Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 26 novembre 2020
mercoledì 25 novembre 2020
La sterzata della Francia sulla tutela del clima: “Arriva il reato di ecocidio”. - Luana De Micco
La proposta di due ministri. Nell'ordinamento entreranno due tipi di contestazioni: la prima è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all'ambiente, la seconda è un “reato per la messa in pericolo grave dell'ambiente”. Previste multe fino a 4,5 milioni e anche la reclusione.
La Francia si prepara ad introdurre nel suo codice penale il concetto di “ecocidio”: inquinare e compiere azioni gravi contro l’ambiente diventeranno dunque reati. L’annuncio è arrivato sulle pagine del settimanale della domenica, Le Journal du Dimanche (JDD), che ha pubblicato un’intervista a due dei ministri, della Giustizia e dell’Ecologia, Éric Dupont-Moretti e Barbara Pompili (nella foto). Parigi fa dunque un passo avanti per rispondere ai problemi legati al cambiamento climatico e anche alle attese della Convenzione cittadina sul clima, un’assembla di 150 francesi dai 16 agli 80 anni, estratti a sorte, che era stata riunita nel 2019 sulla scia del successo delle marce dei giovani per il clima del movimento Fridays For Future promosso da Greta Thunberg. In nove mesi di dibattiti, la Convezione aveva partorito più di 150 proposte di misure, anche molto concrete, da mettere sul tavolo di Emmanuel Macron per rendere più verde la società francese con un obiettivo ben preciso: ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2023. Il 29 giugno scorso il presidente francese aveva ricevuto all’Eliseo i 150 cittadini assicurando loro che avrebbe ripreso la maggior parte delle loro proposte (146 in tutto) per portare avanti la “transizione ecologica e solidale” del paese. Una delle misure più forti dunque la creazione di un reato di ecocidio che molto presto dovrebbe diventare realtà. Di reati di fatto, hanno spiegato i due ministri al JDD, ne saranno istituiti due. Il primo è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all’ambiente “che sarà sanzionato con pene dai tre ai dieci anni di reclusione – hanno spiegato Dupont-Moretti e Pompili – in funzione che si sia in presenza di un’infrazione per imprudenza, di una violazione deliberata di un obbligo o di un’infrazione intenzionale”. Le multe andranno dai 375.000 ai 4,5 milioni di euro. Il secondo è un “reato per la messa in pericolo grave dell’ambiente” che “intende penalizzare chi mette in pericolo in modo deliberato l’ambiente violando le norme in vigore”. La pene prevista è di un anno di reclusione e 100.000 euro di multa.
Il reato riguarderà per esempio quelle fabbriche che “scaricano dei prodotti che non hanno un’incidenza concreta immediata sull’ambiente, ma di cui si teme che possano mettere in pericolo l’ambiente, i pesci e gli ecosistemi”. I due nuovi reati saranno iscritti nella legge sin dalla prossima settimana. “Oggi c’è chi sceglie di inquinare perché gli costa meno che pulire. Le cose cambieranno”, ha aggiunto Éric Dupont-Moretti. Molto enfaticamente Barbara Pompili, intervenuta anche alla radio FranceInfo, ha detto: “Il braccio della legge si abbatterà finalmente su tutti i banditi dell’ambiente, tutti quelli che gli recano danno o senza farlo apposta, o perché lo hanno voluto o perché hanno fatto una scelta intenzionale”.
Diverse associazioni, come France Nature Environnement, hanno visto nell’annuncio dei ministri un progresso nella politica ambientale del paese. Altre invece hanno fatto notare che il governo ha rivisto al ribasso, soprattutto sul piano delle sanzioni, le ambizioni del progetto inizialmente proposto dalla Convezione cittadina per il clima che, per esempio, puntava a multe molto più salate, fino a colpire il 20% del fatturato globale delle aziende colte in fallo. Il militante ecologista Cyril Dion ha lanciato a sua volta una petizione online per ricordare a Macron gli impegni presi a giugno con i francesi, raccogliendo in alcuni giorni più di 260.000 firme. Dion ricorda un sondaggio dell’istituto Harris per il quale nove francesi su dieci ritengono che sia “urgente” intervenire in favore del clima.
Dateci il vaccino anti-comparsate tv. - Nanni Delbecchi
L’infodemia aspetta ancora il suo vaccino, così si diffonde un consiglio da amico al giorno. Si è appena spento l’eco di Flavio Briatore che per abbassare la febbre consiglia di prendere la tachipirinha (la risposta del Billionaire al moijto del Papeete), ed ecco Andrea Crisanti mettere in guardia gli italiani sui vaccini: “Senza i dati non mi vaccino. Troppa velocità, fasi saltate, conoscenze insufficienti. Per fare un vaccino, io personalmente, voglio che sia approvato e voglio vedere i dati.” Una dichiarazione urbi et orbi (specialmente orbi), che fa tornare alla mente quella di Mimmo Craig nell’indimenticabile Carosello di un olio d’oliva extravergine: “Matilde! La pancia non c’è più! La lattina la voglio qui, sul tavolo.”
Anche Crisanti, lui personalmente, il vaccino lo vuole lì sul tavolo, ma allora qualche dubbio sorge spontaneo. La prima cosa che viene da pensare (facendo peccato, s’intende) è che l’inconscio di Crisanti tema che i vaccini funzionino presto e bene, e allora lui personalmente non possa più andare in tv un giorno sì e l’altro pure. Il secondo dubbio, a dire il vero, è una certezza: assistiamo alla tracimazione dell’ego tra gli uomini di scienza, che, in mancanza delle famose evidenze, mettono in evidenza loro stessi. Rete, radio e tv sono a caccia di dichiarazioni da trasformare in titoli, ogni giorno bisogna sfornarne di nuove, spararne di più grosse, e pazienza se si rischia di passare per negazionisti o no vax, tanti nemici tante opinioni, l’importante è non uscire dal giro dei collegamenti. Prima del Covid immaginavamo gli scienziati chiusi nei loro laboratori e nelle corsie degli ospedali; ora li vediamo pronti a collegarsi h24 e nelle corsie degli studi televisivi. Il virus dell’infodemia fa male; trasforma tutti in divi, o almeno illude di poterlo diventare. Se Flavio Briatore studia da popstar mediatica la situazione è grave ma non seria; ma se studia Crisanti la situazione è grave, e soprattutto seria.
Ricchi da Covid 34 miliardi in tasca a 40 italiani. È il virus, che bellezza! - Alessandro Robecchi
Mi piacciono moltissimo gli appelli alla compattezza e all’unità del Paese, che dovrebbe attutire i colpi della crisi da virus. Ne prendo appunto ogni volta su un taccuino, sottolineando qui e là, specie quando il monito viene dai piani più nobili della Repubblica. Disse Mattarella il 2 Giugno: “C’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite. Qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l’unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro”. Bellissime parole, sottoscritte all’unanimità da tutti – ma proprio tutti – i commentatori.
Passati quasi sei mesi, col Natale alle porte, il dibattito sull’apertura delle piste da sci che surclassa quello sulla riapertura delle scuole (che non vendono skipass, non fatturano in polenta e stanze d’albergo, quindi chissenefrega), sarebbe forse il momento di fare il punto sulla “condivisione dell’unico destino”. E così ci vengono in aiuto due ricerche, da cui grondano numeri e dati. Una è quella del Censis, che si può riassumere con pochi punti fissi: 7,6 milioni di famiglie il cui tenore di vita è seriamente peggiorato causa pandemia, 600 mila persone entrate in quel cono d’ombra che sta sotto la soglia di povertà, 9 milioni di persone che hanno dovuto chiedere aiuto (a famigliari e/o banche). L’altra ricerca viene da PwC e Ubs (le banche svizzere), e ci dice che i miliardari (in dollari) italiani erano 36 l’anno scorso, e che quest’anno sono 40, hurrà. La loro ricchezza complessiva ammontava nel 2019 a 125,6 miliardi di dollari e poi, in quattro mesi (dall’aprile al luglio 2020) è balzata a 165 miliardi di dollari, con un incremento del 31 per cento e oltre quaranta miliardi di dollari in più. In euro, al cambio attuale, fa 33,7 miliardi. E siccome i numeri sono beffardi e cinici, ecco che il totale fa più o meno quanto si è tagliato alla Sanità pubblica in dieci anni, che è poi la stessa cifra che arriverebbe indebitandosi con il Mes (circa 36 miliardi).
Non serve sovrapporre le due ricerche per capire che i vasi comunicanti della distribuzione della ricchezza non comunicano per niente, e alla luce di questi numeri le belle parole di Mattarella strappano un sorriso.
Vengono in mente, chissà perché, le continue metafore e similitudini con cui si paragona l’attuale crisi pandemica a una guerra: le trincee degli ospedali, gli eroi sul campo (medici e infermieri), i sacrifici della popolazione, l’incertezza su mosse e contromosse, la seconda terribile offensiva del nemico. E si dimentica volentieri, in questa continua, sbandierata analogia tra Covid e conflitto armato, che chi si arricchisce durante una guerra è più “pescecane” che “dinamico imprenditore”. Però – sorpresona! – di colpo, davanti alle cifre dell’impennata dei super ricchi italiani, la metafora del “Covid come la guerra”, solitamente molto gettonata, si scolora, si attenua, sparisce del tutto. Sarà una guerra, d’accordo, ma quelli che pagano sono i 600 mila scaraventati nella loro nuova condizione di molto-poveri, o oltre sette milioni di famiglie che stringono la cinghia e i denti. Pagano i tanti soldati, insomma, mentre i pochi generali festeggiano le loro rimpolpate ricchezze. Forse con i 34 miliardi piovuti in tasca ai 40 miliardari italiani si potrebbero attenuare problemi e sofferenze di qualche milione di persone. Come “condivisione di un unico destino” non sarebbe male, anzi, sarebbe un’ottima “unità morale” che, ovviamente, non vedremo.
O Velletri o morte. - Marco Travaglio
Siccome domenica aveva annunciato “ci difenderemo nel processo e non dal processo perché noi facciamo come quelli seri, cresciuti alla scuola democristiana”, ieri l’Innominabile non si è presentato all’interrogatorio fissato dalla Procura di Firenze che lo accusa di finanziamenti illeciti alla fondazione Open, accampando un improrogabile “legittimo impedimento”. Doveva presidiare il Senato (dove ha appena il 41,69% di presenze) per difendere l’amico Al Sisi su Regeni: “La non collaborazione egiziana è un falso. Al Sisi ha permesso una collaborazione giudiziaria che non è quella che sognavamo, ma è decisamente superiore a quella standard”. L’intervento, decisivo per le sorti del caso Regeni e soprattutto per i consensi di Italia Viva, richiama quelli di Previti che, appena iniziarono i suoi processi, si trasformò da assenteista a stakanovista dell’aula, dissertando su tutti i temi dello scibile umano: dall’“adeguamento ambientale della centrale termoelettrica di Polesine Camerini” all’“impiego delle giacenze del bioetanolo nelle distillerie” all’“esecuzione dell’inno nazionale prima delle partite del campionato di calcio”.
Il processo di emulazione-identificazione con la banda B., sempre per difendersi nei e non dai processi, prosegue con un altro cavallo di battaglia del Caimano e dei suoi cari: le eccezioni di incompetenza territoriale a raffica. B.&C. per vent’anni tentarono di trasferire i loro processi da Milano a Brescia, o a Perugia, o a Roma. Il nostro, siccome Open aveva sede a Firenze, ritiene che la Procura di Firenze sia incompetente a giudicarlo e pretende che l’indagine plani morbidamente a Roma (dove ha sede il Pd, che non c’entra nulla), o a Pistoia (dove nacque la fondazione prima di spostarsi a Firenze), o a Velletri (tribunale competente a giudicare i reati di Pomezia, dove ha sede uno dei primi finanziatori di Open, la Promidis, che però non è indagata diversamente da lui e dagli altri amministratori di Open). Inoltre, non disponendo più della Rai e dei giornaloni come ai bei tempi per sparare sui pm, ha aperto il sito guerraarenzi.it per seguire “processi, indagini e accuse” ai politici perseguitati come lui. Scopriremo presto che i magistrati che osano dargli noia indossano calzini turchesi. Che Carrai è uno stimato igienista dentale. Che Lotti, con Palamara e Ferri, faceva solo cene eleganti. Che l’avvocato Bianchi merita la Consulta o, almeno, il ministero della Giustizia. Che urge un lodo Bianchi per congelare i processi agli ex premier e depenalizzare il finanziamento illecito. Che lui non può farsi interrogare perché ha l’uveite. Che la Boschi è la nipote di Al Sisi e, processandola, si rischia un incidente diplomatico con l’Egitto.
Un brav’uomo, amava sua moglie, è stato un raptus: e la stampa salva il carnefice. - Elisabetta Ambrosi
L'ultimo in ordine di tempo è stato Alberto Genovese, definito “un vulcano di idee” dal Sole24Ore (che poi è stato costretto alla marcia indietro). Ma troppo spesso accade che, nel caso di una donna uccisa, giornali e siti spendano parole comprensive nei confronti degli assassini. In questo modo la vittima è vittima per la seconda volta. Siamo andati ad analizzare i titoli più scandalosi di quest'anno.
“Una vita non proprio fortunata e lineare; orafo, aveva perso il lavoro, si arrangiava come poteva, non aveva neanche un macchina, si spostava con una bicicletta un po’scassata”: sembra il racconto della vita di qualcuno che ha subito una sorte infausta, magari è stato vittima di qualcuno. Invece è tutto il contrario: l’ex orafo, nella cronaca del giornale La Stampa, è Giorgio Venturelli, autore dell’omicidio, a colpi di martello, di Ambra Pregnolato a Valenza a maggio di quest’anno.
Siamo nel 2020 – parliamo infatti dei femminicidi di quest’anno, non di trent’anni fa – eppure neanche il noto giornale piemontese riesce a evitare uno degli errori più frequenti, e incomprensibili, della cronaca dei femminicidi: empatizzare con l’omicida invece che con la vittima. Non è l’unico, gli esempi sono a dozzine: ha “il volto provato” e la “voce sofferente” l’omicida Michele Marotta, tormentato di aver ucciso la moglie Maria Tedesco a tale modo da aver “provato a togliersi la vita nel tentativo estremo e assurdo di pareggiare il conto” (Edizioni Caserta, novembre). La Gazzetta del sud definisce Antonio De Pace, autore dell’omicidio in aprile della fidanzata Lorena Quaranta tramite strangolamento, “un assassino confuso e spaesato”, mentre il quotidiano on line Alto Adige riporta le parole dell’assassino Antonio Vena (la vittima è la compagna Alessandra Cità, uccisa a Milano a colpi di fucile) in questo modo: “Sono disperato, la amo ancora e sono distrutto”.
Quelle vite perfette degli omicidi.
Frequente e inspiegabile è, nella cronaca dei femminicidi, l’indulgere sulla presunta vita tranquilla o integerrima dell’autore di violenza, (come nel recente caso di Alberto Genovese definito dal Sole24ore, quotidiano costretto poi a una marcia indietro, “un vulcano di idee”). “Una vita integerrima, mai una denuncia, mai un gesto sbagliato”: così Il Resto del Carlino definisce l’esistenza di Giovanni Laguardia, 69 anni, originario di Matera che ad ottobre ha ucciso, sempre a martellate, la moglie Vera Mudra. Anche Alberto Accastello, marito di Barbara, Gargano uccisa a novembre con i figli, è un operaio che, secondo La Repubblica, “lavorava moltissimo. Mai un’assenza, sempre presente”, mentre Franco Dellapina – “boscaiolo schivo e geloso”, secondo il titolo della Gazzetta di Parma – era un “un appassionato cacciatore, molto legato alla terra e alla tradizione da più generazioni”. Almeno fino a prima di uccidere la moglie Anastasia a luglio a colpi di pistola. Anche Franco Necco, assassino sia del figlio Simone che della moglie Bruna De Maria a Beinasco, viene descritto, dalla Stampa, come un “uomo preoccupato per il figlio, un uomo per bene, ex agente di polizia locale per vent’anni, che il giorno prima scherzava con il negoziante di frutta”.
Se la causa del femminicidio è il comportamento della vittima.
Come se non bastasse suscitare pietà per chi ha sterminato donne innocenti, lasciando orfani i loro figli, i media italiani continuano a fare un secondo macroscopico errore, far sembrare l’omicidio una conseguenza delle scelte della vittima. Quasi sempre si tratta della decisione della donna di lasciare l’uomo, oppure si parla di relazioni molto travagliate, tese. L’errore è persino nei titoli: “Accoltella la moglie alla gola e poi si suicida: lei voleva lasciarlo”, scrive il Corriere della sera di Torino a proposto dell’omicidio di Anna Marochkina, uccisa dal compagno Andres Pedersen a Piossasco in febbraio. La Today riassume il brutale massacro ad opera di Alberto Accastello, che ad ottobre scorso ha ucciso la moglie e i due figli, così: “Barbara Gargano voleva una nuova vita, per questo Alberto Accastello l’ha uccisa”. Secondo Leggo, invece. il femminicidio di Luana Rainone, uccisa “per motivi sentimentali”, si spiega così: “Lei lo pressava, voleva lasciasse compagna e figli”. Alcuni quotidiani arrivano persino a colpevolizzare la donna morta: “Uccide la moglie a martellate a Rimini: voleva sempre soldi, non ce la facevo più”: Il resto del Carlino racconta la vittima Vera Mudra quasi come un matrigna cattiva, “voleva che Giovanni si rimettesse a fare l’idraulico per poter dare a lei altro denaro”.
Con il covid spuntano poi titoli che accostano assurdamente pandemia e femminicidio, quasi potesse esserci mai un nesso. “Messina, studentessa di Medicina uccisa dal compagno: dramma della convivenza forzata”: questa è la sintesi del magazine Blasting News dell’uccisione di Lorena Quaranta da parte del fidanzato Antonio De Pace a Furci Siculo, in aprile. La stessa vicenda è raccontata dall’Eco del sud con questo titolo: “Femminicidio Furci Siculo. De Pace: Temevo che Lorena mi avesse contagiato con il coronavirus”. Ma c’è anche Il Messaggero: “Uccide la compagna durante la notte con un colpo di fucile: il covid li costringeva a convivere”: la storia è quella di Alessandra Cità, uccisa con un fucile da Antonio Vena a Bressanone.
Esaltate oppure sminuite, il destino delle donne uccise
Ma l’orrore di un linguaggio sbagliato non finisce qui: descrivendo l’omicida come pazzo, folle o patologizzando il movente, giornali e riviste finiscono per attutirne le responsabilità. Va ancora forte la parola, vuota di significato, “raptus”, magari “maturato in un quadro familiare fortemente segnato dalla malattia” (omicidio di Morena Designati a Palazzo Pignano a luglio, secondo La provincia di Crema.it); spessissimo poi l’omicida, come Michele Noto, body builder che ha ucciso a colpi di pistola Rosalia Misfud e la figlia di lei Monica Di Liberto a Mussomeli, è attraversato da “un’esasperata gelosia, una lacerante ossessione” (Il Fatto Nisseno). L’assassino è spesso “accecato dalla rabbia” – sempre Michele Noto, secondo Il Giornale di Sicilia – oppure, come nel caso di Lukas Oberhauser, autore dell’omicidio di Barbara Rauch, ad Appiano in marzo, sarebbe autore di un “folle gesto” (Alto Adige.it). La gelosia – che non è un movente, come non lo sono altre patologie – arriva fin dentro i titoli, come nel femminicidio Concetta Liuzzo a Montebello, uccisa dal marito a colpi di ascia: “Melo e Concetta erano una coppia stupenda, tragedia passionale per troppa gelosia” (Stretto web).
A volte, poi, la vittima viene sminuita come se ciò rendesse l’omicidio meno grave. Così di Stefania D., uccisa in aprile, si racconta su La Stampa che era depressa e aveva psicofarmaci in casa, mentre la vita della prostituta Maria, uccisa a Roma a giugno, viene definita dal sito sito Globalist.it, in un articolo pieno di pathos, “una vita derelitta, un vuoto a perdere”. Ma l’errore è anche quello opposto: raffigurare la donna uccisa come perfetta ed esemplare, come se l’omicidio fosse essere meno grave in caso contrario o diverso. Bruna de Maria era “mamma, moglie e fedele dipendente comunale a Beinasco”, Concetta Liuzzo, sempre per Stretto web, era “donna di sani principi, dedita esclusivamente ai sacrifici per tirare avanti la famiglia, amava l’uomo della sua vita che le aveva dato due figli”.
Per fortuna l’Ordine dei Giornalisti ha finalmente modificato, pochi giorni fa, il Testo unico dei doveri del giornalista, inserendo alcune norme da utilizzare nella cronaca di violenze e femminicidi: in particolare, l’invito è a usare un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole, evitando sia gli stereotipi, sia termini che sminuiscano la gravità del fatto commesso. Ma basteranno questa indicazioni, in vigore peraltro dal 1 gennaio, a cambiare la cultura, e la testa, di chi spesso scrive di un tema così cruciale e delicato? E pure dei loro direttori e infine anche dei loro editori?
VIVA L'INGENUITÀ . - Rino Ingarozza
Che una persona scelga da che parte stare è legittimo. C'è chi sente di destra, chi di sinistra, chi si sente "grillino". È normale, è logico, e' democratico. Guai se non fosse cosi. Sappiamo benissimo come è andata, quando la gente è stata costretta a stare da un'unica parte. Quando o eri fascista o eri .....in galera (quando andava bene).