Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 23 maggio 2011
Il vecchio e il premio. - di Vittorio Zucconi
domenica 22 maggio 2011
Berlusconi, Bossi e il conto alla rovescia. - di Peter Gomez
È ovvio, il tentativo del Pdl di contrabbandare per un ritorno agli anni della violenza politica ogni diverbio per questioni elettorali, ogni contestazione ed ogni lite (l’ultima a causa di un cane), può far sorridere. Le roboanti promesse, nel più puro stile del voto di scambio, possono addirittura indignare. Dire “aboliremo l’eco-pass, diminuiremo le tasse e cancelleremo le multe”, significa far ricorso ad argomentazioni che dimostrano come ormai la linea della palma, di cui scriveva tanti anni fa Leonardo Sciascia, abbia ormai superato, e di molto, il Po.
Tutto questo però non basta per credere che davvero gli uomini di Silvio Berlusconi perderanno anche questa tornata di amministrative. Il Cavaliere dopo la “scoppola” di una settimana fa ha, infatti, smesso di tuonare contro i giudici e le istituzioni di garanzia. Ha capito che quella strategia è suicida. Tanto che ora, per convincere chi ha già votato centrodestra a non andare al mare parla di estremismo, violenza, rom e moschee. Il suo obiettivo non è quello di guadagnare nuovi consensi. Ma quello di tenere compatti intorno alla paura i propri elettori. Se voteranno ancora – e dall’altra parte ci sarà un fisiologico aumento degli astenuti – il premier può ancora sperare di agguantare il match in zona Cesarini.
Il campionato, però, appare sempre più chiuso. Questi giorni convulsi e velenosi stanno segnando la vera fine dell’asse Pdl-Lega. Nell’ansia di recuperare Berlusconi non ha solo abbandonato ogni residuo fair play (ma di episodi sconcertanti, stiamone certi, ne vedremo ancora molti). Dal punto di vista politico ha fatto di più e di peggio. Ha garantito qualcosa a tutti i vari leader che ha incontrato. E, proprio come hanno raccontato Umberto Bossi e Roberto Calderoli, ha davvero detto al Carroccio che avrebbe spostato due ministeri a Milano. Solo che non lo ha annunciato al suo partito. Così si è trovato a dover fronteggiare una pericolosa (per lui) rivolta interna che lo ha spinto a una rapida marcia indietro. All’ombra della Madonnina, si giustifica adesso il presidente del Consiglio, arriveranno “probabilmente dei dipartimenti”. E basta.
Troppo poco per evitare a Bossi una nuova figuraccia con i suoi, dopo quella (barbina) sulla guerra a tempo e i bombardamenti in Libia. Anche perché, per la prima volta dopo tanti anni, la Lega deve fare i conti con un’emorragia di consensi. Un qualcosa che va fermato subito, se domani il Carroccio vuole contare ancora.
Per questo da oggi a cercare un nuovo premier, visto che nessuno vuole andare a elezioni politiche anticipate, non sono solo quelli del centrosinistra e del terzo polo. Anche la Lega è al lavoro. Intanto ci ha già pensato Standard & Poor’s a provare a giustificare agli occhi degli italiani la necessità di un governo diverso: con questo paralizzato com’è, dicono gli analisti, le prospettive del Paese sono semplicemente disastrose.
Per Berlusconi, insomma, è iniziato il conto alla rovescia. Se sarà lungo o corto, lo decideranno i ballottaggi.
Piuttosto marmotte.
Leggete la lettera con cui Roberto Innocenti, illustratore famoso nel mondo, respinge l’invito a partecipare alla Biennale di Venezia, la Biennale di Sgarbi: “Se la mia vita dipendesse da questo Stato che ufficialmente mi invita il mio recapito sarebbe c/o Stazione Centrale. È all'estero che ho trovato casualmente e fortunatamente la dignità del lavoro, il rispetto e l'apprezzamento per la qualità e l'impegno, e la condizione più importante per pensare e produrre: la Libertà. In attesa che questo pittoresco Paese si decida ad attuare e rispettare i Principi e i Diritti della sua Splendida Costituzione, distintamente saluto e ringrazio”. L’attesa è finita, siamo all’ultima tappa.
Un abuso da fermare. - di GIUSEPPE D'AVANZO
Un altro limite è stato superato, forse irrimediabilmente. Un prepotente, abusando in modo autoritario del suo potere e del conflitto d'interessi che lo protegge, ha rovesciato il tavolo. Si è assiso dinanzi alle telecamere di tutti i notiziari e, infischiandosene di ogni regola, si è lanciato in messaggi promozionali per i candidati della destra. Che cosa resta più del corretto gioco elettorale dopo questo oltraggio? Ci sono da qualche parte nelle istituzioni le energie e la volontà per mettere fine a questa oscenità per la democrazia? In tutte le battaglie che ha combattuto - politiche, economiche, finanziarie, fino ai conflitti matrimoniali - Berlusconi ha truccato le carte, ingannato gli antagonisti, corrotto gli arbitri, violato le regole del gioco.
Tecnicamente, è un imbroglione perché "ricorre al raggiro in modo abituale". Lo fa anche ora. Ha gli arnesi mediatici a sua disposizione. Li adopera come meglio crede rifiutando ogni autocontrollo, non riconoscendo alcun limite e norma. Dopo giorni di silenzio assordante, il premier s'impadronisce degli schermi televisivi in un illegittimo, abusivo appello alla Nazione frammentato nelle interviste al Tg1, Tg2, Tg5, Tg4, Studio Aperto e al Gr, con uno straniante effetto orwelliano: dovunque fossi sintonizzato, ti raggiungevano la sua voce e le sue parole. Si scrive "interviste", ma l'espressione è alquanto impegnativa per l'umiliante - e servile - spettacolo che tocca osservare. Il Cavaliere quando mette la testa fuori dal Palazzo vuole un ambiente protetto. Riparato e sicuro come il salotto di casa. Così è stato, come d'abitudine anche ieri sera. Mai che l'uomo si avventuri in mare aperto in un confronto pubblico con un suo competitore politico. Si tiene al coperto e getta sulla bilancia non i suoi argomenti (ne ha solo uno da 17 anni e lo vedremo), ma il nudo potere sui media, personali e pubblici. La prepotenza di Berlusconi dovrebbe trovare un contrappeso nelle autorità che custodiscono, per missione o per legge, il principio di uguale chance.
Tace, al contrario, l'Autorità per le garanzie delle comunicazioni a Roma. Non pervenuto alcun accenno alla questione dalla commissione parlamentare di vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi. Nessun imbarazzo dal presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, che posa da inossidabile "liberale", qualsiasi sia il significato che l'uomo attribuisce alla parola. Nessun gemito dal consiglio d'amministrazione dell'azienda pubblica. Non una parola dal nuovo direttore generale della Rai, Lorenza Lei.
In questo silenzio - come definirlo: complice, vile, intimorito, rassegnato? - l'operazione mediatica, predisposta dal premier per ridimensionare la batosta elettorale di domenica scorsa, potrà continuare fino a quando - a babbo morto - i garanti e i custodi dell'equilibrio comunicativo faranno sentire uno spaventoso ruggito del coniglio. È quel che accadrà? O garanti e contrappesi troveranno la decenza di opporvisi? E se non troveranno il decoro della loro funzione pubblica, potremo ancora parlare di una corretta competizione elettorale?
Irrompere così nei notiziari televisivi consegna a Berlusconi un vantaggio manifesto. Anzi, un doppio vantaggio: nascondere la sconfitta del 15 maggio; definire l'agenda dei temi che terranno banco negli ultimi sette giorni che separano le città dal secondo voto. I tempi, in queste faccende, sono essenziali, decisivi. Il premier e il suo staff, con la loro mossa illegale, hanno tenuto in considerazione quel che gli inglesi chiamano "gettare i corpi in mare". Se devi buttar giù un boccone amaro o mostrare una statistica che boccia le tue politiche, non farlo mai di lunedì. Fallo quando l'attenzione è allentata, quando c'è in circolo un'altra notizia più ingombrante. Il venerdì sera è il giorno più adatto, consigliano gli inglesi: tutti pensano al fine settimana e sono distratti.
Berlusconi parla di venerdì sera in notiziari dipendenti o addomesticati e decide di che cosa si discuterà nell'ultimo tratto di campagna elettorale, un'opportunità che consente di decidere anche (o soprattutto) di che cosa non si discute. Per il capo del governo una chance che gli permette di nascondere la sua rumorosa sconfitta, di non discuterne. Nessun intervistatore ha naturalmente osato affrontare la questione. Nessuno ha ricordato ai telespettatori che Berlusconi si è presentato a questo appuntamento amministrativo trasformandolo in referendum politico nazionale sulla sua persona e sul suo governo. Il premier chiedeva consenso - un consenso pieno: due immediate vittorie a Milano e Napoli, due ballottaggi a Torino e Bologna - per manomettere la Costituzione, dichiararsi legibus solutus e piegare i pubblici ministeri al potere dell'esecutivo. Ne ha ricavato, al contrario dei suoi auspici, la vittoria al primo turno delle sinistre a Torino e Bologna, ballottaggi a Milano e a Napoli. A Milano con il candidato della sinistra, Giuliano Pisapia, in vantaggio di sette punti.
Di questa disfatta politica, che lo punisce personalmente, che mostra quanto abbia perso ogni contatto con il Paese e quanto il Paese cominci ad essere insofferente alle sue menzogne, il Cavaliere non vuole a parlare. Non può parlare. Dovrebbe assumersi una responsabilità pubblica e l'informazione serve anche a questo, in fondo, a chiedere al potere di assumersi le sue responsabilità in pubblico. Non è il caso dell'informazione al servizio del Capo che tira via offrendogli la preziosa possibilità di scrivere l'agenda dei temi che terranno banco nella prossima settimana. Quali sono? I soliti, gli stessi di diciassette anni fa. In soldoni, o votate me o i comunisti prenderanno il potere. La filastrocca, ammuffita e noiosa, è sempre uguale. Non c'è un'altra anche se siamo nel 2011. Il premier riesuma una formula politica degli Anni Cinquanta, "le Estreme", per mettere in guardia i milanesi in un discorso dove le parole chiave sono "programma illiberale delle sinistre", "bandiere rosse in città", "Milano, città islamica", "centro sociali dappertutto", "meno tasse per tutti". Nulla di nuovo, l'abituale discorso d'odio (hate speech) ideologico che propone un nemico (le "sinistre estreme", gli "zingari", gli "islamici") per orientarsi nella complessità. Ancora una volta la dottrina di Berlusconi vuole sostituire ogni approfondimento delle informazioni, la concretezza di una discussione, l'efficacia del confronto politico, in una polarizzazione che chiede agli elettori una delega: soltanto io posso difendervi dal nemico in avvicinamento. Un messaggio che Berlusconi intende imporre con la prepotenza e l'abuso di potere. Chi ha il dovere di assicurare l'equilibrio dell'informazione e un corretto confronto politico faccia sentire la sua voce. Subito. Prima che sia troppo tardi.
In questo silenzio - come definirlo: complice, vile, intimorito, rassegnato? - l'operazione mediatica, predisposta dal premier per ridimensionare la batosta elettorale di domenica scorsa, potrà continuare fino a quando - a babbo morto - i garanti e i custodi dell'equilibrio comunicativo faranno sentire uno spaventoso ruggito del coniglio. È quel che accadrà? O garanti e contrappesi troveranno la decenza di opporvisi? E se non troveranno il decoro della loro funzione pubblica, potremo ancora parlare di una corretta competizione elettorale?
Irrompere così nei notiziari televisivi consegna a Berlusconi un vantaggio manifesto. Anzi, un doppio vantaggio: nascondere la sconfitta del 15 maggio; definire l'agenda dei temi che terranno banco negli ultimi sette giorni che separano le città dal secondo voto. I tempi, in queste faccende, sono essenziali, decisivi. Il premier e il suo staff, con la loro mossa illegale, hanno tenuto in considerazione quel che gli inglesi chiamano "gettare i corpi in mare". Se devi buttar giù un boccone amaro o mostrare una statistica che boccia le tue politiche, non farlo mai di lunedì. Fallo quando l'attenzione è allentata, quando c'è in circolo un'altra notizia più ingombrante. Il venerdì sera è il giorno più adatto, consigliano gli inglesi: tutti pensano al fine settimana e sono distratti.
Berlusconi parla di venerdì sera in notiziari dipendenti o addomesticati e decide di che cosa si discuterà nell'ultimo tratto di campagna elettorale, un'opportunità che consente di decidere anche (o soprattutto) di che cosa non si discute. Per il capo del governo una chance che gli permette di nascondere la sua rumorosa sconfitta, di non discuterne. Nessun intervistatore ha naturalmente osato affrontare la questione. Nessuno ha ricordato ai telespettatori che Berlusconi si è presentato a questo appuntamento amministrativo trasformandolo in referendum politico nazionale sulla sua persona e sul suo governo. Il premier chiedeva consenso - un consenso pieno: due immediate vittorie a Milano e Napoli, due ballottaggi a Torino e Bologna - per manomettere la Costituzione, dichiararsi legibus solutus e piegare i pubblici ministeri al potere dell'esecutivo. Ne ha ricavato, al contrario dei suoi auspici, la vittoria al primo turno delle sinistre a Torino e Bologna, ballottaggi a Milano e a Napoli. A Milano con il candidato della sinistra, Giuliano Pisapia, in vantaggio di sette punti.
Di questa disfatta politica, che lo punisce personalmente, che mostra quanto abbia perso ogni contatto con il Paese e quanto il Paese cominci ad essere insofferente alle sue menzogne, il Cavaliere non vuole a parlare. Non può parlare. Dovrebbe assumersi una responsabilità pubblica e l'informazione serve anche a questo, in fondo, a chiedere al potere di assumersi le sue responsabilità in pubblico. Non è il caso dell'informazione al servizio del Capo che tira via offrendogli la preziosa possibilità di scrivere l'agenda dei temi che terranno banco nella prossima settimana. Quali sono? I soliti, gli stessi di diciassette anni fa. In soldoni, o votate me o i comunisti prenderanno il potere. La filastrocca, ammuffita e noiosa, è sempre uguale. Non c'è un'altra anche se siamo nel 2011. Il premier riesuma una formula politica degli Anni Cinquanta, "le Estreme", per mettere in guardia i milanesi in un discorso dove le parole chiave sono "programma illiberale delle sinistre", "bandiere rosse in città", "Milano, città islamica", "centro sociali dappertutto", "meno tasse per tutti". Nulla di nuovo, l'abituale discorso d'odio (hate speech) ideologico che propone un nemico (le "sinistre estreme", gli "zingari", gli "islamici") per orientarsi nella complessità. Ancora una volta la dottrina di Berlusconi vuole sostituire ogni approfondimento delle informazioni, la concretezza di una discussione, l'efficacia del confronto politico, in una polarizzazione che chiede agli elettori una delega: soltanto io posso difendervi dal nemico in avvicinamento. Un messaggio che Berlusconi intende imporre con la prepotenza e l'abuso di potere. Chi ha il dovere di assicurare l'equilibrio dell'informazione e un corretto confronto politico faccia sentire la sua voce. Subito. Prima che sia troppo tardi.
Giustizia, il Pdl prepara il blitz a due giorni dai ballottaggi. - di Liana Milella
Venerdì 27 rapida sfilata dei capi della magistratura e delle polizie a Montecitorio per il parere sulla riforma. Rao (Udc): "Di epocale nel cambiamento voluto da Alfano c'è solo la fretta".
ROMA - Il segnale è preciso. Volutamente lanciato agli elettori che, come Berlusconi, odiano i giudici. Un ordine del giorno per venerdì 27 maggio, immediata vigilia del voto, per rassicurarli e dire loro che questo governo andrà avanti sulla riforma "epocale" della giustizia. La garanzia che si farà in fretta. E che fretta. Quella per cui dalle ore 9 alle 14, per non più di mezz'ora ciascuno, vengono convocati e richiesti del loro parere sulla riforma le massime autorità delle magistrature e della polizia.
Elenco da paura. Nell'ordine: i vertici della Cassazione Lupo ed Esposito, l'avvocato dello Stato Caramazza, il vice presidente del Csm Vietti, il procuratore antimafia Grasso, i presidenti della Corte dei conti Giampaolino e del Consiglio di Stato De Lise, i capi della polizia Manganelli, dei carabinieri Gallitelli, della Gdf Di Paolo. Tutto in cinque ore. Pausa panino e si riparte con i vertici degli avvocati, Camere penali, Consiglio nazionale forense, Oua. Tutti in coda, al quarto piano di Montecitorio, sala del Mappamondo. Di un venerdì pre-elettorale. In un palazzo dove, in ogni venerdì dell'anno, non c'è ombra di deputati.
Con uno sgarbo istituzionale e sostanziale del tutto gratuito ad alcuni dei protagonisti. Perché è fuori di dubbio che, mentre ci si avvia a separare le carriere dei giudici e dei pm e a dividere in due il Csm, forse Vietti ha diritto ad avere qualche minuto in più. Del pari, i capi delle polizie dovranno spiegare bene che succede quando ci si appresta a cambiare il rapporto tra pm e pg. Invece è questo il frettoloso elenco, firmato in calce dal segretario generale della Camera Ugo Zampetti, messo a punto dal presidente della commissione Affari costituzionali Donato Bruno, pidiellino doc e buon amico del Guardasigilli Angelino Alfano, cui ha promesso di trainare a rotta di collo il carro della riforma per dargli la soddisfazione di vederla approvata entro luglio. Il centrista Roberto Rao, braccio destro di Casini, riceve la convocazione ed esplode: "È inaccettabile che a due giorni dal ballottaggio, quasi di nascosto, si convochino le due commissioni per ben tredici audizioni".
Elenco da paura. Nell'ordine: i vertici della Cassazione Lupo ed Esposito, l'avvocato dello Stato Caramazza, il vice presidente del Csm Vietti, il procuratore antimafia Grasso, i presidenti della Corte dei conti Giampaolino e del Consiglio di Stato De Lise, i capi della polizia Manganelli, dei carabinieri Gallitelli, della Gdf Di Paolo. Tutto in cinque ore. Pausa panino e si riparte con i vertici degli avvocati, Camere penali, Consiglio nazionale forense, Oua. Tutti in coda, al quarto piano di Montecitorio, sala del Mappamondo. Di un venerdì pre-elettorale. In un palazzo dove, in ogni venerdì dell'anno, non c'è ombra di deputati.
Con uno sgarbo istituzionale e sostanziale del tutto gratuito ad alcuni dei protagonisti. Perché è fuori di dubbio che, mentre ci si avvia a separare le carriere dei giudici e dei pm e a dividere in due il Csm, forse Vietti ha diritto ad avere qualche minuto in più. Del pari, i capi delle polizie dovranno spiegare bene che succede quando ci si appresta a cambiare il rapporto tra pm e pg. Invece è questo il frettoloso elenco, firmato in calce dal segretario generale della Camera Ugo Zampetti, messo a punto dal presidente della commissione Affari costituzionali Donato Bruno, pidiellino doc e buon amico del Guardasigilli Angelino Alfano, cui ha promesso di trainare a rotta di collo il carro della riforma per dargli la soddisfazione di vederla approvata entro luglio. Il centrista Roberto Rao, braccio destro di Casini, riceve la convocazione ed esplode: "È inaccettabile che a due giorni dal ballottaggio, quasi di nascosto, si convochino le due commissioni per ben tredici audizioni".
E mentre tira già aria di defezione tra i protagonisti, infastiditi dalla ressa e dall'oggettiva impossibilità di esporre una linea, Rao aggiunge: "È un'offesa all'intelligenza degli auditi e di noi tutti. La maggioranza vuole strozzare la discussione della riforma. In cui di "epocale", a questo punto, c'è solo la fretta con cui annuncia l'ennesimo spot, utile forse per i ballottaggi, ma di certo non per la giustizia". Allarme anche in casa Pd dove si preparano a dare battaglia il responsabile Giustizia Andrea Orlando e la capogruppo in commissione Giustizia Donatella Ferranti. Ma intanto conta la "carta", quel foglio che prova la voglia del Cavaliere di andare alla resa dei conti.
L'estremista Golia e il David moderato. - di EUGENIO SCALFARI
L'INVASIONE televisiva di Berlusconi è un fatto vergognoso che si ripresenta ad ogni campagna elettorale, alla faccia della "par condicio" dietro la quale si riparano i berluschini. La novità di questa volta consiste - per quanto possiamo cogliere dalle prime reazioni del pubblico - nell'inefficacia del messaggio berlusconiano: è passato come acqua sul vetro. Se quello è lo strumento per rimontare la sconfitta subita dal centrodestra nel primo turno elettorale, tutto porta a ritenere che il risultato dei ballottaggi confermerà che il "tappo è saltato" e la fascinazione mediatica del Cavaliere di Arcore è ormai diventata una logora liturgia che non riesce più a sedurre i fedeli ormai in libera uscita.
La domanda che a questo punto si pone riguarda la Lega, poiché la sconfitta del Pdl al primo turno elettorale ha scompaginato il leghismo altrettanto se non addirittura di più. Come si spiega questo fenomeno del tutto inatteso? Dipende da un parziale disimpegno di Bossi e dei suoi colonnelli? Da errori commessi soprattutto nella politica dell'immigrazione? Oppure anche nella Lega come nel Pdl, da una crisi del carisma del leader? Anche per la Lega il tappo di bottiglia è saltato?
Le risposte a queste domande sono di importanza capitale per l'intera situazione politica. La Lega è infatti un partito territoriale che detiene però la "golden share" del governo nazionale. Aveva puntato su un travaso di voti in tutto il Nord dal Pdl a proprio favore.
Non solo quel travaso non è avvenuto, ma la Lega ha perso massicciamente voti. Perché? I dati sui flussi segnalano due fenomeni molto diversi tra loro. I leghisti "puri e duri" sono profondamente scontenti della politica "moderata" di Bossi e di Maroni sull'immigrazione; vorrebbero che gli immigrati, clandestini o profughi, siano ributtati a mare, non siano fatti sbarcare, siano comunque respinti subito dopo lo sbarco, non gli vengano dati permessi di soggiorno sia pure transitori. Si collocano cioè molto più a destra dello stato maggiore leghista e questo spiega il mutamento tattico della leadership in senso massimalista per riguadagnare i voti perduti nel primo turno elettorale
Ma si è anche verificato un deflusso di voti di chi ha negli anni scorsi votato per la Lega senza essere leghista nel senso proprio del termine. Questo secondo tipo di deflusso si spiega con motivazioni del tutto opposte alla precedente: un richiamo al patriottismo nazionale patrocinato dal Presidente della Repubblica, un crescente disagio per i comportamenti di Berlusconi nei confronti della magistratura e dello stesso Capo dello Stato, un giudizio severo su Letizia Moratti; infine e soprattutto una critica forte della politica economica del governo e quindi della Lega che ne fa parte determinante.
Questo secondo tipo di deflusso non è facilmente riassorbibile e rischia addirittura di aumentare di fronte al massimalismo filo-berlusconiano messo in scena da Bossi in queste ultime ore. Due tappi di bottiglia stanno saltando contemporaneamente?
* * *
Molti osservatori, di quelli cosiddetti "distaccati" (ma sono mai esistiti osservatori distaccati? Non è anche il distacco un'ideologia?) hanno fissato la loro lente sul Partito democratico del quale segnalano una deriva a sinistra. E la deprecano. Dio sa perché.
Ma i distaccati hanno la risposta pronta: il Pd ha dimenticato i moderati? Li lascia tra le braccia accoglienti di Berlusconi? Bersani abbandona Casini per inseguire Vendola e Di Pietro? Pisapia sarà sicuramente un galantuomo, De Magistris assai meno, ma tutti e due sono a sinistra; i moderati sono un'altra cosa, la pancia dell'Italia è moderata. E allora dove andrà a sbattere Bersani?
Sono domande insidiose, dettate dal senso comune che non sempre coincide con il buonsenso. Si potrebbe rispondere con altre domande: Berlusconi è un moderato? La Santanché è moderata? Sallusti e Belpietro sono moderati? Stracquadanio è moderato? E la Brambilla? E la Gelmini? Non si tratta di personaggi di periferia, fanno parte dell'"inner circle" del presidente del Consiglio. Se questi sono i moderati, si salvi chi può.
E tuttavia non è questa la risposta giusta da dare. Il tema proposto dagli osservatori distaccati merita un approfondimento oggettivo e una risposta adeguata.
* * *
Le vicende dell'economia globale e della crisi sociale che ne è stata conseguenza hanno determinato negli ultimi mesi fenomeni di portata mondiale che anche l'Italia ha inevitabilmente registrato. Il nostro governo riteneva, dopo averne pervicacemente negato l'esistenza fin quando ha potuto, che la crisi fosse ormai alle nostre spalle. Le Cassandre (tra le quali noi in prima fila) avvertivano invece che il peggio non era ancora arrivato. Infatti.
Proprio ieri mattina la grande agenzia di rating "Standard & Poor's" ha declassato il giudizio sul "trend" dell'economia italiana da "stabile" a "negativo". Non c'è alcun segnale di crescita. Non c'è uno straccio di riforma capace di riavviare lo sviluppo. L'Europa chiede una manovra per rafforzare i conti pubblici e avviare una consistente diminuzione del debito. Tremonti la valuta sui 14 miliardi da effettuare per due anni di seguito; la Banca d'Italia ha parlato di 40, l'opposizione la valuta in 60.
Dovrebbe servire a portare il bilancio in pareggio e a ridurre sia il deficit sia il livello della spesa corrente la quale, dal canto suo, dovrebbe esser ridotta di due punti di Pil all'anno nel prossimo triennio.
Una cura da cavallo, in presenza di un "trend" al rialzo dei tassi d'interesse in tutto il mondo a cominciare dall'Europa.
In queste condizioni i giovani che hanno visto confiscato il loro futuro stanno insorgendo in tutti i paesi della costa mediterranea e mediorientale.
Cominciò la Tunisia, seguirono l'Egitto, gli Emirati, lo Yemen, la Libia, la Siria, perfino l'Iran. La settimana scorsa il vento della rivolta è sbarcato in Spagna e da lì riecheggia anche da noi.
Questi giovani non hanno futuro. Le classi dirigenti gliel'hanno confiscato e loro vogliono riappropriarsene. È molto difficile fare spallucce ad una richiesta così corale, che non ha per ora alcuna canalizzazione politica, anzi si colora di antipolitica. Si tratta d'una spinta sociale che però ha trovato uno sponsor fin qui imprevisto ma estremamente autorevole: il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. "Non sappiamo quali ne saranno gli sbocchi" ha detto tre giorni fa dal Dipartimento di Stato "ma sappiamo che questi giovani chiedono futuro e libertà e l'America democratica deve appoggiarli".
E l'Europa? E l'Italia?
* * *
Perciò la risposta che oggettivamente si deve dare agli osservatori distaccati è questa: le forze politiche democratiche, a cominciare dal Pd che è il maggior partito d'opposizione, non possono che stare sulla linea di Barack Obama, il che significa prendere atto che l'asse sociale della politica italiana si è spostato a sinistra. Questo è il senso del risveglio registrato nel primo turno elettorale: uno spostamento sociale a sinistra. A cominciare dai moderati. Le donne e i giovani in particolare. Chiedono futuro e libertà, pane e libertà, diritti e libertà, lavoro e libertà, civismo e libertà. Non sono anarchici. Non sono estremisti. Non sono "contro" ma sono "per".
Il Partito democratico - se vogliamo parlare di una formazione politica che è coinvolta direttamente in queste vicende - sembra aver compreso questi nuovi elementi di realtà e sembra aver deciso, finalmente compatto, in questa decisione, di gettare tutto il peso di cui dispone in questa battaglia.
Rileggete quelle parole sopracitate che terminano sempre con la parola libertà alla quale accoppiano le parole: futuro, pane, lavoro, diritti, civismo. Questo è il programma, questo il percorso, questo dovrebbe essere il patto generazionale che coinvolga le forze sindacali, l'imprenditoria, gli artigiani, le partite Iva, gli agricoltori, gli studenti, i docenti, l'impiego pubblico e privato. Questo è il nuovo blocco sociale.
I moderati innovatori e liberali sono al centro di questo blocco. I moderati conservatori sono contro e per la forza delle cose sono diventati estremisti.
Sapremo domenica prossima chi avrà avuto la meglio questa volta, ma la strada è ormai disegnata.
* * *
Dedico il finale a un problema specifico del quale tuttavia non può sfuggire l'importanza. Si tratta di colmare il vuoto che Mario Draghi lascerà nel prossimo novembre quando assumerà la sua nuova carica di presidente della Banca centrale europea. Chi sarà il suo successore alla Banca d'Italia? L'importanza delle Banche centrali nazionali è molto diminuita in questi ultimi dieci anni. L'intera politica monetaria è passata nelle mani della Bce e con la politica monetaria anche la fissazione dei tassi d'interesse, il tasso di cambio dell'euro e la vigilanza sul sistema bancario europeo nel suo complesso. Alle Banche centrali nazionali (i cui governatori fanno parte del Consiglio della Bce) è rimasta la vigilanza sulle banche del proprio paese sotto la supervisione della Bce e soprattutto la formazione dei quadri e lo studio dei dati strutturali e congiunturali del paese in questione.
Monitoraggio e pilotaggio intellettuale, in costante raccordo con le autorità nazionali preposte alla politica del bilancio, cioè con i rispettivi ministri del Tesoro e delle Finanze.
Non ripeteremo qui ciò che è stato ampiamente scritto nei giorni scorsi a proposito di Mario Draghi. La sua presenza alla Banca d'Italia e la sua presidenza d'un organismo internazionale che ha studiato e messo in opera alcune riforme essenziali per la stabilità dei mercati, sono state il "pedigree" sulla base del quale è stato scelto a guidare la Bce. La nazionalità italiana non gli ha giocato né contro né a favore, a quei livelli la sola nazionalità che conta è quella europea. Avrà un compito delicatissimo in questa fase di crisi perdurante, tra spinte all'inflazione e pericoli di deflazione, acquisti su un mercato aperto di titoli di Stato dei paesi europei, debiti sovrani al limite del "default", politiche tributarie ancora fortemente differenziate e tassi di sviluppo altrettanto divergenti tra i vari paesi.
C'è una sola via ed un solo sovrastante obiettivo da perseguire per chi guida la Bce - oltre alle capacità operative da mettere in campo: accrescere il potere delle istituzioni europee rispetto a quelle nazionali. Draghi ne è perfettamente consapevole e crediamo di sapere che opererà in quella direzione.
Il suo successore a Roma non ha comunque un ruolo secondario. Anzitutto partecipa con i colleghi degli altri paesi dell'euro-gruppo, alle decisioni della Bce. In Italia è il principale interlocutore del ministro dell'Economia.
Le due istituzioni (ministro e governatore) hanno poteri e ruoli autonomi ma convergenti. Non sono subordinati l'uno all'altro mai si muovono comunque all'interno di un sistema che non sopporterebbe scosse violente e comportamenti difformi. Autonomia all'interno del sistema: è un obiettivo indispensabile anche se non facile da raggiungere.
La scelta del nuovo governatore, che dura in carica sei anni, è dunque delicata ed avviene sulla base di una concertazione tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, con un decreto da entrambi firmato.
La tradizione consolidata vorrebbe che il governatore sia scelto all'interno dell'Istituto. Luigi Einaudi veniva da fuori, ma fu il primo governatore del dopoguerra ed era ovvio che la scelta non potesse in quel caso che essere esterna. Menichella, Baffi, Ciampi, Fazio, provengono tutti dall'interno dell'Istituto e di fatto anche Carli perché quando fu nominato direttore generale e poi governatore proveniva dalla presidenza dell'Ufficio dei cambi che era posseduto interamente dalla Banca d'Italia.
La sola vera eccezione è stata proprio quella di Mario Draghi.
La tradizione vorrebbe dunque che si scelga all'interno tra i membri del Direttorio, dove non mancano personalità di livello europeo. Per una scelta al di fuori i nomi adeguati non mancano. Spetta comunque a Napolitano e a Berlusconi vagliare le diverse personalità e decidere di conseguenza.
Auguri a loro e al prescelto.
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Molti osservatori, di quelli cosiddetti "distaccati" (ma sono mai esistiti osservatori distaccati? Non è anche il distacco un'ideologia?) hanno fissato la loro lente sul Partito democratico del quale segnalano una deriva a sinistra. E la deprecano. Dio sa perché.
Ma i distaccati hanno la risposta pronta: il Pd ha dimenticato i moderati? Li lascia tra le braccia accoglienti di Berlusconi? Bersani abbandona Casini per inseguire Vendola e Di Pietro? Pisapia sarà sicuramente un galantuomo, De Magistris assai meno, ma tutti e due sono a sinistra; i moderati sono un'altra cosa, la pancia dell'Italia è moderata. E allora dove andrà a sbattere Bersani?
Sono domande insidiose, dettate dal senso comune che non sempre coincide con il buonsenso. Si potrebbe rispondere con altre domande: Berlusconi è un moderato? La Santanché è moderata? Sallusti e Belpietro sono moderati? Stracquadanio è moderato? E la Brambilla? E la Gelmini? Non si tratta di personaggi di periferia, fanno parte dell'"inner circle" del presidente del Consiglio. Se questi sono i moderati, si salvi chi può.
E tuttavia non è questa la risposta giusta da dare. Il tema proposto dagli osservatori distaccati merita un approfondimento oggettivo e una risposta adeguata.
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Le vicende dell'economia globale e della crisi sociale che ne è stata conseguenza hanno determinato negli ultimi mesi fenomeni di portata mondiale che anche l'Italia ha inevitabilmente registrato. Il nostro governo riteneva, dopo averne pervicacemente negato l'esistenza fin quando ha potuto, che la crisi fosse ormai alle nostre spalle. Le Cassandre (tra le quali noi in prima fila) avvertivano invece che il peggio non era ancora arrivato. Infatti.
Proprio ieri mattina la grande agenzia di rating "Standard & Poor's" ha declassato il giudizio sul "trend" dell'economia italiana da "stabile" a "negativo". Non c'è alcun segnale di crescita. Non c'è uno straccio di riforma capace di riavviare lo sviluppo. L'Europa chiede una manovra per rafforzare i conti pubblici e avviare una consistente diminuzione del debito. Tremonti la valuta sui 14 miliardi da effettuare per due anni di seguito; la Banca d'Italia ha parlato di 40, l'opposizione la valuta in 60.
Dovrebbe servire a portare il bilancio in pareggio e a ridurre sia il deficit sia il livello della spesa corrente la quale, dal canto suo, dovrebbe esser ridotta di due punti di Pil all'anno nel prossimo triennio.
Una cura da cavallo, in presenza di un "trend" al rialzo dei tassi d'interesse in tutto il mondo a cominciare dall'Europa.
In queste condizioni i giovani che hanno visto confiscato il loro futuro stanno insorgendo in tutti i paesi della costa mediterranea e mediorientale.
Cominciò la Tunisia, seguirono l'Egitto, gli Emirati, lo Yemen, la Libia, la Siria, perfino l'Iran. La settimana scorsa il vento della rivolta è sbarcato in Spagna e da lì riecheggia anche da noi.
Questi giovani non hanno futuro. Le classi dirigenti gliel'hanno confiscato e loro vogliono riappropriarsene. È molto difficile fare spallucce ad una richiesta così corale, che non ha per ora alcuna canalizzazione politica, anzi si colora di antipolitica. Si tratta d'una spinta sociale che però ha trovato uno sponsor fin qui imprevisto ma estremamente autorevole: il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. "Non sappiamo quali ne saranno gli sbocchi" ha detto tre giorni fa dal Dipartimento di Stato "ma sappiamo che questi giovani chiedono futuro e libertà e l'America democratica deve appoggiarli".
E l'Europa? E l'Italia?
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Perciò la risposta che oggettivamente si deve dare agli osservatori distaccati è questa: le forze politiche democratiche, a cominciare dal Pd che è il maggior partito d'opposizione, non possono che stare sulla linea di Barack Obama, il che significa prendere atto che l'asse sociale della politica italiana si è spostato a sinistra. Questo è il senso del risveglio registrato nel primo turno elettorale: uno spostamento sociale a sinistra. A cominciare dai moderati. Le donne e i giovani in particolare. Chiedono futuro e libertà, pane e libertà, diritti e libertà, lavoro e libertà, civismo e libertà. Non sono anarchici. Non sono estremisti. Non sono "contro" ma sono "per".
Il Partito democratico - se vogliamo parlare di una formazione politica che è coinvolta direttamente in queste vicende - sembra aver compreso questi nuovi elementi di realtà e sembra aver deciso, finalmente compatto, in questa decisione, di gettare tutto il peso di cui dispone in questa battaglia.
Rileggete quelle parole sopracitate che terminano sempre con la parola libertà alla quale accoppiano le parole: futuro, pane, lavoro, diritti, civismo. Questo è il programma, questo il percorso, questo dovrebbe essere il patto generazionale che coinvolga le forze sindacali, l'imprenditoria, gli artigiani, le partite Iva, gli agricoltori, gli studenti, i docenti, l'impiego pubblico e privato. Questo è il nuovo blocco sociale.
I moderati innovatori e liberali sono al centro di questo blocco. I moderati conservatori sono contro e per la forza delle cose sono diventati estremisti.
Sapremo domenica prossima chi avrà avuto la meglio questa volta, ma la strada è ormai disegnata.
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Dedico il finale a un problema specifico del quale tuttavia non può sfuggire l'importanza. Si tratta di colmare il vuoto che Mario Draghi lascerà nel prossimo novembre quando assumerà la sua nuova carica di presidente della Banca centrale europea. Chi sarà il suo successore alla Banca d'Italia? L'importanza delle Banche centrali nazionali è molto diminuita in questi ultimi dieci anni. L'intera politica monetaria è passata nelle mani della Bce e con la politica monetaria anche la fissazione dei tassi d'interesse, il tasso di cambio dell'euro e la vigilanza sul sistema bancario europeo nel suo complesso. Alle Banche centrali nazionali (i cui governatori fanno parte del Consiglio della Bce) è rimasta la vigilanza sulle banche del proprio paese sotto la supervisione della Bce e soprattutto la formazione dei quadri e lo studio dei dati strutturali e congiunturali del paese in questione.
Monitoraggio e pilotaggio intellettuale, in costante raccordo con le autorità nazionali preposte alla politica del bilancio, cioè con i rispettivi ministri del Tesoro e delle Finanze.
Non ripeteremo qui ciò che è stato ampiamente scritto nei giorni scorsi a proposito di Mario Draghi. La sua presenza alla Banca d'Italia e la sua presidenza d'un organismo internazionale che ha studiato e messo in opera alcune riforme essenziali per la stabilità dei mercati, sono state il "pedigree" sulla base del quale è stato scelto a guidare la Bce. La nazionalità italiana non gli ha giocato né contro né a favore, a quei livelli la sola nazionalità che conta è quella europea. Avrà un compito delicatissimo in questa fase di crisi perdurante, tra spinte all'inflazione e pericoli di deflazione, acquisti su un mercato aperto di titoli di Stato dei paesi europei, debiti sovrani al limite del "default", politiche tributarie ancora fortemente differenziate e tassi di sviluppo altrettanto divergenti tra i vari paesi.
C'è una sola via ed un solo sovrastante obiettivo da perseguire per chi guida la Bce - oltre alle capacità operative da mettere in campo: accrescere il potere delle istituzioni europee rispetto a quelle nazionali. Draghi ne è perfettamente consapevole e crediamo di sapere che opererà in quella direzione.
Il suo successore a Roma non ha comunque un ruolo secondario. Anzitutto partecipa con i colleghi degli altri paesi dell'euro-gruppo, alle decisioni della Bce. In Italia è il principale interlocutore del ministro dell'Economia.
Le due istituzioni (ministro e governatore) hanno poteri e ruoli autonomi ma convergenti. Non sono subordinati l'uno all'altro mai si muovono comunque all'interno di un sistema che non sopporterebbe scosse violente e comportamenti difformi. Autonomia all'interno del sistema: è un obiettivo indispensabile anche se non facile da raggiungere.
La scelta del nuovo governatore, che dura in carica sei anni, è dunque delicata ed avviene sulla base di una concertazione tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, con un decreto da entrambi firmato.
La tradizione consolidata vorrebbe che il governatore sia scelto all'interno dell'Istituto. Luigi Einaudi veniva da fuori, ma fu il primo governatore del dopoguerra ed era ovvio che la scelta non potesse in quel caso che essere esterna. Menichella, Baffi, Ciampi, Fazio, provengono tutti dall'interno dell'Istituto e di fatto anche Carli perché quando fu nominato direttore generale e poi governatore proveniva dalla presidenza dell'Ufficio dei cambi che era posseduto interamente dalla Banca d'Italia.
La sola vera eccezione è stata proprio quella di Mario Draghi.
La tradizione vorrebbe dunque che si scelga all'interno tra i membri del Direttorio, dove non mancano personalità di livello europeo. Per una scelta al di fuori i nomi adeguati non mancano. Spetta comunque a Napolitano e a Berlusconi vagliare le diverse personalità e decidere di conseguenza.
Auguri a loro e al prescelto.
Dirigenti senza concorso e laurea E il ministro Brunetta tace. - di Bianca Di Giovanni
Altro che lotta ai fannulloni, tornelli, stipendi bloccati, scatti di anzianità eliminati. In tutta questa foga anti-pubblici, il governo targato Berlusconi e in particolare il vulcanico «Torquemada» del pubblico impiego Renato Brunetta hanno lasciato crescere a piacimento larghe nicchie di privilegi, di cui nessuno pare accorgersi.
Un dato valga per tutti: attualmente tra i dirigenti della Pubblica amministrazione ci sono circa 37 lavoratori che non hanno neanche la laurea (con una forte presenza a Palazzo Chigi), titolo che pure sarebbe richiesto per ricoprire quel ruolo. Come mai? E ancora: nonostante il rigorismo del governo, oltre a non avere una laurea, alcuni dirigenti non hanno neanche affrontato un concorso pubblico: eppure la selezione per l’ingresso nella pubblica amministrazione sarebbe richiesta addirittura dalla Carta Costituzionale. Insomma, c’è un «ramo storto» (tanto per usare un’espressione cara al ministro Giulio Tremonti) che tutti fingono di non vedere, mentre si esercitano su rabbiose lotte agli sprechi.
Una di queste «storie fantastiche» sta avvenendo proprio in questi giorni. Dopo una procedura di qualche mese (dall’estate scorsa), oggi i 17 dirigenti dell’Ipi (Istituto per la promozione industriale) «inglobati» nel ministero dello Sviluppo economico hanno scelto le divisioni da dirigere, e in breve tempo formalizzeranno il contratto. Due di loro sono sprovvisti del titolo universitario, ma fa lo stesso: stanno con tutti gli altri. Il tutto si deve a un paio di paragrafi dell’ultima manovra estiva di Giulio Tremonti: quella che ha tagliato in modo lineare stipendi, spese ministeriali e degli organi costituzionali.
Dopo una sforbiciata generalizzata, il solito annuncio della soppressione di enti «inutili» (se ne parla da anni, ma qualcosa di «inutile» resta sempre), con tanto di lista allegata, 15 sigle. Appena qualche riga, che dispone di centinaia di lavoratori dimenticando tutte le norme che regolano l’ingresso nelle strutture pubbliche. «Il personale a tempo indeterminato attualmente in servizio presso i predetti enti è trasferito alle amministrazioni e agli enti rispettivamente individuati - si legge nella legge - e sono inquadrati sulla base di un'apposita tabella di corrispondenza approvata con decreto del ministro interessato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione».
Insomma, scomparse le sigle, i dipendenti sono stati trasferiti «sic et simpliciter» nell’organico di altre strutture, in barba anche all’economicità dell’operazione annunciata. [
Il bello (si fa per dire) è che l’Ipi era un’associazione di natura privatistica, iscritta alla Camera di Commercio, ma detenuta per il oltre il 90% dallo Stato e per il resto da Unioncamere. Di fatto era il frutto di una lunga serie di «mutazioni genetiche» prodotte dalla fine della Prima Repubblica. Dalle ceneri della vecchia Agensud (che però era di natura pubblica) con i suoi enti collegati nacquero altre entità, tra cui per l’appunto l’Ipi. Molte funzioni passarono al ministero dell’Industria, che utilizzò questi enti esterni (nel frattempo diventati giuridicamente privati) per attingere a nuove professionalità, rimaste escluse dagli organci della pubblica amministrazione per via dei blocchi delle varie Finanziarie.
Così l’Ipi diventò una sorta di «agenzia interinale» di Via Veneto, per governi di tutti i colori politici. Lì lavoravano parecchie figure «pescate» sul mercato. Mentre l’amministrazione pubblica «dimagriva» per effetto del pensionamento e del blocco del turn-over, continuava ad ingrassare questa area grigia, alimentata anche dalla longa manus della politica, abituata a distribuire posti e carriere anche nella Seconda Repubblica, senza il rispetto delle procedure pubbliche. Naturalmente nel trasferimento tra l’Ipi e il ministero dello Sviluppo c’è chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso. Alcuni funzionari, ad esempio, con quelle «tabelle di trasferimento» di cui parla la legge, hanno visto falcidiati i loro compensi. Sta di fatto, però, che tra i dirigenti i bene informati parlano di alcuni stipendi tra i 110mila e i 180mila euro annui. Molto di più di un dirigente laureato e assunto per concorso: certamente superiore a un direttore generale nel caso dei 185mila euro.
http://www.unita.it/italia/dirigenti-senza-concorso-e-laurea-br-e-il-ministro-brunetta-tace-1.295683
Un dato valga per tutti: attualmente tra i dirigenti della Pubblica amministrazione ci sono circa 37 lavoratori che non hanno neanche la laurea (con una forte presenza a Palazzo Chigi), titolo che pure sarebbe richiesto per ricoprire quel ruolo. Come mai? E ancora: nonostante il rigorismo del governo, oltre a non avere una laurea, alcuni dirigenti non hanno neanche affrontato un concorso pubblico: eppure la selezione per l’ingresso nella pubblica amministrazione sarebbe richiesta addirittura dalla Carta Costituzionale. Insomma, c’è un «ramo storto» (tanto per usare un’espressione cara al ministro Giulio Tremonti) che tutti fingono di non vedere, mentre si esercitano su rabbiose lotte agli sprechi.
Una di queste «storie fantastiche» sta avvenendo proprio in questi giorni. Dopo una procedura di qualche mese (dall’estate scorsa), oggi i 17 dirigenti dell’Ipi (Istituto per la promozione industriale) «inglobati» nel ministero dello Sviluppo economico hanno scelto le divisioni da dirigere, e in breve tempo formalizzeranno il contratto. Due di loro sono sprovvisti del titolo universitario, ma fa lo stesso: stanno con tutti gli altri. Il tutto si deve a un paio di paragrafi dell’ultima manovra estiva di Giulio Tremonti: quella che ha tagliato in modo lineare stipendi, spese ministeriali e degli organi costituzionali.
Dopo una sforbiciata generalizzata, il solito annuncio della soppressione di enti «inutili» (se ne parla da anni, ma qualcosa di «inutile» resta sempre), con tanto di lista allegata, 15 sigle. Appena qualche riga, che dispone di centinaia di lavoratori dimenticando tutte le norme che regolano l’ingresso nelle strutture pubbliche. «Il personale a tempo indeterminato attualmente in servizio presso i predetti enti è trasferito alle amministrazioni e agli enti rispettivamente individuati - si legge nella legge - e sono inquadrati sulla base di un'apposita tabella di corrispondenza approvata con decreto del ministro interessato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione».
Insomma, scomparse le sigle, i dipendenti sono stati trasferiti «sic et simpliciter» nell’organico di altre strutture, in barba anche all’economicità dell’operazione annunciata. [
Il bello (si fa per dire) è che l’Ipi era un’associazione di natura privatistica, iscritta alla Camera di Commercio, ma detenuta per il oltre il 90% dallo Stato e per il resto da Unioncamere. Di fatto era il frutto di una lunga serie di «mutazioni genetiche» prodotte dalla fine della Prima Repubblica. Dalle ceneri della vecchia Agensud (che però era di natura pubblica) con i suoi enti collegati nacquero altre entità, tra cui per l’appunto l’Ipi. Molte funzioni passarono al ministero dell’Industria, che utilizzò questi enti esterni (nel frattempo diventati giuridicamente privati) per attingere a nuove professionalità, rimaste escluse dagli organci della pubblica amministrazione per via dei blocchi delle varie Finanziarie.
Così l’Ipi diventò una sorta di «agenzia interinale» di Via Veneto, per governi di tutti i colori politici. Lì lavoravano parecchie figure «pescate» sul mercato. Mentre l’amministrazione pubblica «dimagriva» per effetto del pensionamento e del blocco del turn-over, continuava ad ingrassare questa area grigia, alimentata anche dalla longa manus della politica, abituata a distribuire posti e carriere anche nella Seconda Repubblica, senza il rispetto delle procedure pubbliche. Naturalmente nel trasferimento tra l’Ipi e il ministero dello Sviluppo c’è chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso. Alcuni funzionari, ad esempio, con quelle «tabelle di trasferimento» di cui parla la legge, hanno visto falcidiati i loro compensi. Sta di fatto, però, che tra i dirigenti i bene informati parlano di alcuni stipendi tra i 110mila e i 180mila euro annui. Molto di più di un dirigente laureato e assunto per concorso: certamente superiore a un direttore generale nel caso dei 185mila euro.
http://www.unita.it/italia/dirigenti-senza-concorso-e-laurea-br-e-il-ministro-brunetta-tace-1.295683
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