO. Come tutti gli asini, anche questo è testardo. Ma non lo è, però, fino al punto dal non pensare che ciò su cui deve decidersi è un taglio quantitativo, non una abolizione, e che il resto è solo un processo alle intenzioni.
Non si decide su questioni costituzionali in base a processi alle intenzioni, ma considerando la realtà che sta al di là, tanto più che le intenzioni passano e le riforme restano. Questo asino ha la memoria lunga e si ricorda che il Parlamento, fino alla riforma costituzionale del 1963 era meno numeroso (la Camera dei deputati, nella I legislatura, ad esempio, era di 572) e ciò non ha mai fatto lamentare difficoltà nell’esercizio delle funzioni dei parlamentari. Ma, soprattutto, non gli è difficile prendere atto dell’assenteismo, dell’incompetenza, dell’anonimato, alla fine dell’irrilevanza di molti.
Chi è fuori del Parlamento si stupisce spesso di apprendere che dentro ci stanno Tizio, Caio o Sempronio le cui opere sono totalmente assenti e sconosciute. Prende corpo l’idea di diminuire i numeri degli oziosi, valorizzando gli operosi. Questa è altra questione che si risolve non parlando di numeri, ma di qualità: una questione che bisognerà pur porre, prima o poi. In ogni caso, ciò che è chiaro è che l’argomento del carico di lavoro è specioso. E così la propensione per il SI’ si rafforza. C’è poi la questione del rapporto tra gli eletti e gli elettori, la questione della rappresentanza democratica.
Qualunque asino sa che tanto più elevato è tale rapporto, tanto più evanescente è il rapporto tra i primi e i secondi. Uno a uno sarebbe l’optimum; uno a quaranta milioni (quanti siano gli elettori) sarebbe il pessimum. L’uno e l’altro sarebbe assurdo: il primo sarebbe il contrario della rappresentanza, il secondo coinciderebbe con il dispotismo elettivo. Ma la cura di questo rapporto è essenziale in democrazia e, perciò, il No si manifesta preferibile. Tuttavia, il rapporto di rappresentanza è flessibile, non esiste un rapporto “giusto”. Può variare a seconda dell’impegno dell’eletto, degli strumenti di comunicazione che gli si mettono a disposizione e, dall’altra parte, dalla capacità degli elettori, singoli e organizzati attraverso associazioni, partiti, sindacati, di far sentire la propria voce.
Il deputato che percorre in carrozza le strade polverose del suo collegio per incontrare la sua gente è l’immagine romantica d’un passato perduto. Se poi per rappresentanza s’ intende il deputato che richiede, per esempio, nel question time, a cui il ministro o chi per esso risponde leggendo un foglio preparato dagli uffici, si capisce che la “rappresentanza” può essere cosa assai più seria di così. Le ragioni del No in nome del sacro principio della rappresentanza non sono allora così evidenti e avanzano di nuovo quelle del SI’.
Insomma, alla fine questo asino al quale ho imprestato la mia asinità, a forza di girare di qua e di là è sconcertato, non sa dove rivolgersi e, forse, concluderà perfino di non avere né fame né sete e, così, preferirà voltarsi e andarsene altrove, mettendo fine al rovello al quale lo si è voluto sottoporre per saggiare in che consista il suo libero arbitrio.
Ultima considerazione: alla fine si deciderà per ragioni che hanno poco a che fare con quelle propriamente costituzionali: fare un favore a questo o un dispetto a quello; rafforzare un partito rispetto ad altri; consolidare la maggioranza o indebolirla; mettere in difficoltà una dirigenza di partito per indurla a cambiare rotta e, magari, a cambiare governo o formula di governo. Ma, allora, quell’asino, per quanto asino sia, avrà un’ulteriore ragione per starsene costituzionalmente sulle sue.

Ecco perché ai partiti piace il Mes. - Gaetano Pedullà

NICOLA ZINGARETTI

Incurante del fatto che meno si sente più recupera consensi, il segretario del Pd Nicola Zingaretti è tornato a farsi vivo per chiedere al Governo, tra le altre cose, di prendere i soldi del Mes sanitario, cioè il fondo messo a disposizione dall’Europa apparentemente a condizioni di favore. Senza tornare per l’ennesima volta sulle evidenti insidie di questo pessimo strumento, da cui non a caso tutti i Paesi con problemi di sanità pubblica persino peggiori dei nostri si tengono alla larga, dobbiamo riconoscere che pochi possono parlare di sanità quanto Zingaretti, visto che guida una Regione, il Lazio, dove gli ospedali sono stati commissariati per anni a causa di un debito mostruoso, e che pertanto sono stati pesantemente ridimensionati, quando non del tutto chiusi.
Un disastro esploso all’epoca di un governatore precedente, Francesco Storace, del Centrodestra, nell’epoca in cui proprio quella parte politica rivendicava di voler trattare alla pari la sanità pubblica e quella privata, con la conseguenza di svuotare le casse alle Asl e far lievitare gli utili dei colossi delle cliniche. Quando poi arrivò la mannaia sulla spesa, il pubblico fu costretto a massacrare le strutture sanitarie decentrate e la medicina del territorio (con le conseguenze che abbiamo visto anche nella gestione del Covid), mentre ai privati non è stato torto un capello, tanto che tuttora restituiscono il favore alla classe politica che li ha beneficiati assumendone a vario titolo i vecchi leader.
Per chi vuol vedere dove altri fanno finta di nulla, a Roma Storace fa il vicedirettore del Tempo, giornale di proprietà della famiglia Angelucci, casualmente a capo di decine di cliniche in mezza Italia, mentre nella Milano di Formigoni, transitato a fine carriera nel Nuovo Centrodestra Ncd, l’ex segretario di quello stesso partito, Angelino Alfano, è presidente del Gruppo ospedaliero Rotelli, una delle maggiori holding sanitarie del Paese. Dopo aver fatto i danni che sappiamo, non stupisce che questa politica voglia appiopparci anche il Mes.

Conte è già in linea col futuro. Il via libera alla rete unica ha un valore eccezionale. - Gaetano Pedullà

GIUSEPPE CONTE

Chi dice che Giuseppe Conte e il suo Governo giallorosso tirano solo a campare, si segni che ieri è stato raggiunto un obiettivo paragonabile per importanza alla straordinaria gestione della pandemia o al mare di soldi strappati in Europa col Recovery Fund. Il via libera alla rete unica della telefonia, cioè alla costruzione dell’autostrada digitale che porterà la fibra e internet veloce nelle nostre case, ha un valore eccezionale. Soprattutto perché sarà a controllo pubblico.
Dopo l’aria e l’acqua, l’accesso al web diventerà nel tempo il bisogno principale, molto più di quanto non sia già adesso. Anche per questo era penoso che l’Italia fosse ancora al palo nella costruzione della più importante infrastruttura immateriale. Di strada, a dire il vero, se ne stava facendo da una parte con Tim e dall’altra con Open Fiber (società di proprietà di Enel e Cdp), col risultato però di duplicare i costi e procedere lentamente, sapendo sin dall’inizio che così si sarebbe coperto l’intero Paese solo tra molti anni.
I governi di destra, a cui interessavano solo le televisioni del principale, e quelli di sinistra, che non erano riusciti ad andare oltre l’insufficiente idea di Open Fiber, ci hanno condannato, insomma, a un’imperdonabile attesa, mentre in tutto il mondo i servizi internet sono da tempo più accessibili e avanzati. Ci voleva dunque Conte, e la spinta più di tutti di Beppe Grillo e del ministro Patuanelli, per mettere insieme i due grandi player (ai quali si è già aggiunto Tiscali) e aprire all’Italia questa porta del futuro.

Rete unica, ha vinto Tim. Ecco l’accordo con Cdp. - Marco Palombi

Rete unica, ha vinto Tim. Ecco l’accordo con Cdp

A Chigi. Ieri il via libera giallorosa.
Per ora hanno vinto l’ad Luigi Gubitosi e i molti e molto variegati azionisti di Tim: il progetto Fibercop – una nuova società della rete – va avanti nelle modalità desiderate dall’ex monopolista, col sostegno unanime di governo e maggioranza (emerso ieri in un apposito vertice), dell’opposizione e pure dei sindacati. L’unanimità “giallorosa” non era peraltro un fatto scontato visto che i 5Stelle e un pezzo del Pd – a differenza di Roberto Gualtieri – erano sempre stati a favore di una nuova società a forte controllo pubblico che, fin dall’azionariato, garantisse imparzialità a tutti gli operatori. Così il cerino resta in mano a Enel, che possiede a metà l’altra azienda della rete, Open Fiber: il suo socio al 50%, la pubblica Cassa depositi e prestiti, è ormai pienamente coinvolto nell’operazione Fibercop (e d’altra parte Cdp si trova nell’imbarazzante situazione di essere anche il secondo azionista di Tim col 9,9%). Se la Borsa vale come indicatore: ieri Tim è salita di nuovo (+3,4%), Enel è scesa (-2,3%).
Ripartiamo dall’inizio. Risale agli anni Novanta la sciagurata privatizzazione di Telecom, venduta con tutta l’infrastruttura, che ci consegna oggi un’azienda con assai meno ricavi e molti più debiti di un tempo: ne hanno risentito in particolar modo gli investimenti. Com’è noto, la messa a terra della fibra in Italia è molto indietro e lo è da tempo. In uno dei suoi momenti di fantasia, l’allora premier Matteo Renzi decise che sarebbe stata Enel a cablare tutto lo Stivale: Francesco Starace, che era ed è l’amministratore delegato, si mise all’opera con Cassa depositi creando appunto Open Fiber (OF). I risultati sono rivedibili: molti soldi spesi, bilanci debolucci, ritardi inauditi, un futuro radioso sempre a venire. E ora ci sono due società a forte presenza pubblica, due progetti in concorrenza e ancora ritardi.
La società della rete. Se ne parla da oltre dieci anni e molto insistentemente dacché esiste OF. Perché non se n’è fatto nulla finora? Questione di soldi, in sostanza. Tim non può perdere la rete, che vale a bilancio 15 miliardi e garantisce con le banche gran parte dei suoi molti debiti: è dunque favorevole, ma solo se conserverà il 50% più un’azione. Opzione appoggiata da Gualtieri per un motivo semplice: se non si fa così, Tim non può reggere. Una grossa mano a Gubitosi, in questo senso, l’ha data l’offerta del fondo Usa Kkr: 1,8 miliardi di euro per acquisire il 38% della rete secondaria di Tim, ossia quella in rame e fibra che dall’armadietto in strada entra nelle case (valutazione totale: 7,7 miliardi). È su questa base – e grazie a un accordo con Fastweb – che si creerà FiberCop, la società in cui si prepara a investire Cdp.
Ora che succede. Dopo il via libera unanime arrivato al capo di Cdp Fabrizio Palermo in una riunione ieri a Palazzo Chigi (presenti Conte, molti ministri ed esponenti di tutti i partiti di maggioranza), lunedì il cda di Tim darà vita all’operazione FiberCop e discuterà del Memorandum of understanding con Cassa depositi. I dettagli finanziari vanno ancora definiti, ma la sostanza è che la pubblica Cdp si prepara a entrare in FiberCop conferendo la sua metà di OF (e forse anche con soldi); Tim conferirà a sua volta anche la rete primaria (quella che va dalla centrale agli armadietti). Alla fine l’ex monopolista dovrebbe restare con la maggioranza assoluta, Kkr e Cdp col 18% a testa, il resto diviso tra Fastweb, che parte col 4,4%, e altri investitori (ieri Tim ha stretto un pre-accordo con Tiscali che potrebbe preludere all’ingresso nel capitale di FiberCop).
La mediazione Gualtieri. Per convincere i colleghi il ministro ha detto due cose: questo è un primo passo per una futura società pubblica della rete (e così ha sedato i grillini), Tim avrà la proprietà, ma non il comando. Secondo quanto spiegato ieri da Palermo a Palazzo Chigi, funzionerà così: non regole definite nello Statuto, ma un patto di sindacato tra Tim e Cdp che preveda un presidente con deleghe forti scelto dalla Cassa, il gradimento della stessa società pubblica sull’ad e la prima linea del management. Ovviamente il tutto funziona se Gubitosi si impegna a fare gli investimenti che servono e magari se Cdp entra nel cda di Tim.
E ora Enel? Dovrà dire cosa vuol fare. I problemi, intrecciati, sono di due ordini: di soldi e reputazionali. Starace si è impuntato nel pretendere una supervalutazione di Open Fiber, che serve a riconoscere la bontà della sua iniziativa e garantirebbe a Enel di fare una plusvalenza su un investimento finora non oculato. Il fondo australiano Macquarie, secondo gli interessati, alla fine della due diligence in corso riconoscerà che OF vale 7 miliardi di euro, il doppio di quanto la valuta Tim. Problema: Starace, manager di un’azienda sostanzialmente pubblica, vorrà bloccare un’operazione che ha il sostegno di governo, maggioranza e opposizione?