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giovedì 22 luglio 2021

Nicola Cosentino condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa nell’appello del processo Eco4.

 

Secondo l'accusa l'ex sottosegretario berlusconiano era il referente politico nazionale del clan dei casalesi, con il quale l'esponente politico aveva stretto un patto di ferro per ottenere appoggio elettorale in cambio di un contributo ai camorristi. Questo processo sarebbe morto se fosse già entrata in vigore la Riforma Cartabia.

novembre 2016 nove anni di carcere in primo grado. Ora 10 anni nell’appello di un processo che sarebbe morto se fosse già entrata in vigore la Riforma Cartabia. È la decisione dei giudici della quarta sezione del Corte d’Appello di Napoli, che hanno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’Economia ed ex coordinatore regionale del Pdl Campania. La sentenza è stata pronunciata al termine del processo Eco4, dal nome del consorzio che si occupava della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in diversi comuni del Casertano. In primo grado Cosentino, assistito dagli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro, era stato condannato a 9 anni di carcere (la richiesta era di 16 anni) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione camorristica, con sentenza pronunciata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il 17 novembre 2016, dopo oltre 140 udienze. La richiesta della Procura generale di Napoli, espressa nel corso dell’udienza dello scorso 9 dicembre, era di 12 anni di reclusione. Prima di oggi, l’ultima volta che il nome di Cosentino era ricomparso nelle pagine di cronaca giudiziaria era per l’assoluzione del 29 settembre 2020 nell’appello del processo ‘Il Principe e la Ballerina’. In quella occasione, esprimendo soddisfazione per la sentenza, Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini (capogruppo forziste a Montecitorio e Palazzo Madama) denunciarono il cattivo funzionamento della giustizia, descrivendo Cosentino come vittima di un processo politico. Oggi, dopo la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica, nessun forzista ha finora commentato.

Le accuse nei confronti dell’ex esponente di Forza Italia
La vicenda da cui nasce la condanna odierna è quella relativa al cosiddetto processo “Eco4” che descrive Cosentino – di questo sono convinti i magistrati della procura generale di Napoli che avevano chiesto 12 anni di carcere – come il referente politico nazionale del clan dei casalesi, con il quale l’ex sottosegretario avrebbe stretto un patto di ferro per ottenere appoggio elettorale in cambio di un contributo ai camorristi. Fra le accuse, da qui il nome dell’inchiesta, ci sono i presunti favori relativi all’appalto vinto nel 1999 dai fratelli Orsi, imprenditori ritenuti vicini al clan Bidognetti. La gara cui fa riferimento il processo è quella indetta dal Ce4, consorzio di 20 Comuni del Casertano che si occupava del ciclo dei rifiuti. Secondo i pm, è stato proprio Cosentino a permettere ai fratelli Orsi di associarsi al consorzio creando la società mista Eco4 che ottenne poi affidamenti diretti. Ma se in primo grado Cosentino è stato riconosciuto come il “referente nazionale del clan dei Casalesi” almeno fino al 2004, la Dda di Napoli ha presentato appello sostenendo che l’appoggio dell’ex sottosegretario ai Casalesi fosse andato avanti almeno fino al 2007-2008. Da qui la richiesta di una pena maggiore di quella decisa in primo grado. Un processo, quello a Cosentino, basato anche sulle parole dei collaboratori di giustizia, e che lo vede, stando alle accuse, come il dominus del Ce4, all’interno del quale l’ex sottosegretario avrebbe fatto assumere molta gente nei periodi pre-elettorali, così ‘controllando’ il risultato di varie elezioni, soprattutto nei Comuni rientranti nel bacino del consorzio. Il tutto, sempre stando ai pm, con la consapevolezza che i fratelli Orsi fossero vicini ai clan.

Le posizioni di pubblica accusa e difesa.
Argomentazioni, quelle della pubblica accusa, rintuzzate dagli avvocati difensori di Cosentino, Stefano Montone, Agostino De Caro ed Elena Lepre, convinti che non esistano segni della prestazione di un contributo di Cosentino al clan in 25 anni di attività politica. Per i legali, non c’è un solo segno di un effettivo contributo elettorale che la camorra avrebbe dato a Cosentino, anche perché in passato, quando il clan si è schierato a favore di un candidato alle elezioni politiche, gli esiti sono stati del tutto evidenti. E quest’accusa, voti in cambio di favori, hanno spiegato gli avvocati, è una delle gambe dell’accordo sinallagmatico che la procura sostiene, ma allo stato – secondo i difensori – non c’è traccia che Cosentino abbia ricevuto i voti della camorra, mentre per quanto riguarda i favori, i legali hanno rammentato non solo che nel frattempo Cosentino è stato assolto negli altri processi dove era imputato con l’aggravante mafiosa, ma anche che nelle decine di altri processi contro il clan dei Casalesi su appalti, grandi opere e così via, non è emerso nessun ruolo di Cosentino. Circostanza, questa, che per i legali porta a concludere che l’ex sottosegretario non può essere il referente nazionale dei Casalesi. Stando ai legali, inoltre, allo stato c’è solo il dato dell’interessamento di Cosentino nelle vicende della società mista Eco4, ma si tratta di vicende nelle quali Cosentino interviene nella sua qualità di politico. La società Eco4 – hanno argomentato i difensori di Nick ‘0 mericano – è il braccio operativo del consorzio Ce4, e questo, a valle delle elezioni del 1999, si sposta come riferimento dal centrosinistra al centrodestra, ed è dunque normale che Cosentino e Landolfi ne assumano il controllo, trattandosi di un organismo di tipo politico. Organismo che opera attraverso la Eco4 che Cosentino, hanno spiegato i legali, ‘eredita’, in quanto gli Orsi la costruiscono indipendentemente e prima che Cosentino si affacci sulla scena. Quanto alle fonti dichiarative, per i legali sono state chiaramente sconfessate. Da ultimo, a parte il ‘pentito’ Nicola Schiavone, figlio del capoclan dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone, che in aula si è contraddetto, anche altri collaboratori di giustizia, sostengono i difensori di Cosentino, sono stati smentiti. L’ultimo dei quali, Luigi Guida, che accusa Cosentino de relato, in una diversa sentenza è stato ritenuto inattendibile e mendace quando parla di un incontro al quale avrebbe fisicamente partecipato e che, in realtà, non si è mai verificato.

Condanne e assoluzioni: tutti i guai giudiziari dell’ex sottosegretario berlusconiano
Sono più d’uno i processi, le condanne e le assoluzioni per Nicola Cosentino, ex sottosegretario del governo Berlusconi. L’ultima sentenza in ordine di tempo prima di quella di oggi per concorso esterno, è datata 29 settembre 2020 ed è relativa al processo “Il principe e la scheda ballerina“, conclusosi con l’assoluzione. Ma ancora prima l’ex coordinatore campano di Forza Italia era stato assolto (in via definitiva) anche nel processo cosiddetto “Carburanti“. Cosentino, inoltre, ha anche subìto una condanna definitiva per aver corrotto un agente della polizia penitenziaria mentre era detenuto e un’altra, per diffamazione, nell’ambito dell’inchiesta “P3”. Nello specifico, l’ex sottosegretario è stato assolto nel processo d’appello “Il principe e la scheda ballerina” dall’accusa di tentativo di reimpiego di capitali illeciti, con l’aggravante mafiosa, in relazione alla costruzione di un centro commerciale (mai edificato) voluto dal clan dei Casalesi a Casal di Principe (in primo grado Cosentino era stato condannato a 5 anni dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). Nelle motivazioni alla sentenza di assoluzione, i giudici hanno evidenziato che Cosentino non aveva interesse a realizzare il centro commerciale, mentre le ricostruzioni dei collaboratori di giustizia (fra i quali Nicola Schiavone, figlio del capoclan dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone) sono state giudicate generiche, non riscontrate e in molti casi smentite in dibattimento.

Nel giugno del 2019, poi, Cosentino è stato assolto dalla Cassazione (che ha rigettato il ricorso della procura generale) nell’ambito del processo “Carburanti”. In questo caso l’ex sottosegretario era alla sbarra insieme ai fratelli Giovanni e Antonio e ad altri imputati, accusati a vario titolo di estorsione e concorrenza illecita aggravati dalle modalità mafiose. I fatti facevano riferimento all’azienda di famiglia dei Cosentino, l’Aversana Petroli. Nell’ottobre del 2018 già la Corte d’Appello di Napoli lo aveva assolto, mentre in primo grado Cosentino era stato condannato a 7 anni e sei mesi di carcere. Definitiva, invece, la condanna a 4 anni di reclusione per aver corrotto un agente della polizia penitenziaria del carcere di Secondigliano allo scopo di introdurre in cella generi alimentari, vestiti e un ipod. Infine, nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta “P3”, Cosentino è stato condannato a 10 mesi non per i reati connessi all’associazione a delinquere ma per diffamazione e violenza privata nei confronti dell’ex presidente della Regione Campania Stefano Caldoro.

Un anno fa l’esultanza di Gelmini e Bernini per l’assoluzione.
A settembre scorso, il nome di Cosentino fu utilizzato dai suoi colleghi di partito per rinvigorire la richiesta di riformare la giustizia italiana, storico cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi. “Dopo nove anni di calvario giudiziario, l’ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino è stato assolto in Appello da tutte le accuse di collusione con la camorra – disse in quella occasione Anna Maria Bernini – È uno dei casi più sconvolgenti di uso politico della giustizia, che conferma quanto sia urgente una profonda riforma che scongiuri il massacro preventivo di imputati che poi risultano innocenti”. Sullo stesso tono il commento della capogruppo di Fi alla Camera Mariastella Gelmini: “L’assoluzione di Nicola Cosentino, la cui colpa principale a quanto pare è stata di essere un dirigente e parlamentare di Forza Italia, è un emblematico esempio di malfunzionamento della giustizia, di uso improprio della custodia cautelare e di creazione di veri e propri processi politici. La vita di un uomo, la sua carriera politica, i suoi affetti – sentenziò la Gelmini – sono stati devastati dall’accusa di collusione con la camorra e dall’applicazione di una carcerazione preventiva per reati infamanti che non esistevano. Verrebbe da gioire, per Cosentino, per la sua famiglia, per la storia di Forza Italia e per il fatto che, giustamente, la Camera all’epoca respinse la richiesta d’arresto per l’evidente fumus persecutionis di quella inchiesta. Dopo nove anni però è difficile perfino gioire, nella consapevolezza che niente e nessuno potrà risarcire Nicola Cosentino e i suoi affetti”. A distanza di meno di un anno, però, per l’ex responsabile politico di Forza Italia in Campania è arrivata la condanna più pesante, per l’accusa più pesante, nel processo più complesso della vicenda giudiziaria di Nick ‘o mericano.

ILFQ

Concorso esterno, ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì condannato in appello a 6 anni: “Era a disposizione dei Messina Denaro”. - Marco Bova

 

La sentenza è stata emessa dai giudici della Corte d’Appello, al termine di un lungo iter processuale iniziato nel 2011.

L’ex senatore berlusconiano Antonio D’Alì è stato condannato a 6 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza è stata emessa dai giudici della Corte d’Appello, al termine di un lungo iter processuale iniziato nel 2011. “E’ stato il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”, ha detto il procuratore generale Rita Fulantelli, che al termine di una requisitoria durata due ore aveva chiesto la condanna a 7 anni e 4 mesi. La corte d’Appello inoltre lo ha interdetto per 3 anni dai rapporti con i pubblici uffici. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni. Il processo d’Appello bis ha avuto inizio dopo l’annullamento nel gennaio 2018 della Corte di Cassazione del precedente giudizio di assoluzione e prescrizione per i fatti precedenti al 1994. Anche in questo caso, come nel caso del processo d’appello a Nicola Cosentino concluso oggi, se fosse stata in vigore la riforma Cartabia sulla prescrizione, la sentenza non sarebbe stata pronunciata perché sarebbe già stato superato il limite di 3 anni previsti dal disegno di legge della ministra per reati di mafia.

Nel corso del processo, per la prima volta, sono sfilati una ventina di testimoni, alcuni finora mai ascoltati in aula, nel tentativo di colmare “cadute logiche” evidenziate dalla Suprema Corte nel primo giudizio di appello pronunciato nel 2016. Tra le “lacune” da colmare c’era soprattutto la “cesura illogica della suddivisione netta in due periodi”, pre e post 1994, che sia in primo grado che in Appello, era stato fissato con la data dell’ultimo assegno consegnato da D’Alì a Francesco Geraci, amico del latitante di Castelvetrano, per una compravendita fittizia di un terreno in contrada Zangara, la stessa in cui lavorava don Ciccio. Un episodio accertato da tutte le sentenze finora emesse, seppur coperto da prescrizione, che data all’indomani delle Stragi del ‘92 il link tra D’Alì e l’ultimo ricercato di Cosa Nostra.

“Con il suo operato ha consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa Nostra – ha detto il pg durante il suo intervento – mettendo a disposizione le proprie risorse economiche e successivamente il proprio ruolo istituzionale di Senatore della Repubblica e di Sottosegretario di Stato”. A partire dalle discusse elezioni politiche del 1994, D’Alì ha seduto per vent’anni in Senato, più volte rieletto nel suo feudo elettorale. Da alcuni anni il politico trapanese, adesso 69enne, si è defilato dalla politica e recentemente la Cassazione ha confermato la revoca della misura di prevenzione dell’obbligo di dimora nella sua città, dopo un anno di effettive limitazioni. Tra gli episodi affrontati nel corso del processo d’Appello bis, c’era la vicenda della ‘Calcestruzzi Ericina’, l’azienda confiscata al boss Vincenzo Virga, ed il trasferimento del prefetto Fulvio Sodano, ratificato in Consiglio dei Ministri l’1 luglio 2003. Secondo l’accusa, l’obiettivo di Cosa Nostra, attraverso D’Alì, era quello di “estromettere la Calcestruzzi Ericina attraverso escamotages” e “condizionare il mercato del calcestruzzo” in favore delle imprese vicine, per “svuotare l’Ericina”, fin quando un imprenditore amico avrebbe l’avrebbe acquisita “con la benedizione della Prefettura, ma l’opposizione di Sodano bloccò tutto”. Ma anche del tentativo di allontanare capo della Squadra Mobile di Trapani, Giuseppe Linares. Che alla fine del 2010 fu davvero trasferito ma i fatti contestati riguardano gli anni precedenti.

Sul trasferimento di Sodano i giudici hanno ascoltato tre testimoni di spessore come l’ex ministro Beppe Pisanu, l’ex presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro ed il prefetto Carlo Mosca, capo di gabinetto di Pisanu. Testimonianze che non avevano convinto la Procura generale, né la corte d’Appello, che ha disposto la trasmissione dei loro interrogatori alla Procura per falsa testimonianza. Nel corso delle indagini, i magistrati riuscirono ad interrogare il prefetto Sodano, all’epoca costretto ad una mobilità ridotta a causa di una grave malattia e morto nel febbraio 2014. “Mi rivolsi al Presidente della Regione (Cuffaro) chiedendogli di accertare il vero motivo del trasferimento, dopo qualche giorno lo stesso mi riferì che si era fatto ricevere da Pisanu il quale gli aveva detto che dopo aver resistito alle pressioni del D’Alì alla fine aveva dovuto cedere alle insistenze del sottosegretario che pur sempre era uno dei suoi più stretti collaboratori”, raccontò Sodano il 19 aprile 2007.

Nel corso del processo la Corte ha ascoltato anche il collaboratore di giustizia Antonino Birrittella, che ha riferito dei rapporti l’intervento di D’Alì in diversi appalti pubblici, tra cui quelli per il rifacimento del porto di Trapani, che portarono alla Louis Vuitton Cup, e le procedure in favore del Consorzio Trapani Turismo, formato da imprenditori sfiorati da indagini antimafia. Ma anche l’ex collaboratore di giustizia, Giovanni Ingrasciotta, per cui la procura generale, al termine della requisitoria, ha chiesto la trasmissione degli atti per falsa testimonianza. Nonostante in fase di indagini avesse parlato dei rapporti tra D’Alì e Matteo Messina Denaro, raccontando anche di un incontro tra i due, successivo al periodo delle Stragi, nel corso della sua audizione ha glissato ad alcune domande, rispondendo con molti “non ricordo”. “Purtroppo signor procuratore, nella vita sa com’è? – ha detto in aula, prima di riferire di alcune presunte minacce subite in seguito alle sue dichiarazioni su D’Alì. – Ci sono momenti che nella vita uno non si ricorda neanche come si chiama, come adesso”. Anche il suo interrogatorio sarà trasmesso per falsa testimonianza alla Procura di Palermo.

Per l’avvocata di D’Alì Arianna Rallo quest’ultima sentenza “desta profonda sorpresa” perché, sottolinea, “tutte le acquisizioni probatorie di questo giudizio di rinvio hanno rinforzato la tesi difensiva e avvalorato la correttezza delle motivazioni del gip del Tribunale di Palermo”. Rallo sottolinea che “nel doveroso rispetto che attribuiamo ad una decisione giudiziaria, attendiamo le motivazioni per comprendere quale sia stato l’iter logico-argomentativo che ha condotto la Corte di Appello ad una diversa valutazione dei fatti e se lo stesso possa dirsi esente da vizi di legittimità, giustificanti ovviamente il ricorso per cassazione. Peraltro, la recentissima statuizione della Corte di Cassazione, dello scorso 17 giugno, che ha irrevocabilmente giudicato ingiusto e illegittimo che Antonio D’Alì sia stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale da parte del Tribunale di Trapani, deponeva certamente per una valutazione dei fatti corrispondente alla prospettazione difensiva”.

ILFQ

martedì 2 dicembre 2014

Alemanno indagato per mafia; a Roma sotto inchiesta consiglieri Pd e Fi. - Giovanna Trinchella

Alemanno indagato mafia, a Roma sotto inchiesta consiglieri Pd e Fi

Trentasette arresti nell'inchiesta del Ros. In manette Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana. Agli indagati gli inquirenti, coordinati da Giuseppe Pignatone, contestano, a vario titolo, anche estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio.

“È la teoria del mondo di mezzo compà. …. ci stanno . . . come si dice . . . i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo … e allora …. e allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano… come è possibile… che ne so… che un domani io posso stare a cena con Berlusconi”. Parola di Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana, numero uno dell’organizzazione criminale decapitata dagli uomini del Ros.
Un gruppo, chiamato Mafia Capitalecapace infiltrarsi e fare business nella gestione di centri di accoglienza degli immigrati e campi nomadi, finanziare cene e campagne elettorali, come quella dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, coinvolgere nella loro rete politici di destra e di sinistra. Come, oltre all’ex primo cittadine dell’Urbe indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso, il presidente dell’Assemblea Capitolina, Mirko Coratti e il consigliere regionale Eugenio Patanè, entrambi del Pd, e il consigliere comunale Luca Gramazio (Forza Italia) o anche sedurre l’assessore alla casa Daniele Ozzimo (Pd), assessore alla Casa, che si è dimesso dicendo: “Sono estraneo ai fatti ma per senso di responsabilità rimetto il mio mandato”. Stesso tono la dichiarazione di Alemanno: “Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della  magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti”.
Una immagine, quella di Roma dominata da criminali possono dire “comandiamo sempre noi“, che si svela con un’inchiesta, battezzata proprio Mondo di Mezzo e che ha portato in carcere 28 persone e ha fatto finire nel registro degli indagati il nome un centinaio di persone. Cui gli inquirenti, coordinati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, contestano a vario titolo, l’associazione a delinquere di stampo mafioso, anche estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati. 
“È una organizzazione mafiosa, usa il metodo mafioso” spiega il procuratore capo. Mafia Capitale è capace “di elaborare equilibri e sinergie”. Tanto che, cambiata la giunta dopo le elezioni comunali che hanno portato Ignazio Marino alla guida del Campidoglio, Carminati ordina a Salvatore Buzzi numero uno della cooperativa “29 giugno”, appartenente all’universo Legacoop: “Bisogna vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna vendersi come le puttane ades…adesso e allora mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi amico mio, eh… capisci”. Gli inquirenti, infatti, hanno documentato unsistema corruttivo per l’assegnazione di appalti nel settore ambientale e delle politiche sociali e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate.
“Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è –  prosegue Pignatone – non c’è una unica organizzazione mafiosa” capace di controllare l’intero territorio, quella “di cui stiamo parlando dimostra originarietà e originalità, proprio perché nasce nella capitale” e dimostra che “le mafie sono cambiate non ricorrono alla violenza e al controllo del territorio se non necessario per creare assoggettamento”.  E, dice il procuratore, “alcuni uomini vicini all’ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell’organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma Carminati e Buzzi erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni“.
Il giudice per le indagini preliminari ha invece rigettato la richiesta di misura cautelare nei confronti di Gennaro Mokbel e Salvatore Forlenza, che sono comunque indagati. Tra gli arrestati anche l’ex ad dell’Ente Eur, Riccardo Mancini. È in alcuni intercettazioni, tra Mancini e Carminati, che è venuto fuori il nome dell’ex primo cittadino già esponente di Alleanza Nazionale e ora Fratelli d’Itali. Ed è Carminati che, secondo gli inquirenti, “individua e recluta imprenditori… mantiene i rapporti con altri esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma nonché esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti”. I carabinieri hanno perquisito gli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio per acquisire documenti gli uffici della Presidenza dell’Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio. Contemporaneamente la Guardia di Finanza ha eseguito un decreto di sequestro di beni riconducibili agli indagati, emesso dal tribunale di Roma, per un valore di 200 milioni di euro.
In manette anche Riccardo Brugia (in passato arrestato per rapina e vicino agli ambienti del Nar), Roberto LacopoMatteo CalvioFabio Gaudenzi (con precedenti per rapina), Raffaele BracciCristiano GuarneraGiuseppe IettoAgostino Gaglianone, Salvatore BuzziFabrizio Franco TestaCarlo Pucci (ex dirigente Ente Eur), Franco Panzironi (ex amministratore delegato Ama), Sandro Coltellacci, Nadia CerritoGiovanni FisconClaudio CaldarelliCarlo Maria GuaranyEmanuela BugittiAlessandra GarronePaolo Di NinnoPierina Chiaravalle, Giuseppe MoglianiGiovanni LacopoClaudio Turella (ex responsabile Servizio giardini del comune), Emilio Gammuto, Giovanni De CarloLuca Odevaine (ex vice capo di gabinetto dell’ex sindaco di Roma Veltroni e capo della polizia provinciale). Il gip ha disposto gli arresti domiciliari per Patrizia CaracuzziEmanuela Salvatori, Sergio MenichelliFranco CancelliMarco PlacidiRaniero Lucci, Rossana CalistriMario Schina.