martedì 9 febbraio 2021

Pci, quel “tagliacuci” sulla rivoluzione. - Gad Lerner

Macaluso, Petruccioli & C. retrodatano la nascita del partito al rientro di Togliatti in Italia e ridimensionano la figura di Gramsci. L’imbarazzo per la questione Mosca. E la messa in soffitta dell’utopia.

Per potersi definire “Comunisti a modo nostro”, come recita il titolo del loro dialogo appena pubblicato da Marsilio, Emanuele Macaluso e Claudio Petruccioli hanno scelto un ben strano modo di celebrare il centesimo anniversario della scissione di Livorno: saltare a piè pari i primi ventitré anni del partito, dal 1921 al 1944.

Liquidati come “una lunga notte buia”, col loro carico di eroismo e ferocia; e pazienza se furono gli anni del sogno rivoluzionario, dell’opposizione clandestina al regime fascista, dello stalinismo, della guerra, della Resistenza partigiana… il centenario va postdatato. Macaluso lo dichiara fin dalla prima pagina: per lui la vera storia del comunismo italiano comincia dal rientro in patria di Togliatti e dall’“accantonamento” del leninismo. Che permetterà la trasformazione del Pci in partito di massa, “non dico socialdemocratico, ma che si richiama alla tradizione socialista”.

Se vorrete dedurne che nel 1921 i due autorevoli ex dirigenti comunisti sarebbero rimasti col riformista Filippo Turati al Teatro Goldoni, anziché seguire Bordiga, Terracini e Gramsci al San Marco, non avrete tutti i torti. Tanto è vero che nella meticolosa rivisitazione da essi compiuta delle svolte della sinistra nel Dopoguerra, il senno di poi li condurrà quasi sempre a dar ragione alle componenti socialdemocratiche: che si tratti di Saragat contro Nenni nel 1947; del ripudio del marxismo decretato dalla Spd nel 1959 a Bad Godesberg; o del braccio di ferro sulla struttura del salario fra Craxi e Berlinguer nel 1984.

Lungo tutto questo arco di tempo il capolavoro politico del “partito nuovo” di Togliatti viene ascritto alla capacità del Migliore di guidare una trasfigurazione programmatica sotto l’ombrello dell’ideologia, tale da consentire ai nostri di autorappresentarsi più socialisti dei socialisti. Paghi del fatto che la “via italiana al socialismo” più nulla aveva a che spartire col “fare come in Russia” d’antan. Lo stesso compromesso storico proposto alla Democrazia cristiana da Berlinguer nel 1973, altro non sarebbe che il compimento di questa strategia togliattiana. Per cui a Berlinguer andrebbe semmai rimproverata la persistente visione anticapitalista, che gli impedisce di aderire fino in fondo al modello di società occidentale.

Logico che da questo tagliacuci della propria storia esca ridimensionata la figura di Antonio Gramsci, ridotto a malinconico pensatore solitario. L’ammirazione nostalgica dei nostri va tutta al Togliatti che fin da subito aveva voltato le spalle all’esperienza consiliare torinese dell’“Ordine nuovo”, convinto com’era che il conflitto sociale debba restare solo una leva al servizio del primato della politica. Ciò che spiegherà l’eterna diffidenza del gruppo dirigente comunista nei confronti dei movimenti per i diritti civili e di quant’altro emergesse alla sinistra del Pci.

Resta da giustificare la prosecuzione fino al 1989 del legame del Pci con l’Unione Sovietica. E qui i due autori si differenziano. Macaluso, seppur con imbarazzo, definisce inevitabile finanche il plauso all’invasione dell’Ungheria nel 1956, visto che l’appartenenza al blocco comunista forniva al Pci un sostegno insostituibile. Petruccioli è più critico nel confronto con la vecchia guardia e ci regala una testimonianza impressionante. Il giorno in cui crolla il Muro di Berlino va a bussare all’ufficio di Alessandro Natta per chiedergli un consiglio su come reagire. Ne ottiene una risposta sconsolata e terribile: “Caro Petruccioli, cosa volete fare… Ha vinto Hitler!”. Certo Natta non era un bolscevico; ma per un militante come lui, iscrittosi al Pci nel 1945, anche dopo il fallimento della Rivoluzione d’ottobre permaneva la necessità di un ordinamento sociale alternativo al capitalismo.

Più coerente di Macaluso e Petruccioli, un altro ex comunista a loro vicino, Paolo Franchi, pubblica per La nave di Teseo un saggio, “Il Pci e l’eredità di Turati”, in cui sostiene che il suo partito “si farà passo passo molto, ma molto, più ‘turatiano’ di quanto dicano le storie che vanno per la maggiore”. Peccato solo – sia detto per inciso – che anche lui sposi la grossolana forzatura secondo cui Umberto Terracini nel 1982 avrebbe detto: “A Livorno aveva ragione Turati”. Falso. Ben altro dovrebbe essere lo spirito con cui guardare un secolo dopo a quella pur tragica separazione, per trarne insegnamento.

Né ci aiuta in tal senso il pamphlet di uno storico militante come Luciano Canfora, La metamorfosi (Laterza), che svolge un ragionamento opposto a quello di Macaluso e Petruccioli condividendone però l’assurda post-datazione al 1944 dell’atto di nascita del Pci. Fervente togliattiano anch’egli, Canfora non crede affatto che il “partito nuovo”, indicando l’unità nazionale e le riforme di struttura come via italiana al socialismo, fosse destinato a sciogliersi nell’indistinto “democratico”. Anzi, sostiene che Occhetto, D’Alema e gli altri coetanei di matrice togliattiana nel 1989 avrebbero trascinato il partito al suicidio, facendosi alfieri di valori antitetici a quelli delle origini. Peccato che anche Canfora scelga di trascurare l’eredità, imbarazzante ma fertile, di quei primi ventitré anni “del ferro e del fuoco” in cui il partito forgiò il suo profilo ideale di avanguardia delle classi subalterne che aspiravano a un mondo nuovo, a una redenzione collettiva, alla giustizia sociale.

L’empito di fede rivoluzionaria maturato nelle sofferenze della Grande Guerra è il grande rimosso di questo centenario. E invece andrebbe studiato con rispetto, un secolo dopo, tanto più in un tempo che di nuovo si presenta drammatico. Peccato che gli ex comunisti, rimasti togliattiani di destra e di sinistra, o divenuti turatiani fuori tempo massimo, mostrino di appassionarsi esclusivamente alle controversie successive. Sembra che per loro ragionare di utopia rivoluzionaria sia solo un’infantile perdita di tempo.

Invece, chi potrebbe aiutarli a riconoscere il valore dell’utopia come leva motrice del cambiamento e ispiratrice dei movimenti di massa, è proprio il patriarca Antonio Gramsci. Ho trovato un piccolo aneddoto significativo nel diario di Camilla Ravera, la “maestrina” che nel 1926, dopo l’arresto di Gramsci, gli subentrò alla guida del partito. Quando lei e Umberto Terracini al confino di Ventotene subivano l’ostracismo del partito che li aveva espulsi, perché colpevoli di aver criticato il patto Hitler-Stalin e di indicare la prospettiva unitaria della Costituente, Camilla traeva consolazione dall’amicizia con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi. Il quale era stato tradotto sull’isola dal carcere di Turi, dove aveva fraternizzato con Gramsci. Lei stessa, quand’era detenuta lì vicino, a Trani, ne ricevette notizia dall’illustre prigioniero. Scrive dunque di Schicchi la futura senatrice a vita Ravera: “Era uno di quegli anarchici con cui Gramsci amava conversare. ‘Anche l’utopia serve al cammino degli uomini – mi diceva poi Gramsci, sorridendo – fa la sua tenue luce, là dove ciò che realmente sarà non sappiamo’…”. Ecco, forse è proprio l’utopia a mancarci, cent’anni dopo.

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Dall’ammucchiata di potere si salvano Calenda e Meloni. - Andrea Scanzi

 

Ormai è fatta: tutti, o quasi, sono entrati nella retoricissima modalità “governo di unità nazionale”. E quando è così vale tutto. A quel punto è tutto un piovere di “Draghi santo subito” e “Franza o Spagna purché se magna”. Soprattutto: a quel punto, che è poi questo, ciò che fino al minuto prima pareva impossibile – e inaccettabile – diventa auspicabile. Anzi addirittura meraviglioso. E allora vai con Salvini che governa con Fratoianni (bum!), Calderoli con Zingaretti (daje!) e Berlusconi con Di Maio (c’mon).

Detto che Draghi è persona dal profilo inattaccabile e che gli auguriamo ogni fortuna (che sarebbe poi la nostra), il suo governo si presenta a oggi – con rispetto parlando e non per colpa sua – come una delle più grandi schifezze nella storia dell’umanità. Lega col Pd, Forza Italia con Movimento 5 Stelle, centristi e cosiddetti radicali con LeU. Una roba da vomito, ma se osi dirlo ti guardano come il cacadubbi che fa lo schizzinoso dinnanzi a ostriche & champagne. È tutto capovolto, e quando scatta il concetto di “unità nazionale” devi ingoiare tutto. Altrimenti sei un traditore.

Gad Lerner parla di “commissariamento della democrazia parlamentare” ed è vero, perché ricorrendo a Draghi si è implicitamente ammesso che la politica ha fallito. Corradino Mineo ci vede invece qualcosa di positivo, ovvero una sorta di “normalizzazione” della Lega, passata – in un secondo! – da sovranista a europeista. È vero che lo scenario è devastante e come la giri ti fai male. Ed è anche vero che, di fronte a una tragedia, un Paese dovrebbe sapersi unire. Certo. Ma questo varrebbe in un Parlamento fatto da De Gasperi, Parri e Pertini. Lì si che avrebbe senso questa sorta di Grande Partito Unico, in grado di andare oltre ogni divergenza. Ma davvero, oggi, c’è qualcuno che crede al senso dello Stato di Salvini, Berlusconi e Gasparri? Davvero qualcuno crede a Borghi & Bagnai folgorati sulla via dell’europeismo? Davvero qualcuno crede che il povero Draghi, zavorrato da una maggioranza che a oggi andrebbe dall’estrema sinistra (si fa per dire) all’estrema destra (non si fa per dire), potrà fare qualcosa di fortemente politico? A parte i ristori e il piano vaccinale (che sarebbe già tantissimo, certo), dovrà anzitutto altro tirare a campare. Altro che conflitto di interessi, prescrizione e transizione ecologica!

Giornalisticamente sarà pure una gran frattura di palle, perché vivremo in un clima mellifluo da “adesso fingiamo tutti di andare d’accordo”. E l’unico da bastonare resterà Conte, che anche dopo la crisi rimane quello più amato dagli italiani (con Draghi) e che potrebbe uscire più forte dal nuovo governo (che appoggia), essendo ormai ufficialmente il leader del campo progressista, ma che per i baccelli lessi di certi talk show iper-renziani rimarrà Il Gran Puzzone.

In questa cacofonica orgia garrula per la grande ammucchiata, si salvano giusto due leader. Il primo è Calenda, che a questa perversione ha sempre creduto e ora giustamente esulta. La seconda è la Meloni. Durante la pandemia ha dato il peggio di sé (ma i sondaggi la premiano). Ha una classe dirigente non di rado irricevibile (chiedere a Report). E i suoi interventi alla Camera sono foneticamente raggelanti. Ma è forse l’unica coerente. Lo è stata con il Conte-1, accettando il tradimento di Salvini. E lo è adesso, di fronte alle corna del solito Matteo e pure di Silvio. Di fatto farà opposizione da sola (chissà le urla!). Se Draghi farà il miracolo, ne uscirà con le ossa rotte. Ma se l’informe caravanserraglio fallirà, nel 2023 Fratelli d’Italia stravincerà a mani basse. Auguri.

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Governo Draghi: 8 punti per non dividere. Ma sui nomi vuole mediare poco. - Carlo Di Foggia e Paola Zanca

 

Da calendario, avevano un quarto d’ora a testa. Ma Mario Draghi, al secondo giro di consultazioni con i partiti, ha già imparato a prendere le misure. E dopo dieci minuti, nonostante i tempi già dimezzati, li ha congedati tutti. Gentile, ma fermo: “Ha finito di illustrare il suo programma, poi ha guardato la parete e ha detto: abbiamo solo un minuto. Ma là appeso, non c’era nessun orologio”. Lasciano la Sala della Lupa di Montecitorio un po’ interdetti: il presidente incaricato ha già finito di farli sfogare. Li ha ascoltati al primo giro, ma adesso non è già più tempo. “Ermetico”, lo descrivono. Che tradotto significa che non ha dato ai suoi interlocutori nessuna delle indicazioni che davvero gli interessavano: chi, dove, quando?

Nemmeno un accenno ai tempi per la nascita del nuovo governo. Par di capire, comunque, che non se ne parli prima di venerdì: oggi vede i partiti maggiori, domani le parti sociali e solo giovedì si conoscerà l’esito del voto su Rousseau. Neanche un indizio sulla natura tecnica o politica del governo, anche se ormai il “modello Ciampi”, ovvero il mix tra le due formule, viene dato per assodato anche dal Quirinale. Figurarsi se si è spinto a parlare del “perimetro” della maggioranza, argomento già finito negli archivi d’agenzia. E ai pochi che ieri lo hanno stuzzicato sul tema, raccontano che Draghi abbia risposto con un ragionamento che suona più o meno così: “Io cerco di trovare una mediazione sia sulla sostanza che sulla forma, ma se il problema vero è solo chi ci sta, alzo le mani…”.

Non ha intenzione, insomma di aprire troppe trattative, anche perché – va detto – non c’è nessuno che si sia messo a dettare condizioni. Lui, nel dubbio che qualcuno si svegli, evita di avvicinarsi alle questioni “scivolose” e lascia fuori tutti i cosiddetti temi “divisivi”. Così, ha buttato giù 8 punti sufficientemente vaghi e sufficientemente di buon senso da accontentare l’arco parlamentare che va da Fratoianni a Salvini. Nessuno impegno.

C’è la vocazione “europeista” e l’attenzione all’ambiente che “innerverà” (sic) tutti gli ambiti del programma. Ci sono le riforme evergreen che da 20 anni accompagnano il dibattito pubblico: quella della giustizia civile, del fisco (in teoria già in cantiere con i giallorosa) e della Pubblica amministrazione. C’è il Recovery fund, ovviamente, e c’è il piano vaccinale che deve tirarci fuori dalla pandemia. Parla di scuola e immagina modifiche al calendario per restituire ai ragazzi un po’ del “tempo perduto” quest’anno, nonché nuove assunzioni per evitare di ritrovarsi alla ripresa un’altra volta senza docenti. Questioni che riguardano giugno e settembre: l’impressione diffusa è che sia un “programma emergenziale”, che poi è quello per cui lo ha chiamato il capo dello Stato. Ma risolta l’emergenza, notano con una certa preoccupazione, “il dopo non c’è”.

Qualcosa in più oggi potrebbe arrivare su quel che non ci sarà nel programma. Consapevole dei molti temi divisivi (immigrazione, Mes, giustizia) l’ex Bce potrebbe raccogliere dai partiti le indicazioni sui temi che considerano esplosivi. Molti di questi, va detto, li ha già tolti dal tavolo e così hanno fatto i partiti (Salvini, per dire, non gli chiederà oggi di tornare alla versione originaria dei decreti Sicurezza).

Al netto della vaghezza, Draghi è tornato su alcuni punti economici. In tema di aiuti alle imprese ha spiegato che i ristori vanno bene per tamponare l’emergenza ma servirà un piano di stimoli pubblici per creare lavoro (anche se, per la verità, si troverà a gestire subito i 32 miliardi del decreto Ristori 5, in gran parte già opzionati). L’idea di fondo è che il Recovery rappresenti un embrione di bilancio comune europeo, e su questo bisognerà insistere. Su questo fronte anche dalla Lega potrebbero saltare le ultime resistenze. Oggi la plenaria dell’Europarlamento dovrebbe infatti approvare il regolamento definitivo del piano europeo. Un testo che disegna un’architettura piena di vincoli e controlli sui fondi, e con diversi rischi (chi non rispetta le regole fiscali europee rischia di vedersi bloccati i soldi). Per questo a metà giugno in commissione affari economici la Lega si era astenuta. Ieri filtrava una linea diversa. Ascoltato oggi Draghi, potrebbe arrivare il via libera a Bruxelles.

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Delusione, sconcerto.

 

Se la politica, intesa come arte di governare, funziona bene, ci si sente al sicuro e la si segue volentieri, ma quando diventa ostaggio degli interessi economici e non si cura di ripianare le falle accumulatesi nel tempo, diventa nebulosa, impenetrabile, incomprensibile e la si abbandona.

Con Conte avevamo raggiunto l'apice della governabilità, ci sentivamo al sicuro e ci siamo riavvicinati ad essa, ora, con la caduta del governo Conte e con l'avvento di Draghi, un tecnico al governo, ricominciamo a riprovare quel senso di sbandamento insopportabile, nauseabondo; non riusciamo a comprendere perché la strada precedentemente intrapresa, scorrevole, lastricata di buoni propositi, foriera di progresso, di giustizia uguale per tutti, debba tornare a ridiventare tortuosa, impraticabile, incomprensibile, nebulosa.

Inizialmente ho sperato tanto che Draghi, descritto come un deus ex machina, potesse riprendere la linea intrapresa da Conte, ma ciò che incomincio ad intravedere non mi piace per niente, sta tornando tutto come prima, sta vincendo la parte peggiore della politica, già agonizzante da svariati anni, ora in via di estinzione definitiva. 

cetta.



Solo posti in piedi. - Marco Travaglio

 

Più avanzano le consultazioni, più empatizziamo con Mario Draghi. Inondato dalla saliva dei laudatores “a prescindere” (non ha ancora detto una parola, ma già fa miracoli con la sola forza del pensiero: tipo San Francesco che ammansisce il lupo sovranista). Perseguitato dalle esegesi sui contenuti della mitica “Agenda Draghi” (una Treccani, per farci stare tutto quel che gli attribuiscono). Molestato dalle autopromozioni di aspiranti ministri che soffrono e s’offrono. E assediato da noti bugiardi en travesti che si spacciano per l’opposto di se stessi pur di farsi notare (spettacolari le supercazzole del M5S per non parlare di B. e del figlioccio rignanese, i camuffamenti del Cazzaro dalla felpa al doppiopetto e dalla mascherina di Trump a quella di Carola, ma più di tutto il Pd che finge di credergli). Roba che non augureremmo al nostro peggior nemico (anche perché è solo l’antipasto: il governo non è ancora nato), figurarsi a una personalità del livello di Draghi, che fino a 7 giorni fa se ne stava in Umbria in attesa che lo eleggessero al Colle, ma senza far nulla perché ciò accadesse. E ora deve tenere insieme tutto e il suo contrario e riuscire a non ridere in faccia a Salvini che gli rifila il “modello Lombardia” (record mondiale di morti: a quel punto, meglio un battaglione di serial killer).

Forse si starà domandando cosa sia un “governo tecnico, ma politico” e che differenza passi fra un ministro “politico”, “tecnico”, “tecnico-politico”, “di area” (o di aria), “politico ma non numero uno” (dal due in giù), essendo i centauri, le sirene, i minotauri e gl’ircocervi difficilmente reperibili sul mercato. E, in base alle leggi della fisica, quanti ministri possano entrare in un governo, posto che se restasse fuori un’altra volta la leggendaria Cartabia ne farebbe una malattia, l’ubiquo Bentivogli detta programmi di governo su mezza dozzina di giornali e la Bonino, dall’alto del suo zerovirgola e degli appena 45 anni di Parlamento, vince la proverbiale ritrosia e si dice generosamente “disponibile a fare il ministro” con Salvini e Di Maio che fino a ieri avrebbe affidato all’esorcista (laico, si capisce). Insomma, restano solo posti in piedi. E c’è pure il voto su Rousseau perché, fra una piroetta e l’altra, i 5Stelle si son ricordati di avere degli iscritti (problema che gli altri partiti non hanno o non si pongono). E lì può succedere di tutto: non che, dopo l’apertura di Grillo, passino all’opposizione; ma che magari si astengano o condizionino la fiducia alla presenza di ministri propri (interni o esterni) nei posti-chiave Giustizia, Lavoro, Sviluppo-Ambiente, Scuola. Sempreché chi scrive il quesito si ricordi che, tra l’opposizione ottusa e la resa senza condizioni, c’è qualche via di mezzo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/09/solo-posti-in-piedi/6094806/

Governo, secondo giro di consultazioni. Scuola, Ue, vaccini e lavoro: ecco il programma di Draghi.

 

Obiettivo del nuovo giro di colloqui far incastrare tutti i tasselli di una nuova allargatissima maggioranza.


La pandemia ha rubato giorni di scuola ai ragazzi e alle ragazze italiani e Mario Draghi vuole partire da qui: il calendario scolastico va rivisto e bisogna fare di tutto per assicurare che alla ripresa a settembre i professori siano in cattedra (IL TIMING DELLA CRISI). Ne discute con i partiti più piccoli il premier incaricato durante il secondo giro delle consultazioni.

TUTTI I VIDEO L'altra priorità è accelerare sui vaccini, la loro distribuzione ma anche la produzione. E creare posti di lavoro, perché la ripresa ci sarà ma sarà lenta. Prende forma il programma del nuovo governo, che parlerà anche di Europa e lavoro e delle riforme necessarie a rilanciare il Paese: fisco, pubblica amministrazione e giustizia in cima alla lista. IL CALENDARIO DELLE CONSULTAZIONI

Il ritmo dei colloqui è serrato, gli esponenti delle forze politiche escono uno dopo l'altro e dipingono un quadro molto simile. La cornice entro la quale si muoverà il governo Draghi sarà europeista all'insegna di un rinnovato atlantismo. I TEMI INDIVIDUATI DA DRAGHI
Sul fronte interno invece il premier incaricato batte più volte sulla riforma della pubblica amministrazione: operazione necessaria per l'attuazione del Recovery plan. C'è poi la riforma del fisco, che deve essere organica, e anche la riforma della giustizia civile. Quella penale, tema fonte di molte tensioni fra i partiti, non è citata. L'emergenza sanitaria ha poi portato con sé quella sociale ed economica. Il blocco dei licenziamenti scade a fine marzo e qui nessuno riporta parole nette: la necessità di proteggere le persone sarebbe però chiara al premier incaricato, che punta a creare nuovi posti di lavoro attraverso la ripresa degli investimenti e l'apertura dei cantieri. Altra priorità, l'ambiente che "innerverà" ogni intervento. E poi i due grandi temi che interessano tutti i cittadini: la scuola e la lotta al Covid.

Il 15 febbraio scade il decreto legge che vieta gli spostamenti fra Regioni e dunque se rinnovare la stretta o come alleggerirla potrebbe essere il primo atto del nuovo governo. Francesco Boccia, ministro uscente per gli Affari Regionali, invita a "non abbassare la guardia". Sulla scuola invece si sono già fatti sentire i presidi: l'idea di allungare, magari fino a luglio, la presenza degli studenti in classe viene accolta con un mix di prudenza e timore mentre sulle "200mila assunzioni" da fare la richiesta è di maggiore autonomia agli istituti.

Prima di salire al Colle e sciogliere la riserva, l'ex presidente della Bce deve tornare al tavolo con i partiti più grandi e incontrare - come promesso - parti sociali e enti locali mercoledì. Ma a quel punto non potrà ancora dichiarare chiusa la partita: il Movimento 5s ha deciso di ascoltare la base con tanto di votazione online che si concluderà giovedì alle 13. La direzione di marcia dei vertici è chiara: hanno aperto al governo Draghi in nome della responsabilità. Luigi Di Maio assicura che le battaglie di bandiera non verranno rinnegate e che i 5s "continueranno a essere determinanti". Invoca compattezza ancora una volta Giuseppe Conte che ai gruppi parlamentari è anche tornato ad assicurare di "non voler entrare nel governo". Il lavoro sui punti programmatici, che mostrano un respiro ampio e che rispondono alle sollecitazioni arrivate più volte da Bruxelles, va di pari passo con la formazione della squadra. Sempre più possibile che alla fine Draghi scelga una formula mista, con alcuni tecnici nei ministeri chiave e la presenza di alcuni politici. Avere luogotenenti dei partiti nell'esecutivo potrebbe infatti garantire una navigazione più sicura in Parlamento. La maggioranza larghissima, che va dal Pd alla Lega, pronta a sostenere Draghi rischia di rendere l'esame dei provvedimenti alla Camera e al Senato ricco di insidie.

Se il governo dovesse essere interamente politico, la Lega è però pronta a reclamare un posto da ministro direttamente per Salvini. Una questione di "logica" per il capogruppo leghista a Montecitorio Riccardo Molinari. Intanto, dopo le aperture all'ex banchiere centrale, prosegue la svolta in chiave europeista del 'Capitano'. Su migranti dice di volersi attenere alla "legislazione europea" e potrebbe anche decidere di far votare i suoi a favore del Recovery fund all'Europarlamento. Molto dipenderà dall'incontro in agenda con Draghi: se la vecchia austerity facesse largo agli investimenti - fanno sapere fonti del partito - si potrebbe virare dall'astensione al sì anche in questo caso.

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/02/08/governo-consultazioni-draghi-palazzo-chigi-quirinale-giuramento_fb91440d-0f9f-4d38-8dcc-cf01f321e3b9.html

lunedì 8 febbraio 2021

I 2 Matteo, FI e i dem vanno già all’assalto: torna la prescrizione. - Giacomo Salvini

 

Gli emendamenti - Tutti vogliono cancellare la riforma Bonafede: la settimana prossima il voto in Aula. Il M5S, dopo il caso Renzi, chiede lo stop a incarichi pagati da altri Stati.

Il governo Draghi non è ancora nato e rischia già di spaccarsi proprio sul tema che ha provocato la caduta del Conte 2: la giustizia. E in particolare la prescrizione, tema che da sempre scatena gli appetiti di Silvio Berlusconi, Matteo Renzi e Matteo Salvini che faranno parte della prossima maggioranza. L’assalto alla riforma Bonafede, approvata dal governo Lega-M5S e che dal 1° gennaio 2020 ha bloccato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, si trova nel fascicolo di emendamenti al decreto Milleproroghe in discussione in commissione Affari Costituzionali della Camera e che dovrà essere convertito entro il 1° marzo.

Gli emendamenti per cancellare la “Spazzacorrotti” e tornare alla vecchia legge Orlando – che bloccava (inutilmente) la prescrizione per un anno e mezzo dopo il primo grado e l’appello, ma solo in caso di condanna – sono stati presentati da quasi tutti i partiti della prossima maggioranza: Enrico Costa (avvocato eletto con Forza Italia e passato ad Azione) e il radicale Riccardo Magi chiedono che la norma Bonafede sia cancellata per far rivivere la legge Orlando. Anche tre deputati di Italia Viva – Lucia AnnibaliMarco Di Maio e Mauro Del Barba – chiedono l’immediata sospensione della norma almeno fino al 31 dicembre 2021 in attesa di una riforma del processo penale, mentre i forzisti Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin e nove deputati della Lega hanno firmato due emendamenti per spazzare via la legge Bonafede fino al 2023 e tornare alla normativa precedente.

Anche se il Pd non ha presentato emendamenti, i dem hanno fatto capire che vorrebbero il superamento della norma sulla prescrizione visto che, a pochi giorni dalla presentazione della relazione sulla Giustizia di Bonafede alle Camere (mai avvenuta perché nel frattempo Conte si era dimesso), lo stesso Orlando aveva iniziato a riscrivere il testo indicando nella prescrizione uno dei punti da modificare: i dem difficilmente non voteranno un emendamento per tornare a una legge voluta dal Guardasigilli del governo Renzi e oggi vicesegretario del partito. “Vedremo, non c’è ancora il governo”, glissa un deputato dem. Resta contrario solo il M5S che ha fatto dello stop alla prescrizione una delle proprie bandiere. Già prima della caduta del governo Conte, in commissione Affari Costituzionali di Montecitorio i giallorosa non erano più autosufficienti (24 a 24) ma, con la nuova maggioranza con tutti dentro, gli emendamenti contro la legge Bonafede potrebbero avere la strada spianata.

E così, una volta nato, il governo Draghi si troverà subito una gatta da pelare: il suo primo atto sarà quello di dare il parere sugli emendamenti del Milleproroghe e la maggioranza rischia di spaccarsi. Conterà molto chi sarà il ministro della Giustizia che però, come hanno chiesto IV-FI-Lega, dovrà mostrare discontinuità rispetto a Bonafede. Il voto dovrebbe essere all’inizio della prossima settimana.

Ma a creare un altro grattacapo nella nuova maggioranza potrebbe essere anche una proposta di legge presentata sabato dal M5S a prima firma Francesco Berti e sostenuta da una trentina di deputati grillini che, se approvata, vietererebbe a chi ha incarichi politici di fare conferenze all’estero pagato da stati stranieri. Una norma che andrebbe a colpire Renzi che durante la crisi di governo è volato a Riad per intervistare Mohammed Bin Salman pagato da una fondazione saudita. Il ddl vieta “a premier, ministri, sottosegretari, deputati e senatori” di ricevere “contributi e prestazioni” da governi o enti pubblici di Stati esteri “superiori a 5.000 euro annui”. Chi lo fa decade dalle proprie funzioni dopo un voto della Camera di appartenenza . Una bomba che rischia di esplodere nella prossima maggioranza.

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