L’obbligo vaccinale è l’ultimo rifugio di chi non sa più che pesci prendere. Compreso Alessio D’Amato, assessore alla Sanità del Lazio – regione modello nella somministrazione delle fiale – che sollecita un atto d’imperio del governo per arginare la variante Omicron e l’offensiva no-vax. Peccato che, come per tutti gli estremi rimedi, bisognava pensarci un attimino prima, quando i mali non erano così estremi. Quando, cioè, si accertò che nella campagna di vaccinazione passavano i mesi ma non si riusciva a coprire quella quota del 20 per cento indifferente se non apertamente ostile a ogni sollecitazione della medicina e dei poteri costituiti. Eravamo all’inizio di agosto e si preferì aggirare lo scoglio con l’istituzione del Green pass che, tuttavia, non fece altro che duplicare i problemi e gli argomenti dei protestatari. Poiché a chi contestava la presunta dittatura sanitaria si unirono, Costituzione alla mano, i combattenti delle libertà conculcate, a loro avviso, dal passaporto verde. Fu l’autunno dell’assalto fascista alla sede della Cgil, dei portuali di Trieste convinti di girare il seguito della corazzata Potëmkin, dei cortei nei centri storici osteggiati dai negozianti imbufaliti. Tutte manifestazioni rientrate in casa complice l’arrivo di un inverno piuttosto inclemente. Con qualche eccezione, tipo l’irruzione dei medici no-vax nella sede dell’Ordine di Roma, rinfocolato a quanto sembra da ruggini pregresse tra gli iscritti. Tutto questo per dire che se alla richiesta dell’assessore D’Amato dovessero seguire i fatti, no-vax e no-pass avrebbero uno straordinario pretesto per tornare a fare un casino triplo. E poi siamo sicuri che il campione del mondo dei rospi ingoiati Matteo Salvini possa mandarne giù anche uno di tali dimensioni? Senza contare che un obbligo è tale se viene fatto rispettare. Controlli a campione, si dice, e se non ti sei vaccinato paghi un’ammenda. Figuriamoci che paura. Con l’avanzata di Omicron molto probabilmente ci si limiterà a dare un’altra stretta al Green pass. Difficile prevedere qualcosa di più energico, e impopolare, con l’elezione del nuovo capo dello Stato alle porte. Quirinal pass.
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 21 dicembre 2021
Cosa fatta capo non ha. - Marco Travaglio
Roma, domenica pomeriggio: una donna-iena insulta due ragazzi che, in una strada semideserta del centro, osano camminare senza mascherina. Quelli accennano a rispondere che sono all’aperto senza folla intorno. Ma poi, terrorizzati dal climax vocale dell’erinni, estraggono di tasca l’ffp3, mentre quella si allontana maledicendo la gioventù di oggi. Uno mi riconosce e mi chiede chi ha ragione. Panico. Controlliamo sul loro smartphone (io ho un vecchio Nokia), digitando su Google le parole chiave. Apriti cielo: c’è tutto e il contrario di tutto. Il sindaco che annuncia l’obbligo di mascherina, ma solo nelle vie dello shopping e nei giorni delle feste; articoli che dicono che è già in vigore, altri che lo sarà, altri che scatta tra poco; dichiarazioni dell’assessore regionale che chiede al governo di fare di più (ma di più rispetto a cosa? boh). Alla fine facciamo la media e ci regoliamo sul buonsenso: mascherina solo in luoghi affollati, con buona pace di Mrs. Iena.
Quando si insediò il governo Draghi, ci fu assicurato che questi erano Migliori, mica come i peggiori di prima: questi parlano solo a cose fatte, basta annunci, detti e contraddetti, cacofonie di esperti veri o presunti che vanno in tv a spacciare opinioni per leggi e disorientano la gente. Invece, mai visto tanto casino. Ah, quelle belle conferenze stampa quotidiane di Borrelli, affiancato ora da Brusaferro, ora da Locatelli, ora da Rezza! E quegli appuntamenti serali o notturni con Conte che, a ogni dpcm, ci metteva la faccia e veniva a spiegarci cosa aveva fatto e perché, cosa dovevamo fare e perché. Ora Draghi fa piovere tutto dall’empireo, forse perché nessuno riuscirebbe a spiegare – restando serio – astruserie come il combinato disposto fra Green Pass per lavorare (o Super turbo diesel) e il tampone per vaccinati alle frontiere. Meglio non metterci la faccia per non perderla e mandare avanti i ministri che non decidono nulla. E briglia sciolta al Cts, dove non si trovano due scienziati che la pensino uguale; più il viceministro Costa e il sottosegretario Sileri (cane a gatto); più i consulenti di Speranza: Ricciardi (mai d’accordo con Speranza) e Zampa (sempre d’accordo con Speranza); più Rasi, “consulente di Figliuolo” (tra virgolette per evitare querele dall’interessato, che si spera non sia mai d’accordo col generalissimo, ma non ce lo dica per carità di patria); senza contare l’esercito di virologi ed epidemiologi sfusi. A sentirli parlare, c’è chi s’è convinto che da settembre abbiamo l’immunità di gregge, che siamo primi al mondo per vaccini e ultimi per morti e contagi, che il vaccino rende invulnerabili e i tamponi sono una cosa brutta. Infatti ora sente parlare di tamponi ai vaccinati e sta pensando seriamente al suicidio.
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sabato 18 dicembre 2021
Miseria fatale nel “Paese dell’anno”. - Antonio Padellaro
Fra poco è Natale, le vetrine illuminate, i doni per i più piccini, gli zampognari nelle vie e, come da tradizione, arriva il maxi-emendamento del governo, quel superpanino farcito a strati dove si trova di tutto e di più. Ma non era in odore di incostituzionalità, puntualmente deplorato dai vari inquilini del Quirinale? Certo che sì, ma la tradizione va rispettata, ci mancherebbe.
Fra poco è Natale, in tv stanno per ridare La vita è meravigliosa di Frank Capra e tutti ci sentiamo più buoni. Infatti, in un campo nomadi del Foggiano, fratello e sorella di 4 e 2 anni muoiono carbonizzati nell’incendio di una baracca. Andata a fuoco come tutte le altre innumerevoli baracche, che con il freddo, in questi luoghi abbandonati e dimenticati, si accendono improvvisamente in scoppiettanti falò. Anche in questo caso il papà era nei campi a raccogliere gli ortaggi, arruolato da quelle consuetudinarie figure che popolano il nostro amato Sud: i caporali provvisti di agganci ministeriali.
Nel rispetto della più limpida tradizione, anche la protesta del sindaco che “aveva portato a conoscenza delle Autorità competenti la situazione”, ricevendone il tradizionale chissenefrega. Fra poco è Natale, e nel mentre addobbiamo l’alberello e prepariamo devoti il santo presepe, ci giunge notizia di altri incidenti sul lavoro con quattro morti (due erano operai in nero).
Una tradizione questa che ci accompagna per tutto l’anno a rammentarci il costume di casa: girare la testa dall’altra parte (possibilmente senza casco protettivo).
Chissà che non sia questo il vero e più profondo significato del premio con cui l’Economist ha incoronato l’Italia “il Paese dell’anno”. Ovvero, la nostra incomparabile capacità di mostrarci cambiati agli occhi degli altri rimanendo immutabilmente noi stessi.
Nel rispetto delle feste comandate e delle tradizioni. Moderni, sì, ma restando sempre antichi. Ora come allora. Perché, come cantava Renato Carosone: “Mò vene Natale, nun tengo denare, me leggio ’o giornale, e me vado ’a cucca’”.
La sentenza e i tifosi. - Marco Travaglio
Accusati di essere troppo cattivi con Mimmo Lucano, dalle motivazioni della sua condanna a 13 anni e 2 mesi scopriamo di essere stati troppo buoni. Avevamo definito l’ex sindaco di Riace un gran pasticcione. Invece i giudici del Tribunale di Locri lo considerano un gran furbacchione, dotato di “furbizia travestita da falsa innocenza”. La sentenza ne ha per tutti: per chi, a destra, aveva scambiato la condanna di Lucano per quella del suo sistema di integrazione, che invece i giudici elogiano (“encomiabile progetto inclusivo dei migranti… invidiato e preso a esempio da tutto il mondo”); e per chi, a sinistra, non si limitava a criticare la pena eccessiva senza attenuanti, ma sproloquiava di complotti politici e persecuzioni giudiziarie senza aver letto una riga delle carte. Che invece ai giudici che le han lette e valutate fanno dire tutt’altro: il sindaco, “resosi conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti” per i progetti di accoglienza dei migranti, “piuttosto che restituire ciò che veniva versato” in sovrappiù, “aveva pensato di reinvestire in forma privata gran parte di quelle risorse, con progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti”. Sono, appunto, i reati per cui è stato processato e condannato in primo grado: peculato, truffa, falso, fatture fittizie, abuso e associazione a delinquere.
I fondi pubblici eccedenti (dello Stato e dell’Ue), dietro lo schermo di fatture fasulle e falsi giustificativi, venivano trasformati in “illeciti profitti” e investiti per finalità “private”: un viaggio in Argentina con la compagna e soprattutto “l’acquisto di un frantoio e di numerosi beni immobili da destinare ad alberghi per turisti”. Con due obiettivi: “Strumentalizzare il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica” e del “sostegno elettorale” e assicurarsi “una forma sicura di suo arricchimento personale, su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato… come dallo stesso rivelato nelle (intercettazioni) ambientali esaminate”. Segue la lista degli infiniti magheggi per camuffare le spese con fondi pubblici: un quadro desolante di mala amministrazione che nulla ha a che fare con l’accoglienza, anzi la sfrutta e la infanga. Ora le opposte tifoserie resteranno coi loro pregiudizi. Speriamo almeno di non sentir più ripetere che è tutto un complotto, che stata punita la solidarietà, che è giusto truccare appalti e agguantare milioni pubblici con false fatture “a fin di bene”. Altrimenti tagliamo la testa al toro e mandiamo B. al Quirinale.
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Marano senza cuore né luce. Qui la camorra s’è fatta Stato. - Antonello Caporale
Più commissari che sindaci: tutto è finito. Nuvoletta e Bardellino clan dopo clan, anno dopo anno, la città è stata dissanguata: l’acqua che manca, i bus fermi, le luci spente, le strade bucate.
Prima è stata chiusa la mensa scolastica, poi ha iniziato a singhiozzare l’acqua potabile. Poi le strade si sono spente, ed è venuto il buio. Infine i bus: finito il gasolio, finite le corse. Marano è una specie di Napoli 2, ma senza le bellezze di Napoli, senza i talenti di Napoli, senza i colori, l’arte, la musica di Napoli.
È come se ne avesse colto, fior da fiore, solo i difetti, e avesse conquistato il cuore dei malandrini fino a divenirne un po’ la capitale.
Marano non è una città, ma un’escrescenza di Napoli. Qui le famiglie in cerca di un alloggio più economico e magari di una vita più quieta si sono dirette – inconsapevoli del trauma – dopo il 1980, l’anno che dà avvio all’età della transumanza seguita al terremoto che devastò la metropoli partenopea.
Appena oltre la collina dei Camaldoli, nella discesa che poi porta alla piana di Giugliano, Marano si è gonfiata fino a divenire una città di sessantamila abitanti. Sembrava un posto tranquillo e nessuno approfondiva i motivi. In effetti qui non si rubava, non si spacciava droga, c’era un ordine nel disordine perché il padrone, cioè la famiglia Nuvoletta, cioè il clan di elevatissimo spessore criminale e perciò l’unico ad essere associato, con benemerenza, nella cupola di Cosa nostra, esigeva silenzio negli affari e pulizia chirurgica nelle vendette e nei repulisti. Cento morti in un trentennio, ma uccisi senza schizzi di sangue sulle vetrine di corso Italia, la strada del centro del centro, intorno a cui tutto ruota, senza bossoli sull’asfalto, senza scooteroni esagerati guidati dalle truppe d’assalto: “Nessuna baraonda per le strade, nessuna stesa. Morivano fra loro, diciamo”, racconta Andrea Caso, deputato 5Stelle che qui è eletto. Un centinaio di ammazzati. E che sarà mai?
Dopo i Nuvoletta sono giunti i Polverino e dopo i Polverino gli Orlando. Clan dopo clan, anno dopo anno, la città è stata piano piano dissanguata ed è infine perita sotto i colpi della criminalità costituita a Stato, riverita e persino rappresentata nel Consiglio comunale. E così non solo i servizi essenziali sono finiti, l’acqua che manca, i bus fermi, le luci quasi spente, le strade bucate, le scuole senza mensa. Non solo tutto questo. Marano infatti appare oggi un unico volume urbano senza cuore né luce, un enorme cubo di cemento, una non città. Pare semplicemente un gonfiore dello stomaco di Napoli.
“Avemmo la fortuna di poter ottenere un collegamento con Napoli su ferro, il microtram, che avrebbe tolto dalle lamiere di auto incolonnate da mattina a sera un sacco di gente. I poteri forti, quelli oscuri e obliqui si opposero”, ricorda Domenico Rosiello, narratore locale delle cronache dei malandrini eterni. “Guarda là, vedi quei palazzi? Furono costruiti nei luoghi in cui doveva sorgere la strada ferrata, edificati in modo che non ci fosse più il corridoio utile, e tutto è finito”, spiega Caso. Addio tram, addio bus. O incolonnati o niente.
Tutto è finito perché la criminalità si è fatta Stato deliberando le sue scelte urbanistiche e qui ha infatti anche corso alle elezioni. Criminalità associata, o solo amica, o parente o cliente. Criminalità, diciamo così, di centrodestra e centrosinistra. Criminalità turbo amministrativa, civica e laica. Marano ha subìto negli anni quattro scioglimenti del Consiglio comunale, l’ultimo a luglio scorso in ragione del fondato sospetto che l’amministrazione guidata da Rodolfo Visconti, eletto anche grazie ai voti del Pd, fosse infiltrata dalla camorra, si fosse piegata alla camorra. E Visconti era stato chiamato al municipio dopo un commissariamento prefettizio che aveva divelto l’amministrazione precedente, questa volta a trazione centrodestra (vice sindaco un’esponente di Fratelli d’Italia).
“Marano è questa qua, schiava del crimine, esposta alle bande, insolentita dalla violenza. Marano è una città con una democrazia indigente, ingracilita dalle percosse che ha subito. La gente si è acclimatata alla legge dei fuorilegge soprattutto per paura che pure è un sentimento umano, comprensibile. E ha lasciato sopraffarsi. Io non mi sono arresa e domani proviamo a scendere in piazza, a far vedere che esiste un profilo civile, una integrità nascosta ma non assente. C’è tanta gente perbene”. È Stefania Fanelli, cassiera all’Ikea a 24 ore settimanali (“guadagno ottocento euro al mese, al di sotto del minimo vitale, ma resisto”) a capeggiare il principio di rivolta civile, a provare, e oggi si vedrà se la piazza sarà riempita, che c’è voglia di conquistare speranza, di chiedere che il diritto non divenga un sempiterno rovescio.
Marano in effetti è il centro di gravità permanente della perdizione. Anche se non sembra, perché è brutta il giusto, cioè né più né meno di tante altre città cresciute nel disordine, e la violenza si sente ma non si vede, è l’obelisco intorno al quale ciascuno ha esibito i suoi trofei. Sciolta l’amministrazione di Marano? Ma sciolta (nel 2018) anche quella di Calvizzano, che gli sta di fronte, e quella di Giugliano (anno 2013) che gli sta di fianco, e quella di Villaricca (1993 e 2021), all’altro lato e quella di Sant’Antimo (nel 1991 e ancora l’anno scorso) e poi quella di Quarto (1991 e 2013).
Più commissari che sindaci, nella grande piazza del crimine che è questo esubero di Napoli, uno sfogo della città verso la piana che qui ha trovato sabbia buona e calcestruzzo, il business elettivo della dimensione industriale criminale. “Con i Nuvoletta a Marano non si poteva distribuire droga, non si spacciava. Il capo clan voleva che la sua città fosse vergine da questo punto di vista”, ricorda il deputato grillino.
Lo spaccio è stato assente per qualche anno, però purtroppo anche le fogne, che a differenza della cocaina e dell’eroina, non si sono mai più viste. Dice Domenico: “Un buon sessanta per cento del territorio sversa nei pozzi, e non è difficile immaginare in quali condizioni sia il sottosuolo tra discariche abusive e autorizzate, fogne bianche e fogne nere”.
Marano di sopra e di sotto. Solenne, triste e dimenticata testimonianza del crimine al governo.
Graviano: “C’è la carta del patto firmato da B.” - Marco Lillo
FIRENZE - Il boss rivela ai pm: “Il nonno mi disse che Berlusconi gli aveva chiesto un investimento di 20 miliardi di lire per le sue attività. Mio cugino mi mostrò l’atto privato”.
Eccoli i verbali di Giuseppe Graviano su Berlusconi. Portano la data del 20 novembre 2020 e del 1º aprile 2021. Sono stati depositati dai pm di Firenze che indagano su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per l’ipotesi (enorme e tutta da dimostrare) che l’ex premier e l’ex senatore di FI abbiano avuto un ruolo di mandanti esterni nelle stragi del 1993 che costarono la vita a dieci persone a Milano e Firenze e negli attentati del 1993 contro le Basiliche e Maurizio Costanzo a Roma.
Il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, e i due aggiunti, Luca Turco e Luca Tescaroli, hanno sentito il boss come ‘persona condannata per reato connesso’ essendo già condannato per quei fatti.
Le affermazioni di Graviano sono tutte da riscontrare. Nel febbraio 2020, quando parlò al processo ‘Ndrangheta Stragista’ l’avvocato dell’ex premier Nicolò Ghedini tuonò: “Dichiarazioni totalmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà e palesemente diffamatorie”. La Corte di Reggio che ha condannato Graviano per altri fatti, scrisse in sentenza che le sue dichiarazioni su Berlusconi sono prive di riscontro.
Fatte queste premesse, per dovere di cronaca, non si può non riportare quanto Graviano ha dichiarato su Berlusconi che è pur sempre un candidato alla Presidenza della Repubblica. Ieri L’Espressone ha anticipato alcuni stralci, qui proponiamo il testo esteso del verbale del 20 novembre 2020. Quando i pm gli chiedono: “Riferisca in ordine a eventuali rapporti economici con Berlusconi e Dell’Utri”, il boss risponde: “Mio nonno Quartararo Filippo, che lavorava nel settore ortofrutticolo, mi raccontò che aveva conosciuto Silvio Berlusconi attraverso un tramite il cui nominativo non conosco; Berlusconi gli aveva richiesto di operare un investimento di 20 miliardi di lire per le sue attività, con l’intesa di una partecipazione al 20% a tutte le attività e ai proventi derivanti da tale investimento.
Mio nonno (…) non aveva a disposizione la somma intera e allora si rivolse ad alcuni conoscenti coinvolgendoli nell’operazione. Mio nonno investì l’importo di 4,5 miliardi di lire; le altre persone che investirono denaro insieme a lui erano Alfano Carlo per l’importo di 10 miliardi di lire, Serafina, moglie di Salvatore Di Peri, Antonio La Torre detto Nino il pasticcere e Matteo Chiazzese, per l’importo residuo. (…) Mio nonno – prosegue Graviano – mi ha raccontato di tale vicenda dopo la morte di mio padre avvenuta il 7 gennaio 1982; egli mi disse che mio padre non aveva voluto sapere nulla di questa situazione e mi chiese di occuparmene insieme a mio cugino Salvatore Graviano (morto nel 2002, ndr). Io e mio cugino ci siamo rivolti a Giuseppe Greco, papà di Michele (detto Il Papa, boss condannato al Maxiprocesso, ndr), per essere consigliati da lui, ed egli ci invitò a coltivare il rapporto iniziato dal nonno”. Qualche mese dopo, prosegue il boss, “mio nonno portò me e Salvatore a Milano ad incontrare Silvio Berlusconi. L’incontro avvenne all’Hotel Quark (..) presso tale hotel sono tornato per festeggiare il cenone di fine anno 1990/1991 nel corso del quale vi erano ballerine sudamericane (…). Mio nonno ha consegnato a mio cugino Salvatore una ‘carta’ che quest’ultimo mi mostrò: era firmata da Berlusconi e da tutte le persone che avevano effettuato l’investimento e prevedeva l’impegno di condividere il 20% di quanto era stato realizzato con l’investimento iniziale. La carta era stata predisposta da un professionista, non so dire se un notaio, un avvocato, un commercialista. Mi pare di ricordare che alcuni degli investitori avevano come professionista di fiducia l’avv. Canzonieri. L’intendimento mio e di mio cugino è sempre stato quello di ottenere da Berlusconi la formalizzazione dell’accordo. L’ultimo incontro che ho avuto con Silvio Berlusconi è avvenuto nel dicembre 1993, nel corso del quale ci accordammo per formalizzare l’accordo di partecipazione societaria davanti ad un notaio per la data mi sembra del 14 febbraio 1994. Tale incontro avvenne in un appartamento, presso Milano 3, che Berlusconi aveva messo a disposizione di mio cugino Salvo; Berlusconi era accompagnato da due persone di cui non so riferire niente.
Era un appartamento posto al primo o al secondo piano di una palazzina; dalla finestra posta sul retro (rispetto all’ingresso) dell’appartamento si vedeva una caserma dei carabinieri; sul davanti della palazzina la strada si attraversava per il tramite di un ponticello (ve n’era più di uno) che conduceva a uno spazio antistante a una piscina e più avanti vi era un albergo e un esercizio commerciale (…) era un appartamento piccolo, forse un paio di stanze, era al primo o al secondo piano e c’era l’ascensore (Omissis)”. Poi Graviano teorizza: “Sono convinto che io e mio cugino Salvatore siamo stati arrestati per impedirci di formalizzare l’accordo economico di cui ho riferito con Silvio Berlusconi; e le stragi sono cessate per addossare tutte le precedenti a me”. Poi i pm propongono a Graviano alcuni passi delle sue conversazioni intercettate in carcere nel 2016. Alla domanda dei pm “Si riferiva a Berlusconi?”, Graviano risponde deciso: “Sì”. Poi i pm gli chiedono a bruciapelo: “Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi”. Graviano replica: “Non lo so se è stato lui” e segue un omissislungo. I pm Creazzo, Turco e Tescaroli tornano in cella a Terni il primo aprile. In questo secondo interrogatorio chiedono dove sta la carta dell’accordo “firmato da Silvio Berlusconi e dagli altri investitori, che prevedeva l’impegno di condividere il 20% di quanto era stato realizzato con l’investimento di 20 miliardi di lire, di cui ha parlato nel precedente verbale?”. E Graviano: “Questo documento era in possesso di mio cugino Salvatore; mi devo sentire con dei miei parenti che devono mettermi nelle condizioni di recuperare il documento; non ho interesse a recuperare il denaro, ma solo a far rispettare l’impegno e a far emergere la verità. Mi si chiede chi siano queste persone e dico che non intendo fornire il nominativo di costoro, con le quali peraltro teneva i contatti mio cugino Salvo”.
Nell’interrogatorio integrale registrato si legge che il pm Turco chiede: “Lei l’ha vista questa carta privata?”. Graviano: “Sì sì sì l’ho vista”. Turco chiede: “E cosa c’era scritto in questa carta?”. Graviano replica: “Che prima possibile dovevano regolarizzare la società facendo entrare il signor Alfano c’era la cifra precisa il 10 per cento … mio nonno il 4,5 … divise queste con Berlusconi”.
Dal verbale sintetico si apprende che i pm il primo aprile scorso hanno chiesto di nuovo a Graviano dell’appartamento di Milano 3 dopo un’ispezione a Basiglio, nel residence, della Dia. “Si dà atto che, nel corso dell’interruzione, Graviano – si legge nel verbale – ha visionato i video (suddivisi in 31 frame) realizzati a Milano 3 (…)”. Graviano commenta “il residence che ho appena visionato nelle immagini è quello da me indicato, anche se non riesco individuare esattamente l’appartamento; vi chiedo di effettuare una ripresa che evidenzi l’accesso allo stabile; nell’uscire dallo stesso si arriva alla portineria, si esce si gira a sinistra ricordo che sulla destra ci sono delle siepi, si attraversa un ponte pedonale e tramite un viadotto piccolino che si percorre a piedi tra due stabili, si arriva ad uno spiazzo dove c’era una piscina”.
I pm tornano a parlare del nonno: “Come furono consegnati a Berlusconi i soldi? Chi fece da tramite? Berlusconi era a conoscenza della provenienza di tali soldi?”. Graviano tentenna: “Non lo so, io sono intervenuto soltanto nel 1982; mio nonno non penso che abbia conosciuto direttamente Berlusconi; ha avuto un tramite; anzi in sede di verbalizzazione riassuntiva preciso che il tramite è la persona che ha fatto conoscere a mio nonno, Berlusconi; i due, mio nonno e Berlusconi, si conoscevano”. I verbali di Graviano sono stati depositati al Tribunale del Riesame. L’avvocato Mario Murano ha impugnato i decreti di perquisizione nell’interesse dei fratelli Nunzia e Benedetto Graviano (terzi non indagati). Al Fatto dice: “Dopo decenni si continua a compiere attività intrusiva nei confronti dei miei assistiti che non hanno nulla a che fare con le indagini in corso e non risultano depositari di alcun documento segreto”.
venerdì 17 dicembre 2021
“Torture sistematiche sulle persone con disabilità”: 17 arresti in una onlus di Palermo. Le intercettazioni: “È un lager nazista”.
Le indagini sulla casa di cura Suor Rosina La Grua di Castelbuono. La Guardia di Finanza ha eseguito un’ordinanza cautelare nei confronti di 35 persone accusate, a vario titolo, di tortura, maltrattamenti, sequestro di persona, corruzione, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, malversazione e frode nelle pubbliche forniture. Il gip ha anche disposto il sequestro della casa di cura e di disponibilità finanziarie per un valore di oltre 6,7 milioni di euro.
“Gli ospiti del centro sono sottoposti ad un regime di vita che non è eccessivo definire contrario al principio di umanità“. E ancora: “Scontano quotidianamente la pena della loro disabilità con il loro essere sottoposti a torture sistematiche che aggravano la loro condizione mentale e ne devastano il corpo”. Sono le parole usate dal gip di Palermo per descrivere i gravissimi episodi di maltrattamenti riservati ai disabili assistiti nella casa di cura Suor Rosina La Grua di Castelbuono, in provincia di Palermo. Il giudice usa quelle parole per commentare gli elementi raccolti dagli investigatori della Guardia di Finanza, che stamani hanno eseguito un’ordinanza cautelare nei confronti di 35 persone accusate, a vario titolo, di tortura, maltrattamenti, sequestro di persona, corruzione, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, malversazione e frode nelle pubbliche forniture. Il gip ha anche disposto il sequestro della casa di cura e di disponibilità finanziarie per un valore di oltre 6,7 milioni di euro. Le indagini degli uomini del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo hanno riguardato una onlus che gestisce, in regime di convenzione pubblica “a ciclo continuo”, servizi di riabilitazione per 23 pazienti con disabilità grave. Dieci indagati sono stati portati in carcere, per sette sono scattati gli arresti domiciliari, cinque sono stati sottoposti all’obbligo di dimora nel comune di residenza e tredici sono destinatari della misura interdittiva del divieto di esercitare attività professionali per un anno.
“Auto da 40mila euro con soldi pubblici” – I filoni di indagine sono due. Il primo riguarda l’amministratore e i soci della onlus che, nascondendo la natura commerciale dell’attività dell’ente e grazie all’utilizzo di documentazione falsa (planimetrie, relazioni tecniche, rendiconti trimestrali delle prestazioni erogate), sarebbero riusciti ad accreditarsi con la Regione Siciliana e convenzionarsi con l’Asp di Palermo, ottenendo, negli ultimi cinque anni, soldi pubblici per 6,2 milioni. Una parte del denaro, circa 470 mila euro, invece di essere utilizzata per i fabbisogni dei pazienti o reinvestita nell’adeguamento della sede, che avrebbe gravi carenze, veniva distratta e utilizzata per fini privati come la liquidazione di compensi non dovuti, acquisto di auto, pagamento di viaggi e soggiorni in alberghi, acquisto di prodotti enogastronomici, articoli di gioielleria e da regalo. Un funzionario dell’Asp di Palermo è accusato di corruzione. Secondo le indagini, non avrebbe svolto i dovuti controlli e verifiche in cambio dell’assunzione del figlio e della nuora. I militari contestano anche al funzionario il reato di frode nelle pubbliche forniture, poiché sarebbero state fornite prestazioni sanitarie in favore dei pazienti ben lontane dagli standard qualitativi previsti. “Fino a quando si pagavano le vacanze e le facevano, bevevano cocktail, Spritz, bevevano Coca Cola, per 1000, 1500 euro, perché sono come porci”, dice uno degli operatori della onlus, intercettato. “Noi siamo sotto scopa dell’Asp di Palermo, perché il padre del nostro amministrativo è una specie di funzionario dell’Asp di Palermo che ci tiene sotto – proseguiva – Quando tu compri quarantamila euro di autovettura a nome del Centro e il Centro le paga, tu lo sai che non sono soldi soltanto tuoi? Quando tu in quattro anni ti cambi quattro autovetture, racimoli centoventi, centotrentamila euro di autovetture tutte quante pagate dal Centro. A me mi rompe se ci revocano la convenzione perché quella è una gallina dalle uova d’oro“. “Poi abbiamo preparato le ceste per l’Asp, si aggiravano attorno a 300 euro di ceste”, raccontavano i dipendenti.
I maltrattamenti sui disabili – Il secondo filone dell’indagine ruota attorno ai maltrattamenti e violenze subiti in questi anni dai 23 pazienti della struttura. Per il gip si tratta di condotte gravissime, tanto che i reati configurati sono tortura, maltrattamenti e sequestro di persona. Le indagini dei militari avrebbero accertato che tutto il personale sanitario e paramedico in servizio presso la Onlus, con la compiacenza della proprietà, sottoponeva i pazienti a maltrattamenti di natura fisica e psicologica che provocavano loro gravi sofferenze ed umiliazioni. Il personale della struttura, che accudiva ospiti affetti da gravi disabilità intellettive e psichiatriche, ricorreva sistematicamente a punizioni come il digiuno, o percosse, strattonamenti, calci, schiaffi, offese. In diversi casi i pazienti venivano rinchiusi in una stanza di pochi metri quadrati chiamata “relax“, sia di giorno che di notte, completamente vuota e senza servizi igienici. Le vittime rimanevano prigioniere, spesso per diverse ore, al buio e senza alcuna assistenza, implorando di uscire, supplicando per avere dell’acqua o del cibo, dovendo espletare i propri bisogni fisiologici sul pavimento.
“I ragazzi sono vestiti come gli zingari visto che non li lavano” – I maltrattamenti sono evidenti dalle intercettazioni. Nella sala “relax” i pazienti venivano portati di peso, rinchiusi dentro e presi a calci e pugni. Poi venivano offesi: “Frocio”, urlava un operatore e dopo l’ennesimo calcio chiudeva la porta. “Devi buttare il veleno dal cuore” diceva un altro inserviente della struttura. “E’ un manicomio, un lager nazista“, commentavano, non sapendo di essere intercettate, alcune operatrici del centro mentre uno dei pazienti urlava: “Dottoressa mi faccia uscire. Avevamo detto cinque minuti, si mantengono i patti, i patti si mantengono”. “Io ne ho certezza al 99% gli alzano le mani ai ragazzi, fin quando non ci sono le telecamere sta cosa; noi non ce la togliamo e vedi che è un reato penale – diceva una donna al telefono – I ragazzi erano vestiti come gli zingari, visto che non li lavavano, visto che il mangiare faceva schifo, visto che la struttura non era pulita”. Un’altra operatrice intercettata, parlando con una delle indagate, le contestava: “20 mila euro, quello di parcelle tra lui e sua moglie, 60 mila euro lui e 70 mila euro l’anno sua moglie, senza che sua moglie a Castelbuono mettesse un piede, più tutti quello che tu hai sciupato che non vi spettavano, rimborsi chilometrici, rimborsi quando tua figlia se ne andava a Catanzaro all’università, i pannolini dei tuoi nipoti, i confetti, le autovetture”. E un’altra: “Tu ce l’hai presente un manicomio? Uguale, identico, ci manca solo, gli ho detto che li legano ai letti e poi siamo a posto, siamo pronti per la D’Urso. Ci sono cose che sono oggettive. I bilanci non sono mai stati presentati, nella contabilità c’è manicomio, la struttura non è adeguata e non è a norma. Lì se campano o se muoiono, non interessa niente a nessuno”. Dalle indagini emerge poi l’arbitraria e massiccia somministrazione di terapie farmacologiche agli ospiti disabili della struttura, non giustificata da ragioni medico-sanitarie, ma dalla volontà degli operatori di mantenere sedati i pazienti riducendo l’impegno e il rischio di potenziali complicazioni nel corso dei loro turni di lavoro.