giovedì 22 luglio 2021

Nicola Cosentino condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa nell’appello del processo Eco4.

 

Secondo l'accusa l'ex sottosegretario berlusconiano era il referente politico nazionale del clan dei casalesi, con il quale l'esponente politico aveva stretto un patto di ferro per ottenere appoggio elettorale in cambio di un contributo ai camorristi. Questo processo sarebbe morto se fosse già entrata in vigore la Riforma Cartabia.

novembre 2016 nove anni di carcere in primo grado. Ora 10 anni nell’appello di un processo che sarebbe morto se fosse già entrata in vigore la Riforma Cartabia. È la decisione dei giudici della quarta sezione del Corte d’Appello di Napoli, che hanno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’Economia ed ex coordinatore regionale del Pdl Campania. La sentenza è stata pronunciata al termine del processo Eco4, dal nome del consorzio che si occupava della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in diversi comuni del Casertano. In primo grado Cosentino, assistito dagli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro, era stato condannato a 9 anni di carcere (la richiesta era di 16 anni) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione camorristica, con sentenza pronunciata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il 17 novembre 2016, dopo oltre 140 udienze. La richiesta della Procura generale di Napoli, espressa nel corso dell’udienza dello scorso 9 dicembre, era di 12 anni di reclusione. Prima di oggi, l’ultima volta che il nome di Cosentino era ricomparso nelle pagine di cronaca giudiziaria era per l’assoluzione del 29 settembre 2020 nell’appello del processo ‘Il Principe e la Ballerina’. In quella occasione, esprimendo soddisfazione per la sentenza, Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini (capogruppo forziste a Montecitorio e Palazzo Madama) denunciarono il cattivo funzionamento della giustizia, descrivendo Cosentino come vittima di un processo politico. Oggi, dopo la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica, nessun forzista ha finora commentato.

Le accuse nei confronti dell’ex esponente di Forza Italia
La vicenda da cui nasce la condanna odierna è quella relativa al cosiddetto processo “Eco4” che descrive Cosentino – di questo sono convinti i magistrati della procura generale di Napoli che avevano chiesto 12 anni di carcere – come il referente politico nazionale del clan dei casalesi, con il quale l’ex sottosegretario avrebbe stretto un patto di ferro per ottenere appoggio elettorale in cambio di un contributo ai camorristi. Fra le accuse, da qui il nome dell’inchiesta, ci sono i presunti favori relativi all’appalto vinto nel 1999 dai fratelli Orsi, imprenditori ritenuti vicini al clan Bidognetti. La gara cui fa riferimento il processo è quella indetta dal Ce4, consorzio di 20 Comuni del Casertano che si occupava del ciclo dei rifiuti. Secondo i pm, è stato proprio Cosentino a permettere ai fratelli Orsi di associarsi al consorzio creando la società mista Eco4 che ottenne poi affidamenti diretti. Ma se in primo grado Cosentino è stato riconosciuto come il “referente nazionale del clan dei Casalesi” almeno fino al 2004, la Dda di Napoli ha presentato appello sostenendo che l’appoggio dell’ex sottosegretario ai Casalesi fosse andato avanti almeno fino al 2007-2008. Da qui la richiesta di una pena maggiore di quella decisa in primo grado. Un processo, quello a Cosentino, basato anche sulle parole dei collaboratori di giustizia, e che lo vede, stando alle accuse, come il dominus del Ce4, all’interno del quale l’ex sottosegretario avrebbe fatto assumere molta gente nei periodi pre-elettorali, così ‘controllando’ il risultato di varie elezioni, soprattutto nei Comuni rientranti nel bacino del consorzio. Il tutto, sempre stando ai pm, con la consapevolezza che i fratelli Orsi fossero vicini ai clan.

Le posizioni di pubblica accusa e difesa.
Argomentazioni, quelle della pubblica accusa, rintuzzate dagli avvocati difensori di Cosentino, Stefano Montone, Agostino De Caro ed Elena Lepre, convinti che non esistano segni della prestazione di un contributo di Cosentino al clan in 25 anni di attività politica. Per i legali, non c’è un solo segno di un effettivo contributo elettorale che la camorra avrebbe dato a Cosentino, anche perché in passato, quando il clan si è schierato a favore di un candidato alle elezioni politiche, gli esiti sono stati del tutto evidenti. E quest’accusa, voti in cambio di favori, hanno spiegato gli avvocati, è una delle gambe dell’accordo sinallagmatico che la procura sostiene, ma allo stato – secondo i difensori – non c’è traccia che Cosentino abbia ricevuto i voti della camorra, mentre per quanto riguarda i favori, i legali hanno rammentato non solo che nel frattempo Cosentino è stato assolto negli altri processi dove era imputato con l’aggravante mafiosa, ma anche che nelle decine di altri processi contro il clan dei Casalesi su appalti, grandi opere e così via, non è emerso nessun ruolo di Cosentino. Circostanza, questa, che per i legali porta a concludere che l’ex sottosegretario non può essere il referente nazionale dei Casalesi. Stando ai legali, inoltre, allo stato c’è solo il dato dell’interessamento di Cosentino nelle vicende della società mista Eco4, ma si tratta di vicende nelle quali Cosentino interviene nella sua qualità di politico. La società Eco4 – hanno argomentato i difensori di Nick ‘0 mericano – è il braccio operativo del consorzio Ce4, e questo, a valle delle elezioni del 1999, si sposta come riferimento dal centrosinistra al centrodestra, ed è dunque normale che Cosentino e Landolfi ne assumano il controllo, trattandosi di un organismo di tipo politico. Organismo che opera attraverso la Eco4 che Cosentino, hanno spiegato i legali, ‘eredita’, in quanto gli Orsi la costruiscono indipendentemente e prima che Cosentino si affacci sulla scena. Quanto alle fonti dichiarative, per i legali sono state chiaramente sconfessate. Da ultimo, a parte il ‘pentito’ Nicola Schiavone, figlio del capoclan dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone, che in aula si è contraddetto, anche altri collaboratori di giustizia, sostengono i difensori di Cosentino, sono stati smentiti. L’ultimo dei quali, Luigi Guida, che accusa Cosentino de relato, in una diversa sentenza è stato ritenuto inattendibile e mendace quando parla di un incontro al quale avrebbe fisicamente partecipato e che, in realtà, non si è mai verificato.

Condanne e assoluzioni: tutti i guai giudiziari dell’ex sottosegretario berlusconiano
Sono più d’uno i processi, le condanne e le assoluzioni per Nicola Cosentino, ex sottosegretario del governo Berlusconi. L’ultima sentenza in ordine di tempo prima di quella di oggi per concorso esterno, è datata 29 settembre 2020 ed è relativa al processo “Il principe e la scheda ballerina“, conclusosi con l’assoluzione. Ma ancora prima l’ex coordinatore campano di Forza Italia era stato assolto (in via definitiva) anche nel processo cosiddetto “Carburanti“. Cosentino, inoltre, ha anche subìto una condanna definitiva per aver corrotto un agente della polizia penitenziaria mentre era detenuto e un’altra, per diffamazione, nell’ambito dell’inchiesta “P3”. Nello specifico, l’ex sottosegretario è stato assolto nel processo d’appello “Il principe e la scheda ballerina” dall’accusa di tentativo di reimpiego di capitali illeciti, con l’aggravante mafiosa, in relazione alla costruzione di un centro commerciale (mai edificato) voluto dal clan dei Casalesi a Casal di Principe (in primo grado Cosentino era stato condannato a 5 anni dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). Nelle motivazioni alla sentenza di assoluzione, i giudici hanno evidenziato che Cosentino non aveva interesse a realizzare il centro commerciale, mentre le ricostruzioni dei collaboratori di giustizia (fra i quali Nicola Schiavone, figlio del capoclan dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone) sono state giudicate generiche, non riscontrate e in molti casi smentite in dibattimento.

Nel giugno del 2019, poi, Cosentino è stato assolto dalla Cassazione (che ha rigettato il ricorso della procura generale) nell’ambito del processo “Carburanti”. In questo caso l’ex sottosegretario era alla sbarra insieme ai fratelli Giovanni e Antonio e ad altri imputati, accusati a vario titolo di estorsione e concorrenza illecita aggravati dalle modalità mafiose. I fatti facevano riferimento all’azienda di famiglia dei Cosentino, l’Aversana Petroli. Nell’ottobre del 2018 già la Corte d’Appello di Napoli lo aveva assolto, mentre in primo grado Cosentino era stato condannato a 7 anni e sei mesi di carcere. Definitiva, invece, la condanna a 4 anni di reclusione per aver corrotto un agente della polizia penitenziaria del carcere di Secondigliano allo scopo di introdurre in cella generi alimentari, vestiti e un ipod. Infine, nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta “P3”, Cosentino è stato condannato a 10 mesi non per i reati connessi all’associazione a delinquere ma per diffamazione e violenza privata nei confronti dell’ex presidente della Regione Campania Stefano Caldoro.

Un anno fa l’esultanza di Gelmini e Bernini per l’assoluzione.
A settembre scorso, il nome di Cosentino fu utilizzato dai suoi colleghi di partito per rinvigorire la richiesta di riformare la giustizia italiana, storico cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi. “Dopo nove anni di calvario giudiziario, l’ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino è stato assolto in Appello da tutte le accuse di collusione con la camorra – disse in quella occasione Anna Maria Bernini – È uno dei casi più sconvolgenti di uso politico della giustizia, che conferma quanto sia urgente una profonda riforma che scongiuri il massacro preventivo di imputati che poi risultano innocenti”. Sullo stesso tono il commento della capogruppo di Fi alla Camera Mariastella Gelmini: “L’assoluzione di Nicola Cosentino, la cui colpa principale a quanto pare è stata di essere un dirigente e parlamentare di Forza Italia, è un emblematico esempio di malfunzionamento della giustizia, di uso improprio della custodia cautelare e di creazione di veri e propri processi politici. La vita di un uomo, la sua carriera politica, i suoi affetti – sentenziò la Gelmini – sono stati devastati dall’accusa di collusione con la camorra e dall’applicazione di una carcerazione preventiva per reati infamanti che non esistevano. Verrebbe da gioire, per Cosentino, per la sua famiglia, per la storia di Forza Italia e per il fatto che, giustamente, la Camera all’epoca respinse la richiesta d’arresto per l’evidente fumus persecutionis di quella inchiesta. Dopo nove anni però è difficile perfino gioire, nella consapevolezza che niente e nessuno potrà risarcire Nicola Cosentino e i suoi affetti”. A distanza di meno di un anno, però, per l’ex responsabile politico di Forza Italia in Campania è arrivata la condanna più pesante, per l’accusa più pesante, nel processo più complesso della vicenda giudiziaria di Nick ‘o mericano.

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Concorso esterno, ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì condannato in appello a 6 anni: “Era a disposizione dei Messina Denaro”. - Marco Bova

 

La sentenza è stata emessa dai giudici della Corte d’Appello, al termine di un lungo iter processuale iniziato nel 2011.

L’ex senatore berlusconiano Antonio D’Alì è stato condannato a 6 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza è stata emessa dai giudici della Corte d’Appello, al termine di un lungo iter processuale iniziato nel 2011. “E’ stato il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”, ha detto il procuratore generale Rita Fulantelli, che al termine di una requisitoria durata due ore aveva chiesto la condanna a 7 anni e 4 mesi. La corte d’Appello inoltre lo ha interdetto per 3 anni dai rapporti con i pubblici uffici. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni. Il processo d’Appello bis ha avuto inizio dopo l’annullamento nel gennaio 2018 della Corte di Cassazione del precedente giudizio di assoluzione e prescrizione per i fatti precedenti al 1994. Anche in questo caso, come nel caso del processo d’appello a Nicola Cosentino concluso oggi, se fosse stata in vigore la riforma Cartabia sulla prescrizione, la sentenza non sarebbe stata pronunciata perché sarebbe già stato superato il limite di 3 anni previsti dal disegno di legge della ministra per reati di mafia.

Nel corso del processo, per la prima volta, sono sfilati una ventina di testimoni, alcuni finora mai ascoltati in aula, nel tentativo di colmare “cadute logiche” evidenziate dalla Suprema Corte nel primo giudizio di appello pronunciato nel 2016. Tra le “lacune” da colmare c’era soprattutto la “cesura illogica della suddivisione netta in due periodi”, pre e post 1994, che sia in primo grado che in Appello, era stato fissato con la data dell’ultimo assegno consegnato da D’Alì a Francesco Geraci, amico del latitante di Castelvetrano, per una compravendita fittizia di un terreno in contrada Zangara, la stessa in cui lavorava don Ciccio. Un episodio accertato da tutte le sentenze finora emesse, seppur coperto da prescrizione, che data all’indomani delle Stragi del ‘92 il link tra D’Alì e l’ultimo ricercato di Cosa Nostra.

“Con il suo operato ha consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa Nostra – ha detto il pg durante il suo intervento – mettendo a disposizione le proprie risorse economiche e successivamente il proprio ruolo istituzionale di Senatore della Repubblica e di Sottosegretario di Stato”. A partire dalle discusse elezioni politiche del 1994, D’Alì ha seduto per vent’anni in Senato, più volte rieletto nel suo feudo elettorale. Da alcuni anni il politico trapanese, adesso 69enne, si è defilato dalla politica e recentemente la Cassazione ha confermato la revoca della misura di prevenzione dell’obbligo di dimora nella sua città, dopo un anno di effettive limitazioni. Tra gli episodi affrontati nel corso del processo d’Appello bis, c’era la vicenda della ‘Calcestruzzi Ericina’, l’azienda confiscata al boss Vincenzo Virga, ed il trasferimento del prefetto Fulvio Sodano, ratificato in Consiglio dei Ministri l’1 luglio 2003. Secondo l’accusa, l’obiettivo di Cosa Nostra, attraverso D’Alì, era quello di “estromettere la Calcestruzzi Ericina attraverso escamotages” e “condizionare il mercato del calcestruzzo” in favore delle imprese vicine, per “svuotare l’Ericina”, fin quando un imprenditore amico avrebbe l’avrebbe acquisita “con la benedizione della Prefettura, ma l’opposizione di Sodano bloccò tutto”. Ma anche del tentativo di allontanare capo della Squadra Mobile di Trapani, Giuseppe Linares. Che alla fine del 2010 fu davvero trasferito ma i fatti contestati riguardano gli anni precedenti.

Sul trasferimento di Sodano i giudici hanno ascoltato tre testimoni di spessore come l’ex ministro Beppe Pisanu, l’ex presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro ed il prefetto Carlo Mosca, capo di gabinetto di Pisanu. Testimonianze che non avevano convinto la Procura generale, né la corte d’Appello, che ha disposto la trasmissione dei loro interrogatori alla Procura per falsa testimonianza. Nel corso delle indagini, i magistrati riuscirono ad interrogare il prefetto Sodano, all’epoca costretto ad una mobilità ridotta a causa di una grave malattia e morto nel febbraio 2014. “Mi rivolsi al Presidente della Regione (Cuffaro) chiedendogli di accertare il vero motivo del trasferimento, dopo qualche giorno lo stesso mi riferì che si era fatto ricevere da Pisanu il quale gli aveva detto che dopo aver resistito alle pressioni del D’Alì alla fine aveva dovuto cedere alle insistenze del sottosegretario che pur sempre era uno dei suoi più stretti collaboratori”, raccontò Sodano il 19 aprile 2007.

Nel corso del processo la Corte ha ascoltato anche il collaboratore di giustizia Antonino Birrittella, che ha riferito dei rapporti l’intervento di D’Alì in diversi appalti pubblici, tra cui quelli per il rifacimento del porto di Trapani, che portarono alla Louis Vuitton Cup, e le procedure in favore del Consorzio Trapani Turismo, formato da imprenditori sfiorati da indagini antimafia. Ma anche l’ex collaboratore di giustizia, Giovanni Ingrasciotta, per cui la procura generale, al termine della requisitoria, ha chiesto la trasmissione degli atti per falsa testimonianza. Nonostante in fase di indagini avesse parlato dei rapporti tra D’Alì e Matteo Messina Denaro, raccontando anche di un incontro tra i due, successivo al periodo delle Stragi, nel corso della sua audizione ha glissato ad alcune domande, rispondendo con molti “non ricordo”. “Purtroppo signor procuratore, nella vita sa com’è? – ha detto in aula, prima di riferire di alcune presunte minacce subite in seguito alle sue dichiarazioni su D’Alì. – Ci sono momenti che nella vita uno non si ricorda neanche come si chiama, come adesso”. Anche il suo interrogatorio sarà trasmesso per falsa testimonianza alla Procura di Palermo.

Per l’avvocata di D’Alì Arianna Rallo quest’ultima sentenza “desta profonda sorpresa” perché, sottolinea, “tutte le acquisizioni probatorie di questo giudizio di rinvio hanno rinforzato la tesi difensiva e avvalorato la correttezza delle motivazioni del gip del Tribunale di Palermo”. Rallo sottolinea che “nel doveroso rispetto che attribuiamo ad una decisione giudiziaria, attendiamo le motivazioni per comprendere quale sia stato l’iter logico-argomentativo che ha condotto la Corte di Appello ad una diversa valutazione dei fatti e se lo stesso possa dirsi esente da vizi di legittimità, giustificanti ovviamente il ricorso per cassazione. Peraltro, la recentissima statuizione della Corte di Cassazione, dello scorso 17 giugno, che ha irrevocabilmente giudicato ingiusto e illegittimo che Antonio D’Alì sia stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale da parte del Tribunale di Trapani, deponeva certamente per una valutazione dei fatti corrispondente alla prospettazione difensiva”.

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mercoledì 21 luglio 2021

Dopo la Germania, l’apocalisse climatica colpisce la Siberia con incendi mai visti prima (e anche la Cina). - Sabrina Del Fico

 

La nube tossica che si è creata sulla città siberiana di Yakutsk, provocata dagli incendi di questi giorni, rappresenta uno degli eventi inquinanti peggiori al mondo. Ma non è solo la Russia ad essere colpita dai fenomeni estremi e distruttivi.

I tragici effetti dei cambiamenti climatici iniziano a vedersi in tutto il mondo, con fenomeni metereologici estremi e incontrollabili, che dopo il loro passaggio lasciano solo distruzione e morte. Lo abbiamo visto in Europa con i fenomeni alluvionali che hanno colpito soprattutto Germania e Belgio e che hanno provocato centinaia di vittime e miliardi di euro di danni. Anche il Canada e parte degli Stati Uniti, coperti da una cappa di calore record, subiscono lo scotto di incendi e assistono impotenti alla morte degli animali soffocati dal caldo.

Apocalisse di fuoco in Siberia.

Ma il calore si fa sentire anche in una delle regioni più fredde del mondo, la Siberia, dove ha causato incendi nella tundra e ha minacciato la città siberiana di Yakutsk con una densissima nube di fumo tossico ora monitorata dagli esperti. Gli alti livelli di particolato e di altri elementi chimici (come ozono, benzene e acido cianidrico) hanno creato uno degli eventi più inquinanti del mondo. Le autorità locali hanno invitato i 320 mila residenti dell’area a chiudersi in casa per evitare di respirare i fumi degli incendi.

Le analisi dei satelliti rivelano che i livelli in regione di PM2.5, piccole particelle che possono entrare nel flusso sanguigno e danneggiare gli organi umani, hanno superato la quantità di 1000 microgrammi per metro cubo i nei giorni scorsi – un livello 40 volte superiore a quello raccomandato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Si stima che tali livelli di agenti inquinanti possono avere effetti immediati e gravi sulla popolazione umana.

(Leggi anche: Un incredibile “tornado” di zanzare si è abbattuto sulla Siberia, oscurando persino il sole).

Gli scienziati vedono gli effetti dei cambiamenti climatici provocati dall’uomo come un fattore molto importante nella formazione di questi incendi. Yakutsk, capitale della Repubblica di Sakha (nord-est della Russia), è generalmente la città più fredda al mondo ma a causa del riscaldamento globale le temperature estive nell’area sono aumentate 2,5 volte più velocemente rispetto alla media mondiale.

Lo scorso anno durante una prolungata ondata di calore nella regione siberiana le temperature sono rimaste più di 5 gradi superiori alla media nei mesi da gennaio a giugno, provocando lo scioglimento del permafrost l’arrivo di una primavera particolarmente calda e prematura non che lo scoppio di numerosi incendi boschivi in estate. Tuttavia il record si è superato questa primavera quando prima degli altri anni la taiga (la foresta boreale) ha preso fuoco molto facilmente perché fiaccata da siccità e calore estremo. 

Sono stati messi in campo piani militari per provare a spegnere questi incendi, e si è reso necessario il dispiegamento di più di 2000 uomini sul territorio: Si tratta della più importante operazione nell’area dalla fine dell’Unione Sovietica. Malgrado tutti questi sforzi, purtroppo, gli incendi continuano a sfuggire al controllo umano e, secondo il ministro per le emergenze della regione, attualmente sono attivi 250 incendi in un’area di 5,720 chilometri quadrati. 

La terribile alluvione in Cina. 

Anche l’altra parte del globo non sfugge ai fenomeni climatici estremi e devastanti: un’incredibile fenomeno alluvionale si sta abbattendo in queste ore sulla Cina, nella regione di Henan, distruggendo strade, abitazioni e collegamenti ferroviari. Per ora le vittime accertate del disastro sono 12, ma i dispersi sono ancora centinaia. L’alluvione è stata provocata da fenomeni piovosi eccezionali che hanno acuito i danni e portato all’evacuazione di 200.000 persone: le strade si sono trasformate in fiumi, con le macchine che hanno preso a muoversi spinte dalla corrente. Le città devastate dalla furia della natura sono più di una dozzina.

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Cina, alluvione a Zhengzhou: città inondata. Dodici vittime nella metropolitana sommersa dall’acqua

 

Sono più di 300mila gli sfollati. La pioggia ha cominciato a colpire la provincia Henan sabato 17 luglio facendo esondare il Fiume Giallo. Il presidente cinese Xi Jinping ha commentato definendo "estremamente gravi" le inondazioni, mentre si teme che la situazione peggiori.

Le strade devastate dall’acqua, il traffico cittadino spazzato via dalla corrente, i passeggeri della metro intrappolati. Sono queste le immagini della gravissima alluvione che sta colpendo la provincia cinese di Henan, popolata da circa 94 milioni di persone, e in particolare la capitale Zhengzhou nel bacino del Fiume Giallo. Al momento, il bilancio è di 25 vittime, e più di 300mila sarebbero le persone sfollate. Si temono anche numerosi dispersi.

Le precipitazioni hanno cominciato a colpire la regione cinese sabato 17 luglio, facendo esondare il fiume in poche ore. I cittadini hanno dovuto immediatamente far fronte a delle precipitazioni inaspettatamente copiose: la pioggia caduta su Zhengzhou solo negli ultimi giorni, infatti, è stata pari alla quantità media di un anno intero. Per gli esperti si tratta del maltempo più potente e devastante degli ultimi mille anni.

Inondazioni in Cina, le persone travolte sulle strade e in metro
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Le persone sono rimaste bloccate nelle proprie case e nei mezzi pubblici, abbandonando le strade quando possibile e cercando riparo nelle prime strutture adibite a rifugi. La situazione è risultata particolarmente grave all’interno della metropolitana, dove si sono verificate 12 vittime e centinaia di persone sono rimaste intrappolate nei vagoni immersi nell’acqua. In tutta la regione sono centinaia di migliaia i cittadini che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni.

Il presidente cinese Xi Jinping ha commentato definendo “estremamente gravi” le inondazioni che si stanno verificando. Dopo aver predisposto il livello massimo di allerta, le autorità cinesi hanno cominciato le operazioni di salvataggio e soccorso. Ma si teme che la situazione peggiori: l’acqua continua a inondare le strade, causando faglie e crolli in tutti i quartieri della città. Tutta Zhengzhou è rimasta senza elettricità, ospedali inclusi. Intanto, sempre il capo di Stato cinese ha avvertito che potrebbe esserci “un numero significante di vittime”, e per questo ha chiesto a tutti “mettere al primo posto la sicurezza e la proprietà delle persone e assumere un ruolo guida nella lotta alle inondazioni”.

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La finta unità nazionale perde i pezzi. - Antonio Padellaro

 

Quando dopo l’avvenuto Conticidio, lo scorso 2 febbraio Sergio Mattarella convocò al Quirinale Mario Draghi, indicò come unica soluzione possibile un governo di unità nazionale “per fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria” (l’altra ipotesi era il voto anticipato descritto però come una specie di calamità nazionale). Quando il nuovo premier mise insieme una larga maggioranza (a eccezione di FdI e della Sinistra di Fratoianni) vi furono cori da stadio, tipo Wembley, e nei ditirambi dell’informazione al seguito s’immaginò un Paese finalmente affratellato, per risolvere tutti insieme appassionatamente le “gravi emergenze presenti”. Un luogo incantato tipo quello nel quale il “leone e il vitello giaceranno insieme” (Isaia), “anche se il vitello non dormirà molto” (Woody Allen). Infatti, qualche voce dissonante si era detta perplessa sulla possibilità di tenere insieme Lega e Pd, FI e M5S, vale a dire tutto e il contrario di tutto, a eccezione dei due Matteo, già in “palese fidanzamento” (Bersani). Tranquilli, risposero gli aruspici del Foglio convinti che il governo dei Migliori, sommato alla vittoria dei Måneskin, al trionfo degli Azzurri e alla finale persa da Berrettini, annunciasse il migliore dei mondi possibili. In questo paradiso in terra, nel caso di qualche disputa di sicuro irrilevante, SuperMario avrebbe paternamente ascoltato per poi emettere il suo saggio, autorevole e insindacabile giudizio. Del resto, il compromesso non è forse la sublimazione della politica, che a sua volta è l’arte del possibile, eccetera? Purtroppo, entrata a vele spiegate nell’età dei prodigi, la supposta unità nazionale diede, trascorsi pochi mesi, una formidabile musata contro la dura realtà delle cose. Chi poteva immaginare che uno stravagante leader (leghista) della Santa Alleanza fondasse da un giorno all’altro una nuova branca della virologia, stabilendo che al compimento dei 40 anni si poteva (forse) contrarre la perniciosa variante Delta, ma che sotto i 40 anni (ora più ora meno) il virus sarebbe risultato praticamente innocuo? Oppure, che una prestigiosa giurista, pronosticata al Quirinale, elaborasse una riforma della Giustizia che in due anni, indipendentemente dalla gravità dei reati ne sancisse l’improcedibilità, e oplà, il processo non c’è più? Provocando un tale gigantesco falò nei tribunali che a paragone il famoso rogo delle leggi “inutili” organizzato da quell’altro buontempone di Calderoli, sarebbe sembrato una grigliata. Domanda: è possibile cercare l’unità nazionale nell’insensatezza? O nella malafede?

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Salvaladri, Gratteri e De Raho: “È più conveniente delinquere”. - Giampiero Calapà

 

Il procuratore nazionale: “È un forte indebolimento della lotta a terrorismo, mafie, corruzione: lesione alla sicurezza del Paese”.

“Una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”. “Un indebolimento della lotta alle mafie”. “Converrà di più delinquere”. “Il cinquanta per cento dei processi saranno improcedibili”. È cominciata malissimo ieri la giornata per la guardasigilli Marta Cartabia, la cui riforma della giustizia è stata fatta a pezzi dalle audizioni, in commissione alla Camera, del procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho e del capo della Procura di Catanzaro Nicola Gratteri. La ministra, dal canto suo, incontrando i capi degli uffici giudiziari della Corte d’appello di Napoli ha cercato di tenere il punto: “Lo status quo non è un’opzione sul tavolo”. E anche in quella sede non è andata un granché bene col procuratore generale Luigi Riello che non si è tirato indietro: “Mi sembrerebbe molto triste dover trarre la conclusione che l’unico modo di fare i processi in questo Paese sia non farli, sia offrire ponti d’oro agli imputati per indurli a scegliere, a suon di sconti, saldi, liquidazioni e riti alternativi”.

A Roma, appunto, nelle stesse ore il dibattito sulla riforma si spostava in commissione Giustizia a Montecitorio. Il primo a sedersi di fronte ai deputati è stato Gratteri, subito pronto a denunciare “un grande allarme sociale che riguarda la sicurezza: il cinquanta per cento dei processi finiranno sotto la scure della improcedibilità. E temo che i sette maxi processi contro la ’ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro saranno dichiarati tutti improcedibili in appello. Uno dei punti qualificanti della riforma Cartabia è, appunto, l’improcedibilità dell’azione penale che prevede l’annullamento della sentenza di condanna eventualmente pronunciata nei gradi precedenti trascorsi due anni e un anno rispettivamente in appello e Cassazione. È una disposizione che avrà come effetto quello di travolgere un enorme numero di sentenze di condanna con tutto ciò che questo comporta”. L’improcedibilità renderebbe quasi impossibili i processi con molti imputati. Il lavoro di anni, per Gratteri, rischia di andare in fumo per colpa (o merito, dipende dai punti di vista) del governo “dei migliori”, capace di arrivare dove neppure nel Ventennio berlusconiano si era arrivati con le cosiddette riforme della giustizia e i continui attacchi pubblici alla magistratura.

La riforma Cartabia è un vero colpo di mano, infatti, per Gratteri, che ha continuato: “In termini concreti le conseguenze saranno la diminuzione del livello di sicurezza per la nazione, visto che certamente ancor di più conviene delinquere”.

Se le parole di Gratteri bastavano a mandare di traverso il caffè alla guardasigilli e anche al premier Mario Draghi, il carico da novanta è arrivato poco dopo, quando sulla stessa seggiola di Montecitorio si è seduto il procuratore nazionale Antimafia De Raho: “Non è per nulla condivisibile che un procedimento per un delitto di mafia o di terrorismo diventi improcedibile, perché nella fase di appello non si è pervenuti a sentenza nei due anni o non è stato prorogato il termine dal giudice procedente. Il contrasto alle mafie ne uscirebbe fortemente indebolito. L’esigenza della ragionevole durata del processo richiede il superamento degli ostacoli che impediscono alla macchina della giustizia di muoversi velocemente, rendendo la giustizia più efficiente e consentendole di celebrare i processi in tempi rapidi, coprendo o aumentando gli organici dei magistrati e fornendo di assistenza necessaria l’attività giudiziaria. La durata dei gradi di giudizio – ha concluso De Raho con un’ultima sberla al governo – non può rendere improcedibili i delitti di mafia, di terrorismo e di corruzione, rappresentando essi una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”.

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