mercoledì 30 giugno 2010

Il Pdl e la pornografia dell’esultanza - Peter Gomez



C’è qualcosa di molto triste e pornografico nell’esultanza di quasi tutto il Pdl per l’esito del processoDell’Utri. Decine e decine di uomini e donne, mandati in Parlamento non sull’onda del voto popolare, ma per chiamata diretta del loro leader, festeggiano oggi una condanna a 7 anni per fatti di mafia. E lo fanno solo perché si dicono convinti che la sentenza abbia escluso rapporti, tra Cosa Nostra e l’ideatore di Forza Italia, nel periodo in cui questi fondava con Silvio Berlusconi il partito. Questa tesi è facile da confutare. E noi, tra qualche riga, lo faremo.

Il punto importante è però un altro. Per fortuna di tutti questo Paese è migliore di chi immeritatamente lo rappresenta in Parlamento. È migliore di quelli che a destra esultano. E di quelli che a sinistra, nelle file del Pd, per ore e ore hanno saputo solo stare in silenzio
(Bersani dove sei?).

Questo infatti non è solo il Paese dei Previti, dei Dell’Utri, dei molti furbetti del quartierino che fanno scempio della decenza e dei beni della collettività. Questo è, invece, il Paese che ha dato i natali a Falcone, Borsellino. È il Paese che ha visto morire
Libero Grassi, un imprenditore ucciso perché si rifiutava pizzo proprio mentre, dice il verdetto di oggi, il Cavaliere pagava e taceva. Questo è il paese della Confindustria siciliana che espelle dalla sua organizzazione non solo i collusi, ma pure chi versa tangenti alla mafia. Industriali che, codice penale alla mano, non commettono reati, ma sono vittime di un reato. Gente però che col proprio comportamento (la mancata denuncia) finisce oggettivamente per rafforzare Cosa Nostra.

Questo è il Paese delle centinaia di migliaia di associazioni di volontariato – laiche e cattoliche – che senza chiedere nulla in cambio, tutti i giorni, danno una mano a chi soffre. Questo è il Paese dei sindacati che mandano i loro iscritti a lavorare nelle terre confiscate. Ed è il Paese di chi si alza ogni mattina alle 6, paga le tasse e cerca d’insegnare qualcosa di buono ai suoi figli.

Questo è il nostro Paese.

E lo è anche se le televisioni ce lo nascondo.
Anche se Augusto Minzolini continua ad usare trucchi semantici per non utilizzare nei titoli e nei servizi la parola condanna (“pena ridotta a Dell’Utri, il senatore assolto per la trattativa Stato mafia”). Anche se la nostra classe dirigente, ormai in putrefazione, continua a pensarsi specchio di una realtà che non esiste.

Perché chi esulta oggi è doppiamente truffatore. Verso il proprio elettorato, formato in maggioranza da persone per bene che mai si sognerebbero di avere rapporti continuativi con mafiosi e camorristi. E verso la Storia e la verità.

Chiunque abbia superato gli esami di procedura penale sa infatti benissimo che in appello le sentenze possono essere solo confermate o riformate. Dire, prima di averne lette le motivazioni, che il verdetto di oggi esclude i rapporti mafia e politica dopo il 1992 è un falso clamoroso. Nel dispositivo della sentenza (se è il caso) i giudici possono solo scrivere che “il fatto non sussiste”, anche se a queste conclusioni sono arrivati perché non hanno trovato abbastanza riscontri alle parole dei collaboratori di giustizia. O perché gli elementi raccolti (questi sì indiscutibili) non bastano per dimostrare che Dell’Utri, oltre aver frequentato mafiosi o loro amici anche in anni recenti, abbia loro fatto dei favori. Prima di parlare dunque è necessario aspettare.

Ma gli ipocriti e i bugiardi oggi smascherati hanno fretta. Urlano per nascondere la loro vergogna. E lo fanno forte.

Noi però, anche davanti alla furia di chi sta al Potere, non dobbiamo aver paura. Le cose, anche se a volte ci facciamo prendere dallo sconforto, stanno rapidamente cambiando. Chi mai, solo qualche anno fa, magari dopo la sentenza Andreotti, avrebbe potuto pensare che un giorno il braccio destro dell’uomo più ricco e potente d’Italia, sarebbe stato condannato in primo grado e in appello? Chi mai avrebbe potuto pensare che Berlusconi, pur forte di un’amplissima maggioranza elettorale e parlamentare, si sarebbe trovato alla guida di un governo che di settimana in settimana diventa più instabile?

Il futuro insomma è dalla nostra parte.

Noi ora dobbiamo solo immaginarlo e costruirlo.



domenica 27 giugno 2010

CASO BRANCHER Dal Canada l'ordine di Berlusconi "Brancher si deve sacrificare"




Pdl nel caos. I big: questo pasticcio ci costerà molto caro Il premier ora teme contraccolpi sulle intercettazioni e anche sull'iter del lodo Alfano.


dal nostro inviato FRANCESCO BEI

HUNTSVILLE - Arriva in sala stampa con l'umore sotto i tacchi, stanco e teso. I boschi di Muskoka, le marmotte davanti al cottage, nulla lo può distogliere dall'incendio che da due giorni divampa in Italia sul caso Brancher. Silvio Berlusconi si aspetta la domanda sullo scontro con il Quirinale e l'accoglie con gelido distacco: "Ripeto quanto detto ieri dal mio portavoce Paolo Bonaiuti: nessun commento di nessun tipo". Del resto, il premier aveva con puntiglio chiesto ai giornalisti "attenersi ai temi del vertice, trascurando le nostre piccole questioni nazionali". Anche la vicenda Brancher una piccola questione? "Esattamente", taglia corto il Cavaliere. Il problema sollevato da Napolitano, sembra intendere, non merita che il silenzio. Così, quando il cronista di questo giornale gli chiede un commento sulla dura nota del Quirinale sul neoministro Brancher, a Berlusconi scappa la pazienza: "Io potrei rispondere in maniera fantasiosa, come fantasiosi sono di solito gli articoli di Repubblica che mi riguardano: completamente infondati".

Ecco, il presidente del Consiglio prova ad aprire un ombrello per ripararsi dall'uragano di Roma. Raccontano che per davvero Berlusconi abbia provato ad isolarsi completamente dall'Italia. Provano a chiamarlo il capogruppo Fabrizio Cicchitto, ci prova Sandro Bondi, Ignazio La Russa, Denis Verdini, ministri vari. Ma il premier risponde solo a Gianni Letta. Per la prima volta non sa cosa fare. "Brancher non può dimettersi - ragiona - perché daremmo ragione a quelli che ci attaccano. Né può avvalersi del legittimo impedimento, altrimenti sembrerebbe che vogliamo fare la guerra a Napolitano". L'unica soluzione è quasi obbligata: rinunciare allo "scudo" offerto dalla legge.

Questo il "consiglio" che il premier invia al neoministro, sapendo di chiedergli molto. Il rischio tuttavia è che, insieme con Brancher, crolli il castello che Berlusconi sta mettendo in piedi per ripararsi dai magistrati: dal lodo Alfano al provvedimento sulle intercettazioni. Come confida amareggiato un capogruppo del Pdl, "con questa storia (e cioè il pasticcio-Brancher-ndr) stiamo sputtanando quindici anni di battaglie garantiste".
Ma c'è di più. Perché il premier non si preoccupa solo per l'attacco delle opposizioni, la mozione di sfiducia contro Brancher, il rapporto sfregiato con il Quirinale. Il fatto è che si sente "tradito" dai suoi stessi alleati. Umberto Bossi, dicono i suoi, "l'ha lasciato con il cerino in mano". È tutto il partito a ribollire e Berlusconi lo sa. Lo sfogo di un ministro del Pdl riassume l'umore da fine impero che si respira in queste ore: "Berlusconi e Bossi sono stati ingannati sul caso Brancher. Da chi? Si sono mossi Calderoli e Brancher, sotto la regia del loro Lord Protettore".

L'identità di questo "Lord Protettore" non è un mistero, visti gli stretti rapporti di Calderoli e Brancher con Giulio Tremonti. In questo clima di sospetti anche il premier, per la prima volta, viene messo sotto accusa: si sarebbe lasciato "abbindolare" dalla cosiddetta "triade" (appunto Tremonti-Calderoli-Brancher). Gli rimproverano di non aver informato nessuno di cosa si stava preparando, lasciandosi andare a una gestione "frettolosa e disastrosa" delle deleghe del neo-ministro. Sullo sfondo si anima la guerra delle correnti, con gli ex forzisti che si oppongono alla richiesta di aprire davvero il tesseramento per il timore di essere cannibalizzati dagli ex An. Una guerra di tutti contro tutti, da cui il premier vorrebbe tenersi il più lontano possibile. Ma l'incendio impone di tornare a Roma e, per questo, pare destinata a saltare la tre giorni ad Antigua che il Cavaliere si era riservato alla fine del tour americano. Non lo rincuora nemmeno il calcio. "Nessuno parlato della nostra eliminazione - dice - anche perché eravamo in due a soffrire: io e Sarkozy".


http://www.repubblica.it/politica/2010/06/27/news/berlusconi_brancher-5186534/?ref=HREA-1


sabato 26 giugno 2010

Emergency: riapriremo l’ospedale a Lashkar-gah - Ilaria Donatio


L’integralismo di Emergency è soprattutto quello che ricorda al mondo, senza tanti giri di parole, distinguo e mediazioni, che “la guerra ha sempre (sempre) odore di sangue, merda e vomito”. È la stessa ragione per cui i suoi detrattori, tanti e quasi sempre politicamente orientati, parlano dell’organizzazione guidata da Gino Strada, con un pizzico di antipatia (a dirla tutta), quella riservata, in genere, a chi non ama cincischiare nel mucchio, a chi chiama le cose con il loro nome anche se questo è scomodo, suona male e ha l’odore acre di una perenne resistenza.

Così, siamo tutti abituati a sentire che “quelli di Emergency – per carità – fanno tante cose buone in giro per il mondo” ma “sono un vero partito”, una “banda di estremisti”, magari pacifici, ma sempre di estremisti si tratta. Poi, volti l’angolo e ti imbatti in tutta un’altra storia: quella del suo popolo, che non ha dubbi, nessuna incertezza sulle battaglie di Gino Strada, che sente insieme a lui e che lo porta – in pochi minuti – a mobilitarsi e a dire “Io sto con Emergency”.

Quel popolo, almeno la sua parte romana, era presente l’altra sera al teatro Golden, nel nome di 'No weapons' che, in definitiva, è il collante principale che lo tiene insieme, ma anche per ricostruire l’arresto (in assenza delle più elementari regole di legalità) dei tre operatori italiani: il chirurgo Marco Garatti, l’infermiere Matteo dell’Aira e il giovane tecnico Matteo Pagani, portati via - insieme ad altri componenti dello staff internazionale - da militari afgani e membri della coalizione internazionale, in seguito a un attacco al centro chirurgico di Lashkar-gah, in Afghanistan del Sud. Una trappola vera e propria, ma si saprà molti giorni dopo, tesa da quelle stesse autorità afgane che Emergency (e formalmente l’Italia) stanno aiutando da anni.

I due Matteo, sorridenti e sereni, rispondono alle domande del giornalista Rai, Riccardo Iacona (Marco Garatti è assente giustificato) di fronte a un teatro stracolmo: il racconto delle carceri conferma la “descrizione da incubo” che in genere circola delle prigioni afgane, un luogo in cui, la giustizia, la legalità e la tutela dei diritti, sono solo un’ipotesi lontana.
Celle piccole (due metri per due), sporche e vecchissime, luci a neon accese 24 ore su 24 e un interprete che non conosceva l’inglese e che, dunque, non poteva fare il proprio lavoro: ciascun operatore era tenuto in isolamento, sottoposto a ogni genere di pressione psicologica per fargli confessare una versione dei fatti del tutto incongrua (perché mai Emergency avrebbe voluto la morte del governatore di Helmand che il giorno prima era andata a trovare? perché custodire le armi che sarebbero dovute servire all’attentato, proprio in ospedale?) e che hanno conosciuto solo dopo 36 ore di detenzione: dal tampone salivare alla fotografia dell’iride, da fogli scritti in pashtun che dovevano firmare senza sapere il contenuto ai tentativi di metterli gli uni contro gli altri.

Alla fine, la liberazione e la verità: una trappola che Iacona tenta di ricostruire e che, nella trama intricatissima di questa vicenda, ha in sé un barlume di razionalità: da quando è iniziato il conflitto afgano, nove anni fa, Emergency denuncia che si tratta della maggiore operazione militare degli ultimi anni, che vede coinvolte le forze internazionali sotto il cappello della Nato, l’Isaf (International Security Assistance Force) e quelle americane, e che è costata l’annientamento della popolazione, “oramai stanca e traumatizzata dalle continue perdite”.

“Sono un infermiere”, spiega Matteo dell’Aira, “e il mio compito è quello di curare i feriti, siano essi talebani o combattenti (che non riesci, tra l’altro, neppure a distinguere), donne o bambini”: sono persone e non c’è distinzione tra loro”. Questo, continua Matteo, “a riprova della neutralità di Emergency a cui sono fiero di appartenere: ho una bambina e sono terrorizzato”, racconta, “alla sola idea che possa cadere dall’altalena”. “Ecco perché”, dice, “ogni volta che arriva in ospedale un bambino ustionato o vittima di una mina, penso ai suoi genitori, a quello che possono provare, alla paura quotidiana con cui sono costretti a vivere”.

Nei giorni dell’ultima offensiva Nato, quella di febbraio, Matteo ha curato un diario sulla rivista di Emergency: una sorta di nuova (e triste) antologia di Spoon River (che in parte ci racconta a voce), abitata dai tanti piccoli afgani feriti che giorno dopo giorno, lui e i suoi colleghi cercavano di curare. Sono annotati i loro arrivi, dolorosi ma pieni di speranza, ma anche la felicità di poterli vedere ripartire guariti, almeno alcuni di loro.

C’è Said che, col suo orsacchiotto di peluche sotto il braccio e un polmone perforato, all’ospedale ci arriva in elicottero. Akter è portato invece dal padre, molte ore dopo che un proiettile gli ha perforato la testa, da parte a parte. C’è Gulalay, 12 anni, che è stata colpita alla schiena mentre curava i pochi animali della famiglia: ora non riesce più a sorridere. E poi, Roqia, Fazel, Khudainazar e i due fratellini Sharifullah e Rahmat Bibi, tramortiti dalla paura e dalle ferite provocate dalle schegge di un ordigno che sembrava una palla: non si staccano mai l’uno dall’altro, quasi volessero consolarsi a vicenda.

Un diario per immagini che nella sala del teatro possiamo tutti visualizzare sui monitor: ecco l’ospedale, 70 posti letto, quattro corsie, due sale operatorie, un ambulatorio chirurgico, ma anche una sala giochi e una mensa. Il centro, che è un presidio chirurgico per le vittime di guerra e le mine antiuomo, accanto alla traumatologia, opera dal 2004: da gennaio a marzo 2010, ci sono stati 664 ricoveri (di cui, il 60 per cento per cause di guerra) e oltre un terzo dei pazienti è costituito da bambini che hanno meno di 14 anni. Il tutto ha un costo di gestione annuale pari a circa un milione e quattrocento mila euro.

L’ospedale di Lashkar-gah, dedicato a Tiziano Terzani, è chiuso dal giorno in cui è stato “violato”, in “quell’attacco armato a un luogo di pace”: l'unica struttura della zona, hanno sottolineato i medici cooperanti, “in grado di offrire cure altamente specializzate e gratuite alla popolazione civile” è oggi fuori uso. Ed ecco la notizia: Emergency è a lavoro per riaprire il centro entro luglio, e infatti Gino Strada sta per avviare una serie di colloqui, a vari livelli, con le autorità afgane: “naturalmente”, precisano i cooperanti, “la riapertura dell’ospedale dovrà avvenire alle condizioni di Emergency, che dovranno essere accettate da tutti e in nessun caso scenderemo a patti con le autorità”.

“La guerra”, chiosa Iacona, “seleziona e male la classe dirigente. E allora il problema che si pone è quello, più complesso, di ripensare politicamente la Nato e, dal momento che “lì dentro ci sono anche i nostri soldati, abbiamo il dovere di sollevare questo dibattito”.
Intanto si combatte. Il presidente Usa, proprio in queste ore, ha sostituito con il generale David Petraeus, uno degli uomini simbolo della guerra contro i talebani, il generale Stanley McCrystal, colpevole di avere criticato in un’intervista, la gestione del conflitto in Afghanistan della Casa Bianca. Obama avrebbe detto: “La guerra è più grande delle persone”.

E gli analisti ripetono: se la missione si ritirasse ora, sarebbe una vera catastrofe. Intanto, i cooperanti di Emergency fanno notare che “prima di essere infermieri, medici, volontari, siamo esseri umani, e se vediamo un bambino ferito, allora dobbiamo curarlo ma non possiamo non prendere una posizione: se non lo facessimo, saremmo loro complici”. La chiamano radicalità. Quella che spinge Gino Strada a citare Einstein che, nel lontano 1932, a una conferenza sul disarmo, disse: “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire”. Quella che fa dire a Matteo, l’infermiere: “Di una cosa mi sono accorto: la cosa più semplice ma anche la più importante, in ospedale, è quella di sedersi e parlare: è tanto utopico”?
Emergency crede di no.

(26 giugno 2010)


G8: "Preoccupazione per pace e sicurezza globale"



Nella bozza della dichiarazione finale del vertice canadese è stata rilevata l'interdipendenza tra "benessere economico e sicurezza dei Paesi di tutto il mondo". Denunciata la fragilità della ripresa economica, che pone a rischio gli obiettivi di sviluppo.


Si sono conclusi a Huntsville, in Canada, i lavori dell'ultima giornata del G8, incentrati sui temi della pace e della sicurezza. Come reso noto dalla bozza della dichiarazione finale, i leader degli otto Paesi più industrializzati hanno ribadito la propria preoccupazione per le insidie derivanti dalla "proliferazione delle armi di distruzione di massa, dal terrorismo, dalla criminalità organizzata internazionale (incluso il traffico di stupefacenti), dalla pirateria e dai conflitti etnico-politici interessano noi tutti". E' stata inoltre rilevata la conseguente incidenza sulla "prosperità e lo sviluppo", in quanto "benessere economico e sicurezza dei nostri Paesi e dei Paesi di tutto il mondo sono interdipendenti".

La crisi economica mondiale è stata conseguentemente al centro degli interessi dei leader del G8, i quali hanno evidenziato come essa abbia "messo a nudo ed esacerbato vulnerabilità già insite nelle economie globali integrate, negli sforzi di sviluppo e nella sicurezza collettiva". E' stato quindi affermato che "in un momento in cui la ripresa prende piede, ci troviamo a un crocevia: qui, la speranza e l'ottimismo nascenti possono essere incanalati verso la costruzione di società più sicure, eque, partecipative e sostenibili in tutto il mondo, prestando al contempo un'attenzione via via maggiore al miglioramento e alla valutazione efficace del benessere dei popoli".

La problematica economica è stata a lungo toccata da Barack Obama, il quale, secondo quanto riferito dal presidente francese Nicolas Sarkozy, ha menzionato, durante il vertice, i rischi legati al debito e al deficit. E' stato sempre il numero uno dell'Eliseo a rendere noto l'accordo dei leader del G8 sulle "uscite coordinate" dalle politiche di stimolo, messe in campo contro la crisi. Sarkozy ha infine comunicato che il prossimo summit degli otto Paesi più industrializzati si terrà a Nizza nella primavera del 2011.

Guarda anche:
Allarme del G8: a rischio 30 milioni di posti di lavoro

Flores d’Arcais a Napolitano: “Presidente, perchè ha nominato Brancher ministro?”


di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2010


Caro Presidente, unanime è lo sdegno per il comportamento di spudorato dileggio delle istituzioni messo in atto dal neoministro Aldo Brancher, che ancora fresco di giuramento, utilizza la nuova carica non già per onorare “fedeltà alla Repubblica e osservanza della Costituzione” ma per sottrarsi a un tribunale della medesima Repubblica, cioè per calpestare e irridere il principio che è solennemente scolpito in tutte le aule di tale istituzione: “La legge è eguale per tutti”. Unanime lo sdegno, si può ben dire, visto che le critiche alla “fuga” dalla giustizia del neoministro Brancher sono esplicite anche in almeno due settori della maggioranza, quelli che fanno riferimento alla “Lega” e al presidente della Camera on. Fini e perfino in un “Giornale”.

Del resto, caro Presidente, lei sa bene che Aldo Brancher è noto alla giustizia penale italiana fin dal 1993, quando i magistrati del Pool di Milano trovano le prove di due “mazzette” da 300 milioni versate dal Brancher (braccio destro di Confalonieri alla Fininvest) al Partito socialista e al ministro liberale della sanità De Lorenzo. Lei sa bene, Presidente, che il Brancher fu condannato in primo grado e in appello, e riuscì a non scontare la condanna solo per via di una prescrizione e di una depenalizzazione nel frattempo intervenute, di cui la Cassazione dovette prendere atto. Intervenute non per grazia dello spirito santo, ma di un potere politico che aveva ormai nel proprietario della Fininvest (poi Mediaset) un “padrone” di crescente prepotenza.

Quello perciò che non possa fare a meno di chiederle, Presidente, è perché lei abbia nominato un personaggio del genere come ministro. E “ministro per l’Attuazione del federalismo”, oltretutto, ministero di pura invenzione, ministero sfacciatamente “ad personam”, visto che il ministro per il federalismo esiste già, è l’on. Bossi, il quale ha immediatamente ribadito il suo ruolo unico su tale tema.

Insomma, caro Presidente, era chiaro a lei come era chiaro a tutti che il ministero a cui Berlusconi le chiedeva di nominare Aldo Brancher era solo un “ministero di legittimo impedimento”, un ministero per potersi rifiutare – in barba alla “legge eguale per tutti” – di andare in un’aula di tribunale a difendersi da accuse assai pesanti (“appropriazione indebita”, non certo un delitto “politico” o di opinione ).

Perché, nonostante tutto ciò, lei ha deciso di nominare Brancher ministro? L’articolo 92 della Costituzione è infatti esplicito: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri”. Il soggetto e protagonista costituzionale di tutto questo agire è il Presidente della Repubblica, cioè lei. Ovvio che le “proposte” che il Presidente del Consiglio avanza non si possono cassare per mero capriccio, ma ancora più ovvio che cassare si possono (e forse moralmente si devono) se per puro capriccio il capo del governo le ha avanzate, o per motivi tanto palesi quanto palesemente inconfessabili, perché costituzionalmente abietti.

Ora che Aldo Brancher fa della sua nomina l’uso per il quale quel ministero inesistente, doppio e fantasma, era stato da Berlusconi inventato (i suoi costi sono invece reali e materialissimi, prelevati “mettendo le mani in tasca agli italiani”), monta l’unanime indignazione. Tardiva, come la proverbiale chiusura delle stalle a buoi già scappati (così come apprezzabile, ma a detta degli esperti inattuabile, la nota con cui lei giudica non ammissibile questo ricorso del ministro al “legittimo impedimento”). E monca, visto che poi tutti si guardano bene dall’avanzare a lei la domanda che questo giornale, con assoluto rispetto, già le ha posto ieri con l’editoriale del direttore.

E su cui, sempre con lo stesso rispetto, crediamo doveroso insistere. È infatti sacrosanta, e adeguata alla “cosa stessa”, l’escalation lessicale che si leggeva ad esempio ieri sul più autorevole quotidiano italiano, il quale denunciava “con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero”, e “in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni”, e nel sito parlava di “uso privato delle istituzioni” e “ignominia di questa nomina”, che lei avrebbe “firmato con la morte nel cuore”.

Del resto, anche i più moderati definiscono “regime” quello berlusconiano e Umberto Eco addirittura di “colpo di Stato strisciante”. Di fronte a quella che viene dunque ormai descritta – giustamente – come vera e propria eversione, l’unica possibilità di salvezza – oltre all’impegno di milioni di cittadini, il cui “resistere, resistere, resistere” continua a manifestarsi nelle piazze, negli appelli, nei blog – è costituito dal “resistere” di tutte le istituzioni di garanzia, i cui poteri la nostra bellissima e invidiabile Costituzione ha voluto a salvaguardia delle libertà di tutti.

Tra questi, Presidente, in primo luogo i suoi poteri. Lei, tramite il suo ufficio stampa, non ha mancato di palesare irritazione profonda contro il richiamo critico che da queste pagine più volte è venuto nei suoi confronti, per l’uso a nostro giudizio minimalistico che lei ha fatto dell’articolo 74, secondo cui “il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione” (non solo dunque la palese anticostituzionalità: qualunque motivo che il Presidente ritenga seriamente argomentabile). Speriamo che in questa circostanza non risponda né con nuova irritazione né con un ancor più preoccupante silenzio.

Vede signor Presidente, a differenza di quanti dichiarano in pericolo la Repubblica, ma che ritengono che proprio per questo lei non vada in nessun modo chiamato in causa, perché costituisce l’estremo usbergo delle libertà repubblicane, io sono profondamente convinto che tacere non sarebbe sintomo di rispetto, ma semmai di disprezzo o comunque di colpevole noncuranza per ciò che lei rappresenta, l’istituzione più alta, “l’unità nazionale” nel vincolo della Costituzione. Quest’unità, questa Costituzione, sono quotidianamente profanate dall’attuale governo.

Contro tali profanazioni lei ha la possibilità di esercitare poteri spesso dalla immediata efficacia pratica, sempre dall’altissimo peso simbolico. E il peso simbolico è nella vita politica spesso decisivo. Perciò la logica, e ancor più il rispetto che porto alla sua Presidenza, mi fanno dire: o i discorsi che sempre più unanimemente sentiamo, e di cui ho citato sopra solo un autorevolissimo esempio, sono irresponsabile demagogia, oppure, se sono veri (e io credo che siano verissimi) la difesa della convivenza civile, garantita dalla nostra Repubblica grazie alla Costituzione nata dalla Resistenza, ha bisogno che lei usi pienamente dei poteri che tale Costituzione le assegna.

È già accaduto nella storia della nostra patria che il mancato esercizio di poteri legittimi abbia consentito a prepotenze illegittime di conquistare il potere, e di legalizzare così la loro illegalità – non ho certo bisogno di ricordarle l’inazione di Luigi Facta, da tutti i democratici retrospettivamente sempre condannata. Lei è di tempra completamente diversa, e per questo mi rivolgo a lei. Entro l’estate si pretenderà la sua firma ad una legge che, impedendo ai magistrati indagini efficaci su crimini gravissimi e mandando in galera i giornalisti che informano, costituisce – tecnicamente parlando – un primo elemento di fascismo vero e proprio.

Carlo Marx scriveva che nella storia le cose si ripetono sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Io non lo credo, perché sono meno ottimista. In Europa scrivono di continuo che l’Italia con Berlusconi sta vivendo nella farsa. Impedire che si trasformi in tragedia dipende da tutti noi, noi cittadini, in primo luogo, e da lei, Presidente, che per tutti gli italiani che ancora credono nella Costituzione è non a caso il “primo cittadino” .

Quando, all’inizio del suo mandato, le rivolsi una “lettera aperta” le chiesi, attraverso il suo addetto stampa, se dovessi usare il “tu” a cui eravamo abituati o il “lei” che mi sembrava più consono dato il suo nuovo ufficio. Mi fece sapere che preferiva continuassi a rivolgermi a lei con il “tu”. Così ho dunque sempre fatto.

Se ora trasgredisco, la prego di credermi che non è certo per sottolineare una distanza o una freddezza di affetto personale. Anzi, sono più che mai solidale con la fatica e l’angoscia che l’esercizio della più alta carica le costa in tempi tanto calamitosi per le libertà repubblicane. Lo faccio solo per sottolineare il rispetto con cui, da cittadino a “primo cittadino”, le rivolgo questo invito accorato e allarmato a fare uso pieno dei suoi poteri contro il “macero delle istituzioni” con cui il governo sta travolgendo il paese. Prima che sia troppo tardi.

(26 giugno 2010)


venerdì 25 giugno 2010

File audio e ricatti: il caso Favata – parte seconda



La conclusione dell'inchiesta sull'uomo che consegnò ai Berlusconi i nastri segreti di Fassino

La seconda puntata dell’inchiesta multimediale sul caso Favata. Ilfattoquotidiano.it in collaborazione con Current TV ha ricostruito il Watergate italiano: la storia del nastro dell’intercettazione segreta e non ancora depositata tra il DS Piero Fassino e l’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte. Un file audio che sarebbe stato consegnato la viglilia di Natale del 2005 a Paolo e Silvio Berlusconi da Roberto Raffaelli, il patron dell’azienda di intercettazioni.

A raccontare con la sua voce questa storia è l’amico di Raffaelli e socio occulto di Paolo Berlusconi Fabrizio Favata, poi finito a San Vittore con l’accusa di estorsione.
Ilfattoquotidiano.it ha rimontato i colloqui tra Favata e Peter Gomez avvenuti prima dell’arresto. E la registrazione di un incontro tra il socio occulto di Paolo Berlusconi e l’avvocato
Piersilvio Cipollotti, assistente del legale del Premier Niccolò Ghedini, consegnata ai magistrati. Oggi per questi fatti Paolo Berlusconi è sotto inchiesta per ricettazione e mllantatato credito. Nulla invece si sa sulla posizione giudiziaria del Premier.

L’inchiesta è divisa in due puntate ed è a cura di Peter Gomez, Lorenzo Galeazzi, Giommaria Monti con le illustrazioni di Emanuele Fucecchi e le animazioni di Andrea Vignali.

Guarda la prima parte dell’inchiesta

Io e Favata. Di Peter Gomez

Scarica l’ordinanza di custodia cautelare ai danni di Fabrizio Favata.