domenica 20 giugno 2010

Il Paese capovolto - Antonio Padellaro



20 giugno 2010
L’altro giorno, a Barcellona per presentare il Fatto, osserviamo sulle prime pagine di tutti i giornali catalani grandi foto con l’arresto di Fèlix Millet, ex direttore del Palazzo della Musica accusato di appropriazione indebita e traffico di influenza. Sembra incredibile ma nella civilissima Spagna nessun garante della privacy interviene per rampognare la stampa se pubblica immagini di illustri personaggi condotti in prigione. Quanto al traffico di influenza, (chi forte di un ruolo pubblico riceve denaro o altre utilità per esercitare il suo potere) si tratta di un reato previsto dalla Convenzione europea firmata dall’Italia nel 1999 e mai ratificata. Tornati in patria affrontiamo, come in un cupo racconto diPhilip K. Dick la realtà capovolta.

Laddove domina la legge dei disonesti abbiamo un imputato (Brancher) promosso ministro per sottrarlo al legittimo processo in forza di una delle numerose norme vergogna. Abbiamo famosi stilisti (Dolce e Gabbana) sotto inchiesta per truffa allo Stato a cui il sindaco di Milano (Moratti) concede, gratis, la sede del Comune per un party privato. Abbiamo l’avvocato di Berlusconi (Ghedini) che pretende dal ministro di Berlusconi (Alfano) un’azione disciplinare contro un pm che ha osato convocarlo. Nel Paese capovolto, sulla cosiddetta grande stampa non troverete traccia della festa gentilmente offerta da donna Letizia (sparse nelle pagine interne le notizie su Brancher e Ghedini). Solo l’Avvenire si accorge che la corruzione sta divorando il paese e che “il sospetto del conflitto d’interessi è più diffuso di quanto si pensi”. Il giornale della Cei ne ricava che “Il Paese ha la febbre”. No, cari colleghi, il Paese è in agonia.

da Il Fatto Quotidiano del 20 giugno 2010

La zona d'ombra di Schifani - Marco Lillo



20 giugno 2010
Il presidente del Senato aveva chiesto 1.750.000 euro a Travaglio, che invece dovrà risarcirne solo 16mila per la battuta sulla "muffa". La sentenza: dovere del cronista chiedere dei legami mafiosi

Non è facile trovare una
sentenza piena di soddisfazioni per il soccombente come quella emessa contro Marco Travaglio. Non tanto perchéRenato Schifani, chiedeva 1 milione e 750 mila euro e ne ha avuti “solo” 16 mila ma perché Travaglio si è visto riconoscere di avere svolto correttamente la sua funzione in una delle vertenze più dure tra Palazzo e stampa. La vicenda è nota: nel 2008 Travaglio aveva ricordato in due articoli su l’Unità e poi in televisione a Che tempo che fa e a Crozza Italia i rapporti societari di 30 anni prima tra Schifani e soggetti che – molti anni dopo le loro cointeressenze – saranno condannati per mafia. Travaglio aveva rotto il clima di pacificazione che regnava all’inizio del governo Berlusconi quando nessuno chiamava Papi il Cavaliere e da sinistra si scrivevano libri per incensare “Lo Statista” di Arcore. Subito dopo aver ricordato che la verità non risente del clima politico e non va in prescrizione era stato sommerso da una valanga di critiche e veleni. La sentenza del Tribunale di Torino suona come una promozione per lui e una condanna per buona parte della nostra categoria. Il giudice Lorenzo Audisio il primo giugno scorso ha condannato Travaglio solo per avere ironizzato sulla parabola a precipizio della presidenza del Senato. Per le battute sulla muffa e il lombrico (terminali possibili della parabola discendente) Travaglio è stato condannato a pagare 16 mila euro di danni.

Mentre su tutto il resto, è stato promosso a pieni voti. Sui rapporti passati con soggetti poi condannati per mafia, per il giudice “non si può dubitare dell’interesse pubblico alla conoscenza di ogni avvenimento professionale inerente Renato Schifani che, notoriamente, ricopre attualmente la seconda carica istituzionale dello Stato”. Dopo avere lodato “la correttezza dell’esposizione narrativa” il giudice passa a interessarsi del nocciolo della questione. È vero quello che Travaglio dice sui rapporti societari di Schifani? E soprattutto è lecito scriverne e parlarne in tv?

La risposta è un doppio sì. “Quanto alla verità dei fatti narrati”, scrive il giudice, “deve osservarsi che Schifani non contesta di aver partecipato alla società Sicula Brokers… e non contesta neppure che ne facessero parte all’epoca della propria partecipazione
Nino Mandalà, Benedetto D’Agostino e Giuseppe Lombardo” (i primi due arrestati per mafia una ventina di anni dopo la creazione della società nel 1978 con Schifani, il terzo amministratore delle società dei cugini Salvo). Schifani contestava a Travaglio di avere “volutamente dimenticato di ricordare gli altri soci , mai toccati da inchieste giudiziarie”. Su questo punto il giudice dà una lezione alla seconda carica dello Stato: “Le associazioni di tipo mafioso riescono a realizzare il controllo del territorio attraverso l’inserimento di propri associati, o di fiduciari, nelle attività economiche legali, così realizzando una sistematica attività di infiltrazione nel sistema imprenditoriale. Tale circostanza, – insiste il giudice –, non è solo ampiamente nota ma non è neppure ignorabile da soggetti nati e operanti da sempre in quel medesimo contesto territoriale. Conseguentemente – infierisce il giudice – a maggior ragione deve chiedersi a chi ricopre incarichi pubblici l’assenza di zone d’ombra nella propria storia professionale o, per lo meno, una rivisitazione critica di eventuali inconsapevoli contatti avvenuti in passato con soggetti oggetto di indagini giudiziarie anche successive, che ne hanno dimostrato l’inserimento (o quanto meno la contiguità) in organizzazioni criminali operanti in un territorio identificabile quale proprio bacino elettorale”. Quindi non è solo corretto ma è un obbligo per un giornalista ricordare ai lettori e ai telespettatori i vecchi rapporti societari del presidente del Senato, eletto in Sicilia. Anzi, per il giudice, sarebbe doverosa da parte del presidente una rivisitazione critica di questi rapporti, che a parte Travaglio e il Fatto, in pochi hanno chiesto. Pertanto, quando Travaglio afferma che “se uno evitasse di mettersi in affari con gente di mafia, la lotta alla mafia riuscirebbe meglio” sta compiendo “puro esercizio del diritto di critica”. Travaglio, secondo il giudice, non ha fatto nulla di male neanche a sostenere “l’indegnità di Schifani a ricoprire la seconda carica dello Stato per via delle sue passate e appurate frequentazioni (che sono un fatto)”.

Pertanto il Tribunale rigetta la domanda di Schifani sul punto e lo stesso fa per le doglianze su Crozza Italia dove Travaglio aveva espresso “un’opinione su fatti corrispondenti a verità”. Resta Che tempo che fa. Nella trasmissione di Fazio, Travaglio aveva ironizzato: “Una volta avevamo De Gasperi, Einaudi, De Nicola, Merzagora, Parri, Pertini, Nenni... cioè uno vede tutta la trafila e poi arriva e vede Schifani... mi domando chi sarà quello dopo in questa parabola a precipizio, cioè dopo c’è solo la muffa, probabilmente, il lombrico come forma di vita, dalla muffa si ricava la penicillina tra l’altro e quindi era un esempio sbagliato”. L’intervento poi proseguiva chiedendo ai politici di sinistra di “chiedere alla seconda carica dello Stato di spiegare quei rapporti con signori che sono stati poi condannati per mafia”. Il giudice non contesta “la parabola a precipizio della politica” ma ritiene “attacchi personali nei confronti dell’attore in quanto rivolte alla sua persona e non a fatti oggetto di interesse pubblico che sconfinano nella contumelia” le parole che seguono sulla muffa e il lombrico. Per il giudice “è evidente che i riferimenti alla muffa e al lombrico attengono esclusivamente all’uomo Schifani”. Pertanto Travaglio va condannato ma solo “in relazione a tale parte dell’intervento”. I difensori di Schifani sono soddisfatti perché “i giudici hanno riscontrato la diffamazione” e confermano che “l’importo del risarcimento sarà devoluto interamente in beneficenza”. Caterina Malavenda, difensore di Travaglio replica: “Pur prendendo atto della condanna per ‘abuso di satira’ esprimo soddisfazione per l’integrale accoglimento nel resto delle ragioni di Travaglio al quale è stato riconosciuto il corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica”.

da Il
Fatto Quotidiano del 20 giugno 2010

sabato 19 giugno 2010

Mila Spicola, la prof infiamma la platea




Ma soprattutto c'era lei, una minuta e grintosa insegnante siciliana, salita sul palco del Palalottomatica di Roma per elencare i guasti alla scuola che imputa al governo.


Ghedini si ribella: «Ispezione a Milano»



MILANO
- Ispettori del Ministero alla Procura di Milano per verificare se vi siano le ragioni per avviare una azione disciplinare nei confronti del sostituto procuratore della Repubblica Massimo Meroni. Questa la richiesta che viene da Niccolò Ghedini, deputato del Pdl e avvocato di Silvio Berlusconi, protagonista pochi giorni fa di un braccio di ferro proprio con questo magistrato milanese. La Procura di Milano aveva messo in conto «l'accompagnamento coattivo» per Ghedini che doveva testimoniare sulla vicenda dell'intercettazione Fassino-Consorte nell'ambito dell'inchiesta Unipol. La questione si era risoltà dopo un duro rimpallo tra la Procura e Roma con la disponibilità data da Ghedini di essere interrogato.

L'INTERROGAZIONE - Oggi però Ghedini ha presentato una interrogazione di otto fitte pagine per ricostruire la vicenda che lo ha visto come protagonista e affermare che i Pm di Milano hanno avuto «comportamenti inqualificabili» e che si deve verificare la possibilità di una azione disciplinare nei confronti del magistrato. L'inusuale scelta della interrogazione su un fatto che lo coinvolge direttamente fa dire al Pd: siamo, «dopo le leggi "ad personam", all'uso privato degli atti parlamentari». Per Ghedini invece il minacciato uso dell'accompagnamento coatto è stato 'un gravissimo episodio che ha anche chiaramente connotazioni politiche«. In particolare (l'interrogazione è firmata anche dal capogruppo Cicchitto e da quello in commissione Giustizia, Costa) ricorda che il Pm Massimo Meroni ha firmato «un durissimo documento contro le leggi del governo Berlusconi del periodo 2001-2006». Elemento questo che aiuterebbe a capire «quale sia lo stato d'animo» con il quale il magistrato «sta agendo nei confronti dell'avvocato Ghedini».

LA BOBINA - Nelle 8 pagine di interrogazione si ricorda quindi l'intera vicenda che riguarda la famosa bobina con la conversazione tra Piero Fassino e il numero uno di Unipol Giovanni Consorte che sarebbe stata consegnata dall'ingegner Raffaelli e da Fabrizio Favata a casa Berlusconi nel Natale del 2005. Pochi giorni prima della sua pubblicazione su Il Giornale. E gli interroganti ripercorrono anche tutte le varie fasi del tentativo del Pm di ascoltare Ghedini visto che, secondo le ricostruzioni apparse sui giornali, al momento dell'incontro in casa del premier, sarebbe stato presente anche lui insieme al fratello del Cavaliere, Paolo Berlusconi, proprietario de Il Giornale. L'accusa che i deputati del Pdl muovono al sostituto procuratore di Milano è che, citando Ghedini come teste, pur essendo quest'ultimo difensore dei due fratelli Berlusconi, si punterebbe ad «inibire» all'avvocato di Padova «l'esercizio del suo mandato> di legale nei confronti dei suoi assistiti. Secondo quanto sostiene Ghedini, infatti, «nell'ambito dello stesso procedimento colui che assume la qualifica di testimone non può assumere la veste di difensore».

LE REAZIONI - L'intervento di Ghedini suscita la immediata reazione dell'Idv e del Pd. Di Pietro commenta che il governo dovrebbe chiari come Berlusconi entro in possesso di quella intercettazione. «Siamo allo stato di polizia. Come al solito, Berlusconi e la sua corte vogliono bloccare i magistrati perché indagano sui loro sporchi affari. È provato che la telefonata tra Fassino e Consorte è stata pubblicata da Il Giornale della famiglia Berlusconi quando era coperta da segreto». Luigi De Magistris parla di riflesso condizionato » alla Pavlov« da parte del Pdl . «Dopo le leggi ad personam siamo adesso all'uso privato degli atti parlamentari», ha commentato la capogruppo democratica nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti: «Più che il merito della vicenda stupisce il metodo visto che Ghedini non si è ancora presentato in procura in qualità di persona informata sui fatti e questa sua iniziativa parlamentare ha tutto il sapore di una intimidazione preventiva nei confronti del magistrato che lo dovrà interrogare. È il solito modo di intendere la giustizia dove gli obblighi valgono per tutti, qualcuno escluso». (Fonte: Paolo Cucchiarelli-Ansa)

18 giugno 2010

http://www.corriere.it/politica/10_giugno_18/ghedini-interrogazione-procura-milano_fc2a96ae-7b0a-11df-aa33-00144f02aabe.shtml


venerdì 18 giugno 2010

Nominato un nuovo ministro.




Il curriculum del neo ministro del Federalismo Aldo Brancher è perfetto per il Governo Berlusconi (suo ex datore di lavoro) e una speranza per ogni italiano.

Anche un ex galeotto può ambire a diventare ministro della Repubblica.

"Detenuto per 3 mesi nel carcere di San Vittore, fu uno dei pochissimi inquisiti di Mani pulite a ricevere solidarietà dall'ambiente esterno: lo rivelò il suo datore di lavoro Silvio Berlusconi raccontando che "quando il nostro collaboratore Brancher era a San Vittore, io e Confalonieri giravamo intorno al carcere in automobile: volevamo metterci in comunicazione con lui".

Scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, è stato condannato con giudizio di primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito al Partito Socialista Italiano. Brancher viene assolto in Cassazione grazie alla prescrizione per il secondo reato e alla depenalizzazione del primo da parte del governo Berlusconi, del quale faceva parte.

Viene indagato a Milano per ricettazione nell’indagine sullo scandalo della Banca Antonveneta e la scalata di Gianpiero Fiorani all’istituto creditizio: la Procura ha rintracciato, presso la Banca Popolare di Lodi, un conto intestato alla moglie di Brancher con un affidamento e una plusvalenza sicura di 300mila euro in due anni". daWikipedia.

La nomina consentirà a Brancher di non presenziare il 26 giugno all'udienza del processo della Banca Antonveneta in cui è indagato per appropriazione indebita. Si tratta sicuramente di una coincidenza.

Marco Travaglio racconta una storia di mafia.




Martedì 22 giugno
il Fatto scioglie gli ormeggi


17 giugno 2010

Inizia il conto alla rovescia. Tra sei giorni partirà la nostra nuova edizione on line. Più di mille tra siti e blog hanno già aderito alla campagna virale di lancio

Pensavate che ce ne fossimo dimenticati? Ormai credevate che l'annuncio della nascita de
ilfattoquotidiano.it fosse una bufala? E invece, no. Eccoci qui. Tra sei giorni, saremo finalmente on-line con una versione Beta. Martedì 22 giugno il nostro nuovo sito scioglierà gli ormeggi. Le cose che non funzionano sono ancora tante. In queste settimane abbiamo spesso lavorato dalle otto del mattino alle due di notte per cercare di metterle a posto. La rotta da percorrere resta però lunga. Ma un risultato (straordinario) per ora ci conforta: la campagna virale di lancio del sito, che sta partendo in queste ore, ha raccolto - a scatola chiusa - un mare di adesioni. Più di mille siti e blog hanno accettato di ospitare i nostri banner non convenzionali e gli utenti vengono adesso ricontattati per i particolari tecnici. La casella e-mailiosupporto@ilfattoquotidiano.it è ancora in funzione. Speriamo che le adesioni continuino ad arrivare per toccare quota 1.500.

È stata poi aperta una
nuova pagina Facebook interamente dedicata a il Fatto Quotidiano che sostituirà quella dell'Antefatto. Chi vuole può già iscriversi.Facebook infatti resterà un canale importante per comunicare in tempo reale le nostre iniziative e per discutere quanto sta accadendo nel mondo e in Italia. I prossimi mesi si annunciano cruciali per il Paese. Chi è al potere vuole riscrivere la Costituzione, imbavagliare la stampa, imbrigliare la magistratura, approvare una legge finanziaria che, tagliando senza criterio lo stato sociale, finirà per colpire i soliti noti. Ci sarà insomma molto da raccontare e molto da dire. Noi lo faremo come sempre. Riportando tutti i fatti (anche i più scomodi) che riteniamo essere notizie e proponendo con chiarezza soluzioni alternative ai problemi che vengono discussi (ma più spesso ignorati) in Parlamento. Anche per questo nasce il sito delFatto Quotidiano: per far sentire il fiato sul collo a chi sta nel palazzo. E per dimostrare che un'altra Italia esiste e vuol far sentire la sua voce.

Quando saremo
on-line (permetteteci di non anticipare niente sui contenuti in modo da sfruttare a fondo l'effetto sorpresa) ci si renderà conto di come il nostro sforzo sia stato quello di mettere a disposizione della Rete uno spazio dove sia davvero possibile confrontarsi, ragionare e denunciare. Uno spazio dove si sarà liberi di dire e liberi di sapere.

La sfida è difficile. Come spesso ci è accaduto in passato partiamo svantaggiati rispetto agli altri big della cosiddetta informazione su Internet: abbiamo meno soldi, meno giornalisti, meno tecnici di tutti gli altri. Una cosa però ci lascia fiduciosi: abbiamo un solo padrone, il lettore. Anzi il navigatore del web.

Senza il sostegno della Rete, lo sappiamo, questa avventura è destinata al naufragio. Ma dove ci porterà lo capiremo presto. Abbiamo davanti a noi tutta l'estate per approntare, grazie al vostro supporto e ai vostri suggerimenti, la versione definitiva del sito. E per far lavorare al meglio la piccola squadra del
Fatto Quotidiano. Poi sarà solo mare aperto. Augurateci buon vento.

Peter Gomez e Marco Travaglio

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2500315&title=2500315

Spatuzza, il killer che parla anche di Berlusconi



PALERMO.
Prima nei verbali, poi anche in aula, Gaspare Spatuzza, l'aspirante collaboratore di giustizia al quale non è stato riconosciuto oggi il programma di protezione dalla Commissione del Viminale sui pentiti, ha ricostruito, dal suo punto di vista, tanti filoni investigativi: dalle relazioni tra mafia e politica alle verità nascoste sulle stragi del 1992 e sulle bombe del 1993.

Dalle sue rivelazioni, che hanno toccato anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri quale "referente" di Cosa nostra, sono scaturite una serie di nuovi spunti su un tema generale riconducibile al cosiddetto "patto" tra Stato e mafia.

Se ne occupano, sotto profili distinti, le tre Procure che avevano chiesto di ammettere il collaboratore, fedelissimo dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, al programma di protezione: Firenze, Palermo e Caltanissetta.

Il racconto più ampio Spatuzza lo ha consegnato in prima battuta ai magistrati fiorentini che indagano sulle stragi del 1993.

Ma le connessione e le affinità criminali con altre vicende hanno finito per smistare i verbali anche ai magistrati siciliani.

A Palermo le dichiarazioni del collaboratore di Brancaccio, che in carcere si è dedicato agli studi teologici, sono stati incanalati verso il capitolo della "trattativa" già da tempo alimentato (lo ha fatto ancora oggi) dal lungo racconto di Massimo Ciancimino.

A Caltanissetta il contributo di Spatuzza è finito nell'ambito delle inchieste ancora aperte sulle stragi Falcone e Borsellino.

Ed è proprio a Caltanissetta che il pentito viene gestito con interesse, dal momento che ha rivelato di possedere tante conoscenze sui "mandanti senza volto" degli attentati di Capaci e via D'Amelio.

La sua collaborazione è cominciata, con un nuovo percorso spirituale, mentre era detenuto nel carcere di Ascoli Piceno il 26 giugno 2008 ma, almeno per il processo a Marcello Dell'Utri nel quale ha deposto il 4 dicembre 2009, avrebbe dato l'impressione di fare rivelazioni "a rate".

In realtà, secondo i magistrati siciliani, non è possibile fissare in modo così netto i tempi della collaborazione passata attraverso vari momenti e vari temi.

Del resto la carriera criminale di Spatuzza è stata molto intensa: il killer della cosca di Brancaccio è stato infatti accusato di sei stragi e 40 omicidi, collezionando numerosi ergastoli. In questo rosario di delitti c'é di tutto: dall'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, alla partecipazione alla strage Borsellino per la quale si autoaccusa di avere rubato la 126 usata per l'attentato smentendo la ricostruzione del pentito Vincenzo Scarantino.